Diritto alimentare. Immissione sul mercato di alimenti non genuini come genuini. Cassazione Penale n. 50745/2016

Cass. Pen., Sez. III n. 50745 del 30 novembre 2016 (ud. del 6 giugno 2016)

Pres.Fiale, Est. Liberati

Diritto alimentare. Alimenti. Vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine. Art. 515 c. p. . Art. 516 c. p. .
Il delitto di cui all’art. 516 cod. pen. è un reato di pericolo che punisce la semplice immissione sul mercato di sostanze alimentari non genuine come genuine e, in quanto relativo ad una fase preliminare alla relazione commerciale vera e propria tra due soggetti, rappresenta una forma di tutela anticipata e sussidiaria rispetto a quello di frode in commercio previsto dall’art. 515 cod. pen. che invece sussiste, nella forma consumata o tentata, nell’ipotesi di materiale consegna della merce all’acquirente o di atti univocamente diretti a tale fine.

Cass. Pen., Sez. III n. 50745 del 30 novembre 2016 (ud. del 6 giugno 2016)

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 14 luglio 2014 la Corte d’appello di Bari, in parziale accoglimento della impugnazione proposta da C.E.A., ha ridotto ad Euro 600 di multa la pena allo stesso inflitta con la sentenza del Tribunale di Lucera del 1 giugno 2012, comminatagli in relazione al reato di cui all’art. 516 cod. pen. (per avere, il (XXX), detenuto, per porle in commercio come genuine, sostanze alimentari non genuine, risultando la forma di formaggio pecorino presa a campione irregolare, in quanto prodotta con latte vaccino in quantità superiore allo 1%).

1.1. La Corte territoriale, nel disattendere le altre censure dell’appellante, ha escluso la eccepita nullità del decreto di citazione a giudizio in conseguenza della erronea indicazione della data e del luogo del commesso reato, per avere comunque l’imputato potuto difendersi dal merito delle accuse, ed anche la dedotta mancanza di correlazione tra accusa e sentenza, in quanto l’imputato era stato condannato per essere stato il produttore di formaggio pecorino non genuino sequestrato in un supermercato sardo e per aver venduto tale formaggio a quel rivenditore, e dunque il fatto era rimasto sostanzialmente immutato e da esso l’imputato aveva avuto la possibilità di difendersi, nonostante la contestazione facesse riferimento alla detenzione piuttosto che alla messa in circolazione, e nonostante la data indicata nella contestazione corrispondesse a quella del prelievo dell’alimento piuttosto che a quella della messa in circolazione del prodotto.

La Corte d’appello ha disatteso anche l’eccezione di incompetenza per territorio sollevata dall’imputato, evidenziando che il fatto era avvenuto nella sede dello stabilimento dove il formaggio era stato prodotto e da dove era stato messo in circolazione, sulla base del contratto di fornitura concluso con il gestore della rivendita.

Nel merito ha ribadito la sussistenza del reato, in quanto l’alimento non era conforme ai precetti normativi, ed il formaggio “pecorone” prodotto e commercializzato dall’imputato aveva una percentuale di latte vaccino (pari al 10%) superiore a quella consentita (pari al 1%).

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato personalmente, affidandolo a quattro motivi, così riassunti entro i limiti previsti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

2.1. Con il primo motivo ha denunciato vizio di motivazione in ordine alla eccepita nullità della sentenza di primo grado in conseguenza della originaria nullità del decreto di citazione a giudizio, avendo omesso la Corte d’appello di rispondere al relativo motivo di impugnazione mediante il quale era stata eccepita la nullità della sentenza di primo grado a causa della erronea indicazione della data e del luogo del commesso reato, ed ha evidenziato, in ogni caso, l’insufficienza della motivazione della sentenza impugnata al riguardo.

Ha in proposito ribadito che la data indicata nella imputazione (13 ottobre 2009) era quella del prelievo dell’alimento presso il rivenditore, mentre gli accertamenti tecnici sulla sua composizione erano stati eseguiti nei giorni successivi a Perugia, e che, a fronte della contestazione di cessione del bene, la data di commissione del fatto doveva essere retrodatata rispetto a quella del suo accertamento, ed il luogo di consumazione individuato in Sardegna, laddove il prodotto era stato consegnato all’acquirente.

