Diritto urbanistico. Reato edilizio e rilascio di permesso di costruire illegittimo. Il dirigente del Comune è responsabile penalmente? Cassazione Penale n. 17178/2020.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 17178 del 5 giugno 2020 (udienza del 5 marzo 2020)
Pres. Rosi, Est. Gai

Urbanistica. rilascio di permesso di costruire illegittimo. Responsabilità del dirigente del Comune. Esclusione. Art. 44, comma 1, lett. b) d.p.r. n. 380/2001.

Non è configurabile, nel caso di rilascio di un permesso di costruire illegittimo, una responsabilità̀ex art. 40 cpv. per il reato edilizio di cui all’art. 44, comma primo, lett. b), D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell’ufficio urbanistica del Comune in quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell’obbligo di impedire l’evento. La titolarità della posizione di garanzia, discendente dall’art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001, ne determina la responsabilità ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei provvedimenti interdittivi e cautelari, ma non in caso di condotta commissiva. In materia edilizia non c’è dubbio che l’art. 27 d.P.R. n. 380 del 2001 ponga a carico del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale un obbligo di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, imponendogli di intervenire ogni qualvolta venga accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso la emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari (cfr. anche art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001). Egli è quindi certamente titolare di una posizione di garanzia, che gli impone di attivarsi per impedire l’evento dannoso, ma è altrettanto evidente che non si possa richiamare il citato art. 27 per configurare la responsabilità nel reato in presenza di una contestazione di condotta commissiva (rilascio di permesso a costruire).

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 17178 del 5 giugno 2020 (udienza del 5 marzo 2020)

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 29 ottobre 2018, la Corte d’appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Lecce, emessa in data 29/06/2016, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Fersino Maria Rita, Mariano Eleno e Ricciardi Lucio in relazione ai reati di cui agli artt. 110, 480 cod.pen., come riqualificati i reati di cui ai capi b) e c), perchè estinti per prescrizione e, per l’effetto, ha rideterminato in mesi tre di arresto ed € 31.000,00 di ammenda la pena inflitta nei confronti di Fersino Maria Rita e Mariano Eleno, – nelle rispettive qualità di proprietaria e committente la prima, di tecnico progettista e direttore dei lavori il secondo  – e in mesi cinque di arresto e € 31.000,00 di ammenda, la pena inflitta nei confronti di Ricciardi Lucio, in qualità di dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Castrignano del Capo, confermando, nel resto, la sentenza impugnata, che aveva affermato la penale responsabilità degli imputati in relazione alla contravvenzione prevista dagli artt. 110 cod. pen., 44 lett. c) d.P.R. n. 380 del 2001, capo a), per avere, in concorso tra loro, nelle rispettive qualità indicate, in assenza di provvedimenti legittimi, realizzato in agro di Castrignano del Capo, sull’area identificata al catasto terreni al fl. 20, mapp. 355, un immobile destinato a soddisfare esigenze abitative, in contrasto con quanto richiesto ed assentito (fabbricato ad uso deposito agricolo), mediante l’asservimento non consentito di altri due terreni non confinanti (fl.1 mapp. 154 e fl. 14 mapp.507-508) in assenza in capo alla proprietaria della necessaria qualifica di imprenditore agricolo.
Va precisato che il Tribunale mandava assolti tutti gli imputati dal reato di cui agli artt. 95 d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 comma 1 del d.lvo n. 42 del 2004, contestati al capo a), perché il fatto non sussiste.
2. Avverso la sentenza gli imputati hanno presentato ricorsi per cassazione, a mezzo del loro difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi, alcuni dei quali comuni a tutti gli imputati, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
2.1.  I ricorsi nell’interesse di Fersino Maria Rita e Mariano Eleno sono affidati a quattro motivi comuni ad entrambi
2.1. Con il primo motivo deducono la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod.proc.pen. in relazione all’erronea applicazione dell’art. 51 lett. g) della legge n. 56 del 1980 della Regione Puglia.
