Diritto alimentare. Differenza tra cattiva conservazione ed alterazione degli alimenti. Cassazione Penale.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 41558 del 12 settembre 2017 (ud. del 19 luglio 2017)

Pres. Amoresano, Est. Galtiero

Diritto alimentare. Differenza tra cattiva conservazione ed alterazione degli alimenti. Cattive condizioni generali di conservazione e mancanza delle prescritte autorizzazioni sanitarie. Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari. Reato di danno a tutela del c.d. ordine alimentare. Art. 5 lett. b) e d) L. n. 283/1962.

Lo stato di cattiva conservazione degli alimenti, può concernere sia le caratteristiche intrinseche che le modalità estrinseche di conservazione del prodotto, riguardando quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate e messe in vendita senza l’osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire pericoli di deterioramento o nocumento dell’alimento, senza che rilevi a tal fine la produzione di un danno alla salute, attesa la sua natura di reato di danno a tutela del c.d. ordine alimentare, volto ad assicurare che il prodotto giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte dalla sua natura (SS. UU., n. 443 del 19/12/2001 – dep. 09/01/2002, Butti e altro; Sez. III, n. 40772 del 05/05/2015 – dep. 12/10/2015, Torcetta). L’alterazione degli alimenti definisce, per contro, la presenza di un processo modificativo di una sostanza alimentare che diviene altra da sè per un fenomeno di spontanea degenerazione, la cui origine può essere dovuta all’azione di agenti fisici, quali ad esempio la luce o il calore, ovvero chimici, tra i quali si collocano i microorganismi viventi, agevolati dall’azione dell’umidità, quali batteri, muffe, funghi e via dicendo (Sez. III, n. 18098 del 28/02/2012, Siciliano; Sez. VI, n. 8935 del 18/03/1994): a differenza dell’ipotesi di cui alla lettera b) della L. 283/1962 l’alterazione degli alimenti destinati alla vendita presuppone che la mutazione della sostanza sia già avvenuta, e che si sia perciò già verificato il pericolo per la salute pubblica, scaturente da una presunzione assoluta operata dal legislatore, in cui si sostanzia il bene giuridico tutelato dalla disposizione incriminatrice. Fattispecie: sequestro di circa 8.000 forme di formaggi stagionati e 32 forme di formaggio vaccino, riguardanti il cattivo stato di conservazione e lo stato di alterazione dei suddetti alimenti in quanto insudiciati, invasi da parassiti o sottoposti a trattamenti volti a mascherare lo stato di deterioramento.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 41558 del 12 settembre 2017 (ud. del 19 luglio 2017)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA 
sul ricorso proposto da FLACE NICOLA, nato a Santeramo in Colle il 27.7.1971;
avverso la ordinanza in data 31.1.2017 del Tribunale di Bari visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Donatella Galterio;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Pasquale Fimiani che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 31.1.2017 il Tribunale di Bari ha rigettato la richiesta di restituzione delle sostanze alimentari sottoposte a sequestro, costituite da circa 8.000 forme di formaggi stagionati e 32 forme di formaggio vaccino, svolta da Nicola Flace, indagato per i reati di cui all’art.5 lett.b) e d) l.283/1962 riguardanti il cattivo stato di conservazione e lo stato di alterazione dei suddetti alimenti in quanto insudiciati, invasi da parassiti o sottoposti a trattamenti volti a mascherare lo stato di deterioramento.
Avverso il suddetto provvedimento l’indagato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione con il quale lamenta che la natura del reato in contestazione non esime dalla verifica in concreto della pericolosità degli alimenti e della conseguente attitudine degli stessi a cagionare un danno alla salute, nella specie esclusa dai risultati negativi delle analisi di laboratorio cui i prodotti caseari sono stati sottoposti.