2.2. Con il secondo motivo ha denunciato ulteriore nullità della sentenza per difetto di correlazione tra chiesto e pronunciato e violazione dell’art. 6 CEDU, artt. 111 e 117 Cost. e art. 521 cod. proc. pen., ribadendo che la contestazione aveva ad oggetto la detenzione per il commercio e non la messa in circolazione, e che la data indicata nella imputazione corrispondeva a quella del prelievo dell’alimento e non a quella della messa in circolazione.

2.3. Con il terzo motivo ha denunciato vizio di motivazione in ordine alla incompetenza per territorio del primo giudice, ribadendo che i fatti erano stati accertati in Sardegna, presso la rivendita del formaggio, il cui spossessamento a favore del rivenditore non era avvenuto presso la sede della produttrice.

2.4. Con il quarto motivo ha denunciato violazione dell’art. 360 cod. proc. pen. e art. 223 disp. att. cod. proc. pen., per l’omessa comunicazione dell’esito sfavorevole delle analisi eseguite sul prodotto, non surrogabile dalla deposizione del teste che ne aveva attestato l’invio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Per quanto riguarda il primo ed il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto entrambi riguardano la nullità della sentenza impugnata, a causa della nullità della imputazione e per difetto di correlazione tra questa e la decisione, e carenza di motivazione riguardo a tali nullità, già eccepita con l’atto d’appello, va, anzitutto, evidenziato che l’imputazione in relazione alla quale il ricorrente è stato giudicato è quella di cui al reato previsto e punito dall’art. 516 cod. pen., contestatogli per avere detenuto “per porre in commercio come genuine sostanze alimentari non genuine, in particolare risultando la forma di formaggio pecorino presa a campione irregolare in quanto prodotta con latte di pecora ed una quantità di latte di vacca superiore all’1%. In (XXX)”.

Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta che il 13 ottobre 2009 venne eseguito un controllo in un supermercato del Comune di San Sperate, nel corso del quale venne sequestrata, a campione, una forma di formaggio pecorino, che, all’esito delle analisi, aveva mostrato caratteristiche diverse rispetto a quelle prescritte, ossia una percentuale di latte vaccino superiore a quella dell’1% consentita. Tale formaggio era stato, pacificamente, prodotto dall’impresa dell’imputato presso la sua sede, in (XXX), da dove era stato posto in commercio, ed in relazione a tale commercializzazione è stata affermata la responsabilità dell’imputato in ordine al reato contestatogli.

2.1. La Corte d’appello, nel disattendere l’impugnazione dell’imputato, ha escluso che l’errata indicazione della data e del luogo del commesso reato (consumatosi, in realtà, presso la sede dell’impresa dell’imputato dalla quale il prodotto era stato posto in commercio, in data anteriore a quella del suo sequestro presso il rivenditore) avesse determinato incertezza sul fatto contestato o pregiudicato il diritto di difesa dell’imputato, evidenziando come la materialità dei fatti costituenti il reato contestato all’imputato poteva desumersi dalla imputazione, e gli errori in questa contenuti riguardavano solamente circostanze già conosciute dall’imputato medesimo.

La Corte territoriale ha, inoltre, sulla base di analoghe considerazioni, escluso, la denunciata mancanza di correlazione tra accusa e sentenza, rilevando come il fatto storico addebitato all’imputato, e cioè l’aver posto in commercio il formaggio non genuino successivamente sequestrato in un supermercato in Sardegna, non fosse mutato e su esso l’imputato avesse avuto la possibilità di difendersi.

2.2. Tali considerazioni risultano corrette e sfuggono alle censure proposte dal ricorrente.

Va, infatti, anzitutto ricordato il consolidato orientamento interpretativo secondo cui è sufficiente che l’imputazione contenga con adeguata specificità i tratti essenziali del fatto di reato contestato in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa (Sez. 2, n. 36438 del 21/07/2015, Bilotta, Rv. 264772; Sez. 5, n. 51248 del 05/11/2014, Cutrera, Rv. 261741; Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014, B, Rv. 264877; Sez. 5, n. 6335 del 18/10/2013, Morante, Rv. 258948).