Lamentano i ricorrenti la non corretta applicazione da parte della Corte d’appello della legge regionale n. 56 del 1980, la cui violazione, con riguardo alla disciplina dell’accorpamento di fondi, costituisce il presupposto del reato edilizio e paesaggistico, in quanto la stessa ha cessato la sua efficacia a far data dall’emanazione del PUTT che ha lo stesso contenuto del PUT. In presenza di vuoto normativo, non potrebbe affermarsi l’illegittimità della cessione di cubatura tra terreni, come ritenuto nel caso in esame.
2.2. Con il secondo motivo deducono la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. c) cod.proc.pen. in relazione all’art. 429 comma 2 cod.proc.pen. La mancanza di una norma di legge che vieti la cessione di cubatura tra terreni aventi la stessa destinazione urbanistica e lo stesso indice di fabbricabilità minerebbe l’intero impianto accusatorio rendendo nullo anche il decreto che dispone il giudizio, essendo questo carente del requisito di cui all’art. 429 lett. c) cod.proc.pen. atteso il vuoto normativo a seguito della cessata efficacia della legge Puglia n. 56 del 1980 e non essendo specificato in che cosa sarebbe consistito il reato di falso presupposto logico delle contestazioni mosse ai ricorrenti.
2.3. Con il terzo motivo deducono il vizio di motivazione in relazione alla carenza/illogicità della motivazione in relazione agli artt. 42 e 43 cod.pen.
In sintesi, la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto integrato l’elemento soggettivo del reato sul rilievo della macroscopica violazione della normativa urbanistica, laddove, al contrario, la sussistenza di pronunce della Corte di cassazione contrastanti, in tema di falso ideologico in autorizzazione amministrativa, escluderebbero, in radice, la congruità della motivazione. Da ultimo, nell’ambito del rilevato contrasto interpretativo, tutt’ora vivo, i ricorrenti richiamano nei ricorsi le pronunce e della Sezione Quinta della Corte di cassazione n. 7879/2018, 1944/2019 che hanno escluso la configurabilità del reato di falso in siffatte situazioni.
2.4. Con il quarto motivo deducono il vizio di motivazione in relazione al diniego di riconoscimento delle circostanze di cui all’art. 62 bis cod.pen. in presenza di prassi amministrative dell’ufficio tecnico del comune e di altri comuni del Salento che consentivano l’accorpamento di fondi, situazione che giustificherebbe il riconoscimento delle menzionate attenuanti.
3. Il ricorso nell’interesse di Ricciardi Lucio è affidato a sette motivi.
3.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge processuale in relazione all’art. 521, 597 comma 1 e 3 cod.proc.pen. e correlato vizio di motivazione.
Argomenta il ricorrente la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, e la conseguente nullità della sentenza, per mutamento del fatto e condanna in appello per un fatto diverso ed elusione dei limiti di cognizione del giudice d’appello, laddove la Corte d’appello avrebbe ricostruito in termini diversi il concorso dell’imputato, nel reato di costruzione abusiva in assenza di permesso a costruire, di cui al capo a), per essere quello rilasciato (n. 13 del 2009 e variante n. 24/2010), illegittimo, da concorso “commissivo” circoscritto, quanto al Ricciardi, al solo rilascio di provvedimenti autorizzativi illegittimi, in “omissivo” laddove la corte territoriale avrebbe fondato la responsabilità concorsuale sulla violazione dell’obbligo di vigilanza sull’attività edilizio-urbanistica nel territorio comunale per assicurare la rispondenza alle norme di legge e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, prevista dall’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, in capo al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale.
3.2. Con il secondo motivo deduce la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. a) e b) cod.proc.pen., inosservanza ed erronea applicazione della norma giuridica di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale in relazione agli artt. 44 lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 5 d.l. n. 70 del 2011, art. 51 lett. g) della legge Puglia n. 56/80. Violazione del principio di legalità, di riserva di legge e indeterminatezza della norma incriminatrice. Vizio di motivazione in relazione alla ritenuta destinazione abitativa dell’edificio in imputazione e incompatibilità urbanistica.