Duplice è pertanto la contestazione svolta dal ricorrente sul disposto sequestro probatorio, appuntandosi sulla insussistenza del fumus commissi delicti e sulla cessazione delle esigenze probatorie. In relazione al primo profilo sostiene che non sia stata considerata la peculiare circostanza che i caciocavalli sono formaggi affinati alle muffe, onde illegittima deve ritenersi la contestazione relativa a cattive condizioni di conservazione per la presenza di muffe visibili ad occhio nudo che invece rappresentano l’effetto volontariamente indotto dal produttore per quel tipo di stagionatura. In ordine al secondo argomento di censura deduce che il mantenimento del sequestro è escluso dalla cessazione delle esigenze probatorie, dichiarata dallo stesso giudice nella motivazione del provvedimento impugnato, senza che possa a ciò essere ritenuta di ostacolo la natura obbligatoria della confisca da disporsi in caso di condanna atteso che la disposizione contenuta nell’art.324, 7 comma c.p.p. costituisce un’eccezione alla regola generale della revocabilità del sequestro e, come tale, insuscettibile, di interpretazione estensiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non può ritenersi fondato.
Le sostanze alimentari oggetto del disposto sequestro probatorio rientrano, in ragione dei reati ipotizzati consistenti non solo nella loro alterazione per la presenza di muffe, ma altresì nelle cattive condizioni generali di conservazione e nella mancanza delle prescritte autorizzazioni sanitarie, tra i beni la cui detenzione costituisce reato in conformità all’art. 5 lett. b) e d) della legge 283/1962, concernente la disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari.
Deve infatti essere rilevato in ordine al fumus commissi delicti che le fattispecie in contestazione si riferiscono a due autonome e distinte figure di reato, avuto riguardo alla diversità delle condotte incriminate, così come dei beni giuridici protetti. Lo stato di cattiva conservazione, potendo concernere sia le caratteristiche intrinseche che le modalità estrinseche di conservazione del prodotto, riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate e messe in vendita senza l’osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire pericoli di deterioramento o nocumento dell’alimento, senza che rilevi a tal fine la produzione di un danno alla salute, attesa la sua natura di reato di danno a tutela del c.d. ordine alimentare, volto ad assicurare che il prodotto giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte dalla sua natura (Sez. U, n. 443 del 19/12/2001 – dep. 09/01/2002, Butti e altro, Rv. 220717; Sez. 3, n. 40772 del 05/05/2015 – dep. 12/10/2015, Torcetta, Rv. 264990). L’alterazione degli alimenti definisce, per contro, la presenza di un processo modificativo di una sostanza alimentare che diviene altra da sè per un fenomeno di spontanea degenerazione, la cui origine può essere dovuta all’azione di agenti fisici, quali ad esempio la luce o il calore, ovvero chimici, tra i quali si collocano i microorganismi viventi, agevolati dall’azione dell’umidità, quali batteri, muffe, funghi e via dicendo (Sez. 3, n. 18098 del 28/02/2012, Siciliano, Rv. 252514; Sez. 6, n. 8935 del 18/03/1994 Rv. 199038): a differenza dell’ipotesi di cui alla lettera b) l’alterazione degli alimenti destinati alla vendita presuppone che la mutazione della sostanza sia già avvenuta, e che si sia perciò già verificato il pericolo per la salute pubblica, scaturente da una presunzione assoluta operata dal legislatore, in cui si sostanzia il bene giuridico tutelato dalla disposizione incriminatrice.