Quanto alla data di consumazione del reato è stato, analogamente, precisato che l’eventuale erroneità della stessa non rileva e non determina nullità della imputazione quando non tocca il nucleo sostanziale dell’addebito, così da non incidere sulla possibilità di individuazione del fatto da parte dell’imputato e sul conseguente esercizio del diritto di difesa (cfr. Sez. 5, n. 48727 del 13/10/2014, Ranieri, Rv. 261229; Sez. 5, n. 4175 del 07/10/2014, Califano, Rv. 262844), escludendosi violazione del principio di correlazione tra accusa contestata e decisione adottata nel caso in cui nell’imputazione risulti una data del commesso reato diversa da quella effettiva, purchè dagli atti emerga il tempo di consumazione del reato e che l’imputato abbia avuto modo di difendersi e di conoscere tutti i termini della contestazione mossagli (Sez. 2, n. 17879 del 13/03/2014, Pagano, Rv. 260009), senza alcuno sviamento dalla strategia difensiva prescelta (Sez. 5, n. 44974 del 04/10/2012, Agostini, Rv. 253781).

Analoghi principi sono stati affermati a proposito della inesatta indicazione del luogo di commissione del reato, anch’essa non determinante nullità della imputazione nè violazione della correlazione tra accusa e sentenza, quando dagli altri elementi enunciati, e dai richiami contenuti nella imputazione ed eventualmente anche in altri atti, risultino chiari i profili fondamentali del “fatto” contestato (cfr., Sez. 1, n. 12149 del 02/03/2005, Cifarelli, Rv. 231615; Sez. 3, n. 42537 del 21/05/2014, Caputo, Rv. 261147; Sez. 5, n. 21269 del 03/03/2010, Ingrosso, Rv. 247474).

2.3. Ora, alla stregua di questi insegnamenti, che il Collegio condivide e ribadisce, correttamente la Corte territoriale ha escluso la nullità della imputazione, e con essa quella, derivata, della sentenza di primo grado, a causa della inesatta indicazione del luogo e della data di consumazione del reato, in quanto dal complesso della contestazione, tenendo conto del ruolo di produttore pacificamente svolto dall’imputato, poteva ricavarsi che ciò che era oggetto di contestazione al ricorrente era di aver posto in commercio formaggio non genuino (in quanto privo delle caratteristiche di composizione prescritte), evidentemente nel luogo di produzione del formaggio, dunque laddove ha la sede l’impresa del ricorrente, in data necessariamente anteriore al controllo eseguito presso l’esercizio commerciale laddove il formaggio venne rinvenuto e sottoposto a sequestro. Poichè, infatti, l’imputato non era il gestore dell’esercizio commerciale, bensì il fornitore dello stesso, quale produttore del formaggio, dalla imputazione così come formulata poteva comprendersi che la contestazione mossa all’imputato era di aver messo in commercio il formaggio da lui stesso prodotto non genuino: ne consegue, tenendo conto del fatto che era stata contestata la violazione della disposizione di cui all’art. 516 cod. pen. (che sanziona la condotta di colui che pone in vendita o mette altrimenti in commercio come genuine sostanze alimentari non genuine), che sulla base di tale complesso di elementi poteva ricavarsi che il fatto contestato all’imputato era di aver messo in commercio il formaggio privo delle caratteristiche prescritte, presso il luogo di produzione ed in data anteriore al controllo effettuato presso l’esercizio commerciale laddove venne sequestrato.