In sintesi, sotto un primo profilo, il ricorrente sostiene che la motivazione della sentenza impugnata sulla destinazione abitativa della costruzione realizzata avrebbe disatteso le risultanze processuali e non avrebbe considerato che l’art. 27 delle NTA del Piano di fabbricazione comunale consentirebbe nella zona l’edificazione con destinazione residenziale.
La corte avrebbe poi considerato, a parametro dell’illegittimità urbanistica, da cui avrebbe tratto l’illegittimità del  titolo edilizio e, dunque, l’edificazione di opere in assenza di titolo, l’asservimento di due fondi distanti tra loro, in assenza di NTA che vieterebbero tale asservimento, non avendo considerato 1) l’omogeneità urbanistica dei due fondi accorpati, aventi entrambi medesima destinazione E1 e medesimo indice di fabbricabilità 0,03 mc/mq,  2) la cessazione della vigenza dell’art. 51 lett. g) della legge Puglia n. 56/80, 3) l’esistenza di un vuoto normativo in materia, 4) la matrice giurisprudenziale dell’istituto dell’accorpamento di fondi in presenza dei presupposti di contiguità e omogeneità urbanistica, peraltro superata dalla norma di cui all’art. 5 del d.l. 70/2011, conv. con la legge 206/2011, che non avrebbe incluso il c.d. requisito della contiguità dei fondi che resta sempre di matrice pretoria. Da tali considerazioni il ricorrente deduce la violazione del principio di legalità e di riserva di legge, prevedibilità e determinatezza della norma incriminatrice, artt. 25 comma 2, 101 comma 2 Cost., art. 1 cod.pen., poiché la disposizione incriminatrice del reato edilizio, art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, sarebbe integrata, secondo il ragionamento della Corte d’appello, non già da disposizioni legislative in materia urbanistica o da previsioni degli strumenti urbanistici comunali, ma da una inammissibile diritto giurisprudenziale che impedirebbe al cittadino di conoscere con certezza ex ante l’attività vietata, e determinerebbe la violazione del principio di legalità e della riserva di legge. In altri termini, la radicale assenza di norme di legge che prescrivono il presupposto della contiguità dei fondi o che vietano l’accorpamento dei fondi, non può essere consentito al giudice penale di ricavare dall’interpretazione giurisprudenziale il parametro della legalità urbanistica e creare così la disposizione incriminatrice, in quanto il solo elemento extrapenale, integrativo della fattispecie di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, deve essere costituito, secondo le note S.U. Borgia, da una norma tecnica di attuazione del piano urbanistico. La corte territoriale non avrebbe assunto a parametro della illegittimità del permesso a costruire alcuna norma tecnica di attuazione del P. di F. del Comune di Castrignano del Capo, rilevando piuttosto il non consentito accorpamento di fondi, ora consentito nei termini come realizzati nel caso concreto, dall’art. 5 della d.l. n. 70 del 2011 che consentirebbe l’accorpamento anche di fondi non contigui.
3.3. Con il terzo motivo deduce la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod.proc.pen. e il correlato vizio di motivazione in relazione all’elemento soggettivo del reato in presenza di una accertata prassi amministrativa che riteneva legittimo l’accorpamento di fondi con le modalità qui censurate in numerosi comuni del Salento.
3.4. Con il quarto motivo deduce la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod.proc.pen. e il correlato vizio di motivazione in relazione all’art. 181 comma 1 del d.lvo n. 42 del 2004 ed in particolare all’elemento oggettivo del reato.
La Corte d’appello avrebbe apoditticamente affermato la responsabilità penale per il reato paesaggistico con mero richiamo all’illegittimo accorpamento di fondi, non rivenendosi alcuna motivazione sul requisito dell’assenza di autorizzazione paesaggistica non potendo questa essere inferita dalla non conformità dell’opera agli strumenti urbanistici.
3.5. Con il quinto motivo deduce la violazione di legge in relazione all’art. 480 cod.pen. e il vizio di motivazione in relazione alla attestazione di compatibilità urbanistica.
