URBANISTICA. Rappresentazione documentale non veritiera dello stato dei luoghi allegata dal privato per il permesso a costruire: è falso ideologico. Cassazione Penale n. 15011/2019.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 15011 del 5 aprile 2019 (ud. dell’11 dicembre 2018)
Pres. Cervadoro, Est. Reyanud

Urbanistica. Falso ideologico in autorizzazioni amministrative. Art. 48, 479, 480, 481 c.p. .
Risponde del delitto di falso ideologico in autorizzazioni amministrative il privato che alleghi, a corredo della richiesta di rilascio di un permesso di costruire (in sanatoria o no), atto avente natura di autorizzazione amministrativa, documentazione non veritiera attestante una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, così inducendo in errore il pubblico ufficiale destinatario della richiesta.

Tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto sia descrittivo sia dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 c.p., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera. Va riconfermato, al riguardo, che il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo ben può investire le attestazioni anche soltanto implicite contenute nell’atto e quei fatti, giuridicamente rilevanti, connessi indiscutibilmente, quali presupposti, con la parte dispositiva dell’atto medesimo (si veda già, in tal senso, Cass., Sez. Unite, 30 giugno 1984, Nirella), sia che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale sia che concernano altri “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità […] La falsa premessa deve concernere un fatto del quale l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità e ciò va inteso anche quale “immutatio veri” circa l’esistenza di un presupposto in assenza del quale il provvedimento non avrebbe potuto essere adottato.

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 15011 del 5 aprile 2019 (ud. dell’11 dicembre 2018)