Ciò, del resto, discende dalla struttura della fattispecie incriminatrice contestata, in relazione alla quale è stata affermata la responsabilità dell’imputato, che rappresenta una forma di tutela avanzata rispetto al reato di frode in commercio di cui all’art. 515 cod. pen., in quanto essa è relativa ad una fase preliminare ed autonoma rispetto alla relazione commerciale vera e propria, e si consuma con la messa in commercio delle cose non genuine, configurando un reato di pericolo (Sez. 3, n. 19625 del 28/02/2003, Gaggi, Rv. 224733). Tale delitto, infatti, copre l’area della semplice immissione sul mercato ed è sussidiario rispetto a quello di cui all’art. 515 cod. pen., atteso che nell’ipotesi di materiale consegna della merce all’acquirente, o di atti univocamente diretti a tale fine, il reato è quello di cui al citato art. 515 cod. pen., rispettivamente nella forma consumata o tentata, assorbente rispetto a quello di cui all’art. 516 cod. pen. (Sez. 3, n. 8292 del 14/12/2005, Tomasello, Rv. 233554).

Ne consegue, proprio in considerazione di tale struttura della fattispecie, la sufficienza della imputazione in esame a consentire di ritenere contestato un fatto rientrante nello schema della norma incriminatrice, emergendo dalla contestazione un apporto dell’imputato alla messa in commercio del prodotto non genuino.

2.4. Sulla scorta di tali considerazioni deve, poi, essere esclusa anche la denunciata mancanza di correlazione tra accusa e sentenza, in quanto il fatto ritenuto nella decisione non si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità (essendo stata affermata la responsabilità dell’imputato per la messa in commercio del prodotto non genuino, a fronte della contestazione di averlo detenuto per porlo in commercio), ed essendo nella imputazione contenuta l’indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, ricavabili in via induttiva (quanto al luogo di produzione ed alla veste dell’imputato) per le parti mancanti (cfr. Sez. 6, n. 10140 del 18/02/2015, Bossi, Rv. 262802).

3. Per le medesime considerazioni risulta infondato anche il terzo motivo, mediante il quale è stato denunciato vizio di motivazione in ordine alla eccezione di incompetenza per territorio sollevata dall’imputato, disattesa dalla Corte d’appello sulla base del rilievo, che risulta condivisibile per le ragioni già esposte a proposito della sufficienza della contestazione e della esistenza della necessaria correlazione tra questa e la sentenza, che il reato era stato consumato presso la sede dell’impresa dell’imputato, dalla quale il prodotto era stato messo in commercio, con la conseguente corretta affermazione della competenza per territorio del Tribunale di Lucera.

4. Il quarto motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione dell’art. 360 cod. proc. pen. e art. 223 disp. att. cod. proc. pen., a causa della mancata comunicazione all’imputato dell’esito sfavorevole delle analisi effettuate sul campione di formaggio da lui prodotto e messo in commercio, con la conseguente nullità del relativo rapporto di prova, è infondato, in quanto il mancato invio dell’avviso del risultato delle analisi non determina una violazione del diritto di difesa, in quanto tale comunicazione, rilevante soltanto al fine di individuare la decorrenza del termine per la presentazione dell’istanza di revisione, può essere surrogata dalla notifica degli atti del procedimento penale, che, contenendo l’indicazione dei fatti di reato oggetto di addebito, consentono di desumere l’esito sfavorevole delle analisi stesse (cfr. Sez. 3, n. 36506 del 19/11/2014, Tomasini, Rv. 264808; Sez. 3, n. 11567 del 08/03/2006, Di Cosimo, Rv. 233567; Sez. 3, n. 45551 del 15/11/2001, Simonetti, Rv. 220843).

Nella vicenda in esame l’imputato, benchè con l’atto d’appello abbia denunciato tale violazione, non ha mai chiesto la revisione delle analisi, dimostrando, in tal modo, di non avere interesse all’esito delle stesse, con la conseguenza che la mancata comunicazione del loro esito risulta priva di rilievo, non avendo determinato un concreto pregiudizio ai diritti di difesa dell’imputato, che, una volta avvisato della pendenza del procedimento penale o del rinvio a giudizio, avrebbe potuto chiederne la revisione: il mancato esercizio di tale facoltà esclude la sussistenza di qualsiasi pregiudizio alle prerogative difensive dell’imputato e, dunque, anche del vizio denunciato.

5. In conclusione il ricorso deve essere respinto, stante l’infondatezza di tutti i motivi cui è stato affidato, e l’imputato condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 7 giugno 2016.

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