3.6. Con il sesto motivo deduce la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod.proc.pen. e il correlato vizio di motivazione in relazione all’elemento oggettivo e soggettivo del reato di falso nell’autorizzazione paesaggistica.
3.7. Con il settimo motivo deduce il vizio di motivazione in relazione al diniego di riconoscimento delle circostanze di cui all’art. 62-bis cod.pen. fondato sulla mera assenza di elementi positivamente valutabili.
Il difensore di Fersino e Mariano ha depositato motivi nuovi ai sensi dell’art. 585 comma 4 cod.proc.pen.
Con il primo motivo deduce la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod.proc.pen. in relazione all’art. 597 cod.proc.pen. per avere la corte territoriale, in riforma della sentenza di primo grado, su impugnazione del solo imputato, irrogato anche una pena pecuniaria.
Con il secondo motivo si eccepisce la prescrizione del reato maturata il 26 novembre 2018, tra la lettura del dispositivo e il deposito della motivazione della sentenza.
3. Il Procuratore Generale ha chiesto, in udienza, l’annullamento senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va, preliminarmente, osservato che il presente procedimento si colloca tra i numerosi altri sottoposti all’attenzione di questa Corte, riguardanti fatti analoghi, commessi nei Comuni nella provincia di Lecce, procedimenti tutti accumunati dalla tematica che ruota attorno alla questione dell’accorpamento di fondi ai fini di edificazione, già previsto dall’art. 51 lett. g) della Legge Puglia n. 56/80, ed ora dall’art. 5 del d.l. n. 70 del 2011.
Peraltro, va ulteriormente osservato che l’odierno procedimento si discosta dal filone costituito da numerosi procedimenti penali che hanno dato origine al contrasto interpretativo, menzionato nei ricorsi Fersino e Mariano, sul reato di falso ideologico nella valutazione tecnica in un contesto implicante la valutazione e accettazione di parametri normativamente determinati, reato rispetto al quale è intervenuta sentenza di non luogo a procedere per prescrizione e, come si vedrà infra, non ricorrono le condizioni per una pronuncia ai sensi dell’art. 129 comma 2 cod.proc.pen., il che impedisce di tornare sul tema del falso valutativo.
Parimenti, deve rilevarsi che il Tribunale aveva già mandato assolti gli imputati dai reati di cui agli artt. 95 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dal reato paesaggistico di cui all’art.181 comma 1 del d.lvo n. 42 del 2004, contestati nel capo a), ragion per cui non sono scrutinabili in questa sede, perché inammissibili, le censure svolte nel quarto, quinto, sesto motivo di ricorso di Ricciardi Lucio.
2. Fatta questa premessa, i ricorsi di Fersino Maria Rita e Mariano Eleno sono manifestamente infondati, situazione che preclude il rilievo dell’intervenuta causa estintiva della prescrizione, maturata nelle more del giudizio, che va, invece, rilevata nei confronti di Ricciardi Lucio in presenza di un motivo (primo motivo) fondato.
3. Muovendo dalla disamina dei ricorsi di Fersino e Mariano, la censura di violazione di legge in relazione all’applicazione dell’art. 51 lett. g) della legge Puglia n. 56 del 1980 è manifestamente infondata.
Secondo i ricorrenti la Corte d’appello avrebbe erroneamente fondato la responsabilità penale per il reato di costruzione abusiva sulla scorta di una non corretta applicazione della legge regionale n. 56 del 1980, nella parte in cui disciplina l’accorpamento di fondi e/o la cessione di cubatura che costituisce il presupposto del reato edilizio, in quanto la stessa avrebbe cessato la sua efficacia a far data dall’emanazione del PUTT. In presenza di vuoto normativo, non potrebbe affermarsi l’illegittimità della cessione di cubatura tra terreni, da qui la legittimità dell’accorpamento dei fondi e l’insussistenza del reato contestato.
Tale prospettazione difensiva, come osservato da pronunce anche recenti di questa Corte di legittimità è manifestamente infondata.