Ciò posto, le contestazioni svolte dal ricorrente sulla natura delle muffe rinvenute nei prodotti caseari sono inidonee a smantellare l’impianto accusatorio sia perché si appuntano sulla sola configurabilità dell’alterazione alimentare, ovverosia sulla contravvenzione di cui all’art.5 lett. d), lasciando inalterata la contestazione di cui all’art.5 lett. b) concernente le condizioni di cattiva conservazione, profilabili indipendentemente dal danno concreto alla salute pubblica e senza che la relativa disposizione possa ritenersi inserita in una progressione criminosa che contempla fatti gradualmente più gravi in relazione alle successive lettere indicate dall’art. 5 l. 283/1962 costituendo, rispetto ad esse, figura autonoma di reato con le quali può certamente concorrere (Sez. U. n. 443 del 19/12/2001, cit.), sia perché la presenza degli agenti patogeni è stata comunque già verificata a seguito dei disposti esami di laboratorio presso la ASL, come affermato dal provvedimento impugnato, restando, per contro, ipotesi tutta da dimostrare che il procedimento di stagionatura fosse stato espressamente voluto dal produttore, senza averne alterato la composizione.
Il fondamento del secondo profilo di doglianza, relativo alla intervenuta cessazione delle esigenze probatorie, si dissolve, invece, alla luce della disposizione contenuta nell’art.324, 7° comma cod. proc. pen. – applicabile tanto al sequestro preventivo che a quello probatorio come attesta il richiamo ad essa operato dall’art.355, 3° comma cod. proc. pen. – secondo la quale i beni soggetti a confisca obbligatoria non possono essere restituiti in nessun caso all’interessato, neppure, così come puntualizzato dalla giurisprudenza di questa Corte, quando siano stati sequestrati dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa e per finalità esclusivamente probatorie (Sez. 2, n. 3185 del 06/11/2012 – dep. 22/01/2013, Di Guida, Rv. 254508; Sez. 3, n. 17918 del 06/12/2016 – dep.10/04/2017, PM in proc. Rena e Rami Rv. 269628). Pur essendo il sequestro probatorio disposto con la finalità di conservare immutate le caratteristiche del corpo di reato nel tempo necessario all’accertamento dei fatti, la disposizione di cui all’art.324, 7° comma prevale tuttavia sulle esigenze lato sensu istruttorie, trovando l’eccezionalità della previsione giustificazione nella finalità di evitare che attraverso la disponibilità del bene, la cui pericolosità non è suscettibile di valutazioni discrezionali, ma è presunta direttamente dalla legge, si protragga l’illiceità della condotta, indipendentemente dalle ragioni che abbiano determinato l’adozione della misura. Pertanto poiché tra i beni oggetto di confisca obbligatoria rientrano le cose delle quali “la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione costituisca reato”, i prodotti caseari di cui si contesta la violazione delle prescrizioni igieniche imposte dalla l.283/1962 e, nello specifico, lo stato di cattiva conservazione e l’alterazione, si configurano a tutti gli effetti come beni la cui detenzione costituisce reato ai sensi dell’art. 240, 2 comma n.2) cod. pen.: dalle argomentazioni sopra evidenziate in ordine al bene giuridico tutelato dalle due diverse norme di cui all’imputazione (art. 5 lett. b) e d) della legge citata), discende che i prodotti in sequestro rivestano natura di alimenti obiettivamente nocivi in quanto privi delle necessarie garanzie igieniche o tali da rappresentare un rischio, anche potenziale, per la salute pubblica, messa in pericolo dalla stessa vendita, detenzione per la vendita, somministrazione e distribuzione per il consumo, condotte queste che vedono quali destinatari finali la pluralità indiscriminata dei consumatori in forza della presunzione non passibile di valutazioni discrezionali ma operata juris et de jure dalla medesima legge, senza che perciò il venir meno delle esigenze probatorie cui la misura cautelare è stata inizialmente sottesa possa consentirne il dissequestro (per i precedenti in materia di confisca obbligatoria di sostanze alimentari cfr. Sez. 6, n. 265 del 30/01/1992 – dep. 23/05/1992, Tamaro, Rv. 190776; Sez. 5, n. 8701 del 17/06/1992 – dep. 04/08/1992, Bazzani, Rv. 191822).
Il ricorso deve essere in conclusione rigettato, seguendo a tale esito l’adozione dei provvedimenti consequenziali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 19.7.2017