Va anzitutto premesso che, nella specie, il reato edilizio, contestato ai ricorrenti, è di avere realizzato in agro di Castrignano del Capo, un immobile destinato ad esigenze abitative in contrasto con quanto assentito dai permessi a costruire n.13 del 2009, variante n. 24 del 2010 (fabbricato ad uso deposito agricolo) mediante asservimento non consentito di fondi non confinanti.
Orbene, la tesi difensiva che muove dall’assunto secondo cui con l’approvazione del PUTT, la legge Regione Puglia n. 56 del 1980 non sarebbe più efficace, non conduce al risultato prospettato, non conduce affatto a ritenere legittimo l’intervento edilizio e insussistente il reato.
Il tema della efficacia dell’art. 51 lett. g) della legge Regione Puglia n. 56 del 1980 è stato a lungo dibattuto ed ha originato un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità che ha trovato un componimento, da ultimo, con la sentenza di questa Corte (Sez. 3, n. 35166 del 28/03/2017, Cazzato e altro, non mass.), che il Collegio condivide e da cui non intende discostarsi, secondo cui, essendo stato emanato, con Delibera della Giunta regionale Puglia 15 dicembre 2000, n. 1748, il Piano urbanistico territoriale tematico per il paesaggio, si è verificata la clausola risolutiva espressa dell’efficacia della predetta disposizione legislativa.
Ciò non toglie, tuttavia, che cessata l’efficacia di tale norma regionale, unicamente volta a suo tempo a disciplinare l’operatività dell’accorpamento dei fondi agricoli non confinanti, non vi siano più limiti alla operatività della cessione di cubatura e che l’intervento de quo sia conforme agli strumenti urbanistici.
Come già evidenziato da questa Corte, essendo stato emanato, con delibera della Giunta regionale della Puglia n. 1748 del 15 dicembre 2000, il Piano urbanistico territoriale tematico per il paesaggio (PUTT/P), si è verificata, una volta entrato in vigore quest’ultimo, la clausola risolutiva espressa della efficacia della predetta disposizione legislativa (così, Sez. 3, n. 35166 del 28/03/2017, Cazzato e altro, non mass., Sez. 3, n. 8635 del 18/9/2014, P.M. in proc. Manzo e altri, Rv. 262512).
Tale assunto è stato condiviso dalla Corte di appello di Lecce che, nel caso in esame, ha, del tutto correttamente, rilevato che in ogni caso alla cessazione della vigenza della legge regionale non conseguiva la legittimità dell’accorpamento di fondi tout court in quanto trattasi, la cessione di cubatura, di un istituto di fonte negoziale, come costantemente sostenuto sia dalla giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Puglia, sezione III Lecce, 7 maggio 2012, n. 776; Consiglio di Stato, sezione V, 20 agosto 2013, n. 4195; Consiglio di Stato, sezione VI, 14 aprile 2016, n. 1515; T.A.R. Puglia, Lecce, sezione I, 26 ottobre 2018, n. 1594) che ne ha individuato i parametri e, da ultimo, nell’art. 5, comma 1 lett. c) della d.l. n. 70 del 2011, conv, nella legge n. 106 del 2011, e lo ha ritenuto illegittimo proprio alla luce degli arresti del giudice amministrativo e del giudice di legittimità in assenza dei presupposti per la cessione di cubatura per essere i fondi situate in zone del tutto diverse dell’agro del comune di Castrignano con conseguente illegittimità dell’intervento edilizio (casa di civile abitazione in luogo di deposito per attrezzi) con volumetria superiore a quella consentita per effetto dell’illegittimo accorpamento di fondi (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata). Da cui trae la conclusione, il giudice del merito, che, se da un lato è irrilevante la violazione di legge (art. 51 lett. g) della Legge Puglia n. 56 del 1980), neppure contestata nel capo di imputazione, permane tuttora il limite della contiguità tra i fondi quale parametro della legittimità urbanistica che risulta comunque condizionato da questo elemento.
La sentenza sul punto prende posizione sul contrasto interpretativo sulla vigenza della legge regionale e mostra di aderire all’orientamento espresso dalla nota sentenza Cazzato secondo cui la vigenza è cessata, ma che, non di meno, non sono venuti meno i presupposti applicativi per la legittimità dell’accorpamento di fondi.
La decisione della corte territoriale è immune da censure ed ha fatto corretta applicazione dei principi reiteratamente espressi dalla giurisprudenza di legittimità e quella amministrativa secondo cui la “cessione di cubatura” è legata a due condizioni: l’omogeneità dell’area territoriale entro la quale si trovano i due terreni (cedente la cubatura e ricevente la cubatura oggetto del contratto) e la “contiguità” dei due fondi intesa non tanto come una condizione fisica (ossia contiguità territoriale) ma come vicinanza nel senso che, anche qualora non si riscontri la continuità fisica tra area cedente ed area ricevente, sussista pur sempre, comunque, una effettiva e significativa vicinanza tra i fondi con la precisazione che tale continuità viene, comunque a mancare quando tra i fondi sussistano una o più aree aventi destinazioni urbanistiche incompatibili con l’edificazione.
In tale ambito infondata è la censura difensiva, svolta nel secondo motivo di ricorso di Ricciardi, secondo cui la contiguità tra i due fondi sarebbe venuta meno per effetto della cessata vigenza della nota Legge Puglia, contiguità dei due fondi che la giurisprudenza amministrativa continua a ritenere condizione per la legittimità dell’accorpamento.
Allo stesso modo, per completare la disamina della censura svolta nello stesso motivo, nessuna violazione del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. è ravvisabile. L’accorpamento di fondi omogenei e contigui non è frutto, come ritiene il ricorrente, di una invenzione della giurisprudenza che, come tale, produrrebbe una violazione del principio di legalità, ma è frutto di una interpretazione sistematica di norme positive.
Nei paesi di civil low, qual è il nostro, i giudici ricavano la norma da una interpretazione sistematica delle norme positive. Tale operazione ermeneutica, proprio perché fondata su norme positive, non comporta alcuna violazione del principio di legalità, poiché non crea la norma, ma la individua in via di interpretazione delle norme vigenti.
4. Il secondo motivo di ricorso con cui si deduce la nullità del decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 429 comma 1 lett. c) cod.proc.pen. è per un verso privo di specificità e per altro verso manifestamente infondato.
Sotto il primo profilo non si comprende la censura svolta nella parte in cui argomenta che i ricorrenti non sarebbero “stati messi in condizione di capire in che cosa sia effettivamente consistito il delitto di falso”, costituente il presupposto logico della contestazione di costruzione abusiva in assenza di una norma giuridica che vieti la cessione di cubatura e da cui scaturirebbe la nullità del decreto che dispone il giudizio.
In ogni caso, rileva il Collegio la manifesta infondatezza della censura. Come riportato nel par. 3, non rileva l’assenza di una norma di legge (essendo cessata la vigenza dell’art. 51 della Legge Puglia n. 56 del 1980) a delineare il parametro della legittimità urbanistica, quanto piuttosto la verifica in concreto della sussistenza o meno dei presupposti che regolano l’accorpamento di fondi per la verifica della legittimità di quanto realizzato. Requisiti presenti nel capo di imputazione laddove nella imputazione di violazione dell’art. 44 lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001, si contesta la realizzazione di un manufatto destinato a soddisfare le esigenze abitative, in contrasto con quanto assentito dai titoli edilizi (deposito per attrezzi) mediante non consentito asservimento di fondi, quanto al profilo volumetrico, in assenza di qualifica soggettiva di imprenditore agricolo in capo al proprietario/committente.
5. Privo di specificità estrinseca, non coniugandosi con la decisione, è il terzo motivo di ricorso nel quale si censura la motivazione in punto sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di falso ideologico in autorizzazione amministrativa ex art. 480 cod.pen., per il quale è intervenuta sentenza di non doversi procedere per prescrizione, rilevando che la censura non pone la diversa questione, pure essa comunque infondata, dell’applicazione dell’art. 129 cod.proc.pen., in assenza di evidenza della prova conseguente all’affermazione della responsabilità in primo grado.
6. Parimenti generico, e come tale inammissibile, è il quarto motivo di ricorso in punto diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Rileva il Collegio che il giudice dell’impugnazione ha motivato la mancata concessione in ragione dell’assenza di elementi da valorizzare.
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte d’appello si è attenuta al principio di diritto secondo il quale la concessione delle attenuanti generiche deve essere fondata sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato. Ne consegue che, quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposti alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza – l’onere di motivazione per il diniego dell’attenuante è soddisfatto con il richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, Piliero, Rv. 266460; Sez. 3, n. 44071, del 25/09/2014, Papini e altri, Rv. 260610), elementi rispetto ai quali il ricorso, che richiama la mera complessità della vicenda e delle questioni giuridiche, appare generico.
7. Quanto ai motivi nuovi, deve rilevarsi l’inammissibilità del primo motivo di violazione di legge in relazione al divieto di reformatio in peius perché non devoluto nei motivi principali.
I motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata enunciati nell’originario atto di impugnazione a norma dell’art. 581, comma primo, lett. a), cod. proc. pen., nel senso di statuizioni suscettibili di autonoma considerazione. In ogni caso è manifestamente infondato.
Secondo i ricorrenti, avverso la sentenza avevano proposto appello i soli imputati e la corte territoriale, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato la prescrizione del reato di cui all’art. 480 cod.pen. ed aveva rideterminato la pena irrogando anche l’ammenda di € 31.000,00 (oltre a mesi 3 di arresto), mentre in precedenza gli imputati erano stati condannati alla pena di mesi sei mesi di reclusione.
Al riguardo si è affermato che il divieto di “reformatio in peius” concerne l’irrogazione di una “pena più grave per specie o quantità”, laddove l’uso della congiunzione avversativa “o” implica che l’indice di gravità della “quantità” vada riferito alle pene della stessa specie e non alle categorie disomogenee di pene di specie diversa (Sez. 3, n. 6025 del 26/10/2016, Aperi, Rv. 268950 – 01, in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione che, in un’ipotesi di continuazione, per effetto dell’assoluzione dell’imputato dal reato base più grave, punito con la multa, aveva rideterminato la pena per la residua imputazione, costituita da fattispecie contravvenzionali, applicando l’arresto e l’ammenda, quest’ultima quantificata in misura notevolmente superiore rispetto all’entità della multa originaria).
Il secondo motivo di ricorso con cui si eccepisce la prescrizione del reato maturata nelle more tra il dispositivo e la motivazione della sentenza è parimenti manifestamente infondato. L’inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità, al 26 novembre 2018 (Sez. 2, n. 28848 dell’08/05/2013, Ciaffoni, Rv. 256463) e a fortiori anche tra il dispositivo e il deposito della motivazione.
8. Conclusivamente i ricorsi di Fersino Maria Rita e Mariano Eleno vanno dichiarati inammissibili e i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
9. Il primo motivo di ricorso di Ricciardi Lucio è fondato e il suo accoglimento comporta il rilievo dell’intervenuta causa di estinzione del reato maturata nelle more del giudizio di legittimità.
La questione oggetto di censura attiene al profilo della responsabilità in capo al dirigente del Comune o responsabile dell’ufficio urbanistico per il reato edilizio nel caso di rilascio di permesso di costruire illegittimo.
La sentenza impugnata ha ritenuto la responsabilità penale per il reato di cui all’art. 44 lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001, per avere, quale dirigente dell’area tecnica comunale, violato l’obbligo di vigilanza, ex  d.P.R: n. 380 del 2001, art. 27, sull’attività urbanistico edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, imponendogli di intervenire ogniqualvolta venga accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguire senza titolo o in difformità, attraverso l’emanazione di provvedimenti interdittivi. L’imputato Ricciardi, titolare di una posizione di garanzia, avrebbe dovuto procedere a revocare l’originario permesso a costruire in autotutela, da cui la ritenuta partecipazione nel reato proprio di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, precetto penale diretto non a chiunque ma verso coloro che rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto in relazione all’attività edilizia, sicchè tra costoro vi rientra, in presenza di accertamento del profilo oggettivo e soggettivo, l’imputato. Evidenziava, al riguardo, la sentenza impugnata che l’imputato aveva rilasciato i provvedimenti autorizzatori nella piena consapevolezza dell’insussistenza dei presupposti per l’accorpamento di fondi, essendo stato accertato che la volumetria assentita non corrispondeva a quella consentita nel P di F. e ciò per effetto dell’illegittimo e non consentito accorpamento di fondi.
Superando un risalente orientamento che affermava che in materia edilizia, risponde del reato di cui all’art. 20 della legge 28 febbraio 1985 n. 47, ora sostituito dall’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, il dirigente dell’area tecnica comunale che abbia rilasciato una concessione edilizia (ora permesso di costruire) illegittima, atteso che questi, in quanto incaricato in ragione del proprio ufficio del rilascio di quello specifico atto, è titolare in via diretta ed immediata della relativa posizione di garanzia che trova il proprio fondamento normativo nell’art. 40 cod. pen. (Sez. 3, n. 19566 del 25/03/2004, D’Ascanio ed altri, Rv. 228888), la giurisprudenza più recente è ormai consolidata nel ritenere che non è configurabile, nel caso di rilascio di un permesso di costruire illegittimo, una responsabilità̀ ex art. 40 cpv. per il reato edilizio di cui all’art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell’ufficio urbanistica del Comune in quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell’obbligo di impedire l’evento (Sez. 3 n. 5439 del 25/10/2016, Colasante, Rv. 269247 – 01; Sez. 3, n. 9281 del 26/01/2011, Bucolo, Rv. 249785). In tali pronunce si è precisato che la titolarità della posizione di garanzia, discendente dall’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, ne determina la responsabilità ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei provvedimenti interdittivi e cautelari, ma non in caso di condotta commissiva.
In materia edilizia non c’è dubbio che l’art. 27 d.P.R. n. 380 del 2001 ponga a carico del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale un obbligo di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, imponendogli di intervenire ogni qualvolta venga accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso la emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari (cfr. anche art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001). Egli è quindi certamente titolare di una posizione di garanzia, che gli impone di attivarsi per impedire l’evento dannoso, ma è altrettanto evidente che non si possa richiamare il citato art. 27 per configurare la responsabilità nel reato in presenza di una contestazione di condotta commissiva (rilascio di permesso a costruire).
10. Nel caso in esame, al Ricciardi era contestato, ed era stato ritenuto in sentenza di condanna di primo grado, di aver posto in essere una condotta commissiva, mediante il rilascio di un permesso di costruire illegittimo, e di aver quindi consentito l’esecuzione di lavori. In grado di appello, pur mantenendo fermo l’accertamento e qualificazione della condotta commissiva (pag. 10), si è fatto richiamo all’art. 27 cit. e alla posizione di garanzia, ritenendo sussistente il concorso omissivo del Ricciardi, situazione che è al di fuori della previsione dell’art. 40 cpv. cod. pen.
La sentenza impugnata, che ha mutato il fatto contestato ed è pervenuta ad una condanna in appello per un fatto diverso, deve essere annullata. L’annullamento va disposto senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione del reato maturata nelle more del giudizio di legittimità. I restanti motivi di ricorso non sono fondati (secondo) o sono inammissibili (quarto, quinto, sesto), (vedi supra), e comunque assorbiti.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Ricciardi Lucio per essere il reato estinto per prescrizione.
Dichiara inammissibili i ricorsi di Fersino Maria Rita e Mariano Eleno e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 5 marzo 2020

Scarica in pdf il testo della sentenza: cass. pen, sez. 3, sent. n. 17178-2020