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 18 dicembre 2017, la Corte d’appello di Lecce ha parzialmente accolto il gravame proposto dall’odierno ricorrente, dichiarando non doversi procedere in ordine alla contravvenzione urbanistica ritenuta in primo grado per essere il reato estinto per intervenuta sanatoria. La sentenza di primo grado è stata invece confermata nella parte in cui ha giudicato Accogli Cristian responsabile del reato di falso per induzione, commesso in concorso con il tecnico da lui incaricato per la pratica edilizia, per aver determinato con l’inganno il responsabile dell’ufficio tecnico comunale – mediante false attestazioni ed una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi – a rilasciare il permesso di costruire del 4 ottobre 2010, da considerarsi ideologicamente falso in quanto fondato su presupposti insussistenti. Il fatto, in primo grado ricondotto al delitto, contestato in imputazione, di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen., è stato tuttavia riqualificato nel reato di cui agli artt. 48 e 480 cod. pen., con conseguente riduzione della pena inflitta.
2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso il difensore  dell’imputato, deducendo i  motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
3. Con il primo motivo si deducono, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 178 lett. c) e 521 cod. proc. pen. e la mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione con riguardo alla lesione del diritto al contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del reato inaspettatamente operata ex officio in grado d’appello. Detta riqualificazione aveva leso il diritto dell’imputato all’informazione sulla natura dell’accusa, garantito dagli artt. 111, terzo comma, Cost. e 6, terzo paragrafo, lett. a), CEDU, come anche sancito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella decisione 11 dicembre 2007, emessa nel caso Drassich c. Italia. Il ricorrente, ritenendo esservi sul punto un contrasto nella giurisprudenza di legittimità (rispetto al quale si segnala altresì l’eventuale opportunità della rimessione del procedimento alle Sezioni Unite), rileva come detto diritto debba essere garantito sin dal giudizio di merito, non essendo sufficiente la possibilità di contestare la riqualificazione in sede di ricorso per cassazione, anche in relazione ai riflessi in ambito di strategia e difesa processuale con riguardo all’applicazione di diversi istituti di diritto sostanziale.
4. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione degli artt. 43, 48 e 480 cod. pen. e vizio di motivazione per essere stato ritenuto in capo all’imputato l’elemento soggettivo del dolo, senza vagliare le circostanze in fatto segnalate nell’atto d’appello, che avrebbero dovuto indurre a ravvisare nella condotta dell’imputato soltanto profili di colpa, per essersi egli fidato ciecamente del proprio padre e del progettista, i quali concretamente si occuparono di predisporre la pratica per il rilascio del permesso di costruire.
5. Con il terzo motivo, si deducono inosservanza dell’art. 131 bis cod. pen. e vizio di motivazione con riguardo alla mancata applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto – di cui nel caso di specie sussisterebbero i presupposti – che la Corte territoriale avrebbe dovuto d’ufficio riconoscere e che è comunque per la prima volta deducibile nel presente giudizio di legittimità perché la giuridica possibilità di applicarla è dipesa dalla derubricazione del titolo di reato effettuata dal giudice d’appello senza che sia stato consentito sul punto il contraddittorio.
6. Con il quarto motivo di ricorso si lamentano erronea applicazione ed  inosservanza degli artt. 480, 481 e 157 cod. pen. e vizio di motivazione.
Si rleva, in primo luogo, come in ipotesi come quella sub iudice sarebbe ravvisabile – sia per il privato, sia per il tecnico – il solo reato di cui all’art. 481 cod. pen., il quale richiede però, non trattandosi nella specie di documentazione e attestazione aventi valore probatorio e fidefaciente assoluto, l’obbligo per il giudice di merito di valutare se l’ufficio comunale abbia esercitato il potere-dovere di espletare attività istruttoria, ciò che non è avvenuto.
In subordine, essendo il delitto di cui all’art. 481 cod. pen. a consumazione istantanea, lo stesso è da ritenersi perfezionato alla data di formazione della falsa documentazione, vale a dire il 16 marzo 2009, sicché, pur tenendo conto delle cause di sospensione della prescrizione, il reato era estinto per tale causa già alla data della sentenza d’appello, come rilevato in sede di discussione dal difensore (ciò che è attestato nella sentenza impugnata).
7. Con il quinto motivo, in via subordinata rispetto ai precedenti, si  deducono erronea applicazione ed  inosservanza degli artt. 158, 480 e 483 cod. pen. e vizio di motivazione sul rilievo che il fatto sarebbe al limite riconducibile al delitto da ultimo menzionato – come riconosciuto da parte della giurisprudenza in casi analoghi – e, pur sollecitata sul punto alla riqualificazione, la Corte d’appello non ha in alcun modo affrontato in sentenza la questione, che, come richiesto in sede di discussione, avrebbe determinato il riconoscimento dell’intervenuta prescrizione del reato essendo pure questo consumato alla data del 16 marzo 2009.
8. Con l’ultimo motivo si lamenta il vizio di motivazione, in relazione agli artt. 132 e 133 cod. pen., con riguardo quantificazione della pena, effettuata in termini superiori al minimo edittale senza alcuna indicazione dei parametri utilizzati.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso non è fondato.
Premesso che non sussiste violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza quando non muta il fatto storico sussunto nell’ambito della contestazione (Sez. 3, n. 5463 del 05/12/2013, Diouf, Rv. 258975), il giudice d’appello, senza immutare il fatto, si è limitato a riqualificare il reato non superando la competenza del giudice di primo grado e senza aggravare il trattamento sanzionatorio – anzi, conseguentemente riducendolo – né arrecando in altro modo pregiudizio alla posizione dell’imputato appellante, così pienamente rispettando il dettato di cui all’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., che tale facoltà espressamente prevede.
Quanto alla compatibilità di detto potere con la C.E.D.U., è consolidato il principio secondo cui il giudice di appello può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto nel rispetto del principio del giusto processo previsto dall’art. 6 C.E.D.U., come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, anche senza disporre una rinnovazione totale o parziale dell’istruttoria dibattimentale, sempre che sia sufficientemente prevedibile la ridefinizione dell’accusa inizialmente formulata, che il condannato sia in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto e che questa non comporti una modifica “in peius” del trattamento sanzionatorio e del computo della prescrizione (Sez. 4, n. 23186 del 13/04/2016, Suffer, Rv. 268995; Sez. 2, n. 2884 del 16/01/2015, Peverello e a., Rv. 262285; Sez. 2, n. 38049 del 18/07/2014, De Vuono, Rv. 260585).  Essendo certamente prevedibile tale riqualificazione – che il permesso di costruire sia provvedimento avente natura di autorizzazione amministrativa, con le ovvie conseguenze anche in tema di ipotesi di reato ravvisabile nel caso di falso, è conclusione sostanzialmente pacifica a far tempo dalla sent. Sez. U, n. 673 del 20/11/1996, dep. 1997, Botta, Rv. 206661 –   tra le menzionate condizioni il ricorrente contesta unicamente il difetto di contraddittorio sulla riqualificazione e la conseguente violazione del diritto di difesa. La doglianza, tuttavia, è  infondata alla luce del principio, ripetutamente affermato, anche nel giudizio successivo alla pronuncia della Corte EDU evocata in ricorso, secondo cui, qualora il fatto venga diversamente qualificato dal giudice di appello senza che l’imputato abbia preventivamente avuto modo di interloquire sul punto, la garanzia del contraddittorio resta comunque assicurata dalla possibilità di contestare la diversa definizione mediante il ricorso per cassazione (Sez. 2, n. 37413 del 15/05/2013, Drassich, Rv. 256652; Sez. 2, n. 21170 del 07/05/2013, Maiuri, Rv. 255735; Sez. 2, n. 45795 del 13/11/2012, Tirenna, Rv. 254357). Questo orientamento, consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte (v., di recente, Sez. 3, 02/10/2018, Peluso, non massimata) e che il Collegio condivide, ha superato il minoritario, più risalente, orientamento citato in ricorso, di cui è espressione Sez. 1, n. 18590 del 29/04/2011, Corsi, Rv. 250275, sicché non v’è ragione di investire della questione le Sezioni Unite.
Nel presente giudizio di legittimità, avendone avuto la possibilità, il ricorrente non ha contestato, in sé, la derubricazione del delitto dall’art. 479 all’art. 480 cod. pen., effettuata sul già segnalato presupposto che il permesso di costruire sia un’autorizzazione amministrativa e non un atto pubblico fidefaciente, ma ha ritenuto errata la qualificazione giuridica (sia quella originaria, sia quella in appello derubricata) sul rilievo che il fatto dovrebbe essere invece ricondotto ad altre, meno gravi, ipotesi delittuose in materia di falso. In ogni caso, il contraddittorio sulla qualificazione giuridica del fatto è stato ampiamente assicurato ed è di fatto avvenuto, sicché non v’è alcuna lesione dei diritti di difesa.
Sotto altro profilo, osserva il Collegio come la possibilità di invocare istituti sostanziali di favor nel giudizio di legittimità, a seguito della riqualificazione operata in grado d’appello, sia certamente consentita, come più oltre si avrà modo di vedere con riguardo all’unico aspetto nella specie rilevante, vale a dire la richiesta di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (v. infra, sub §. 5). Gli altri istituti evocati a pag. 8 del ricorso non sono invece nella specie applicabili – né sono stati invocati – sicché sul punto difetta in radice l’interesse ad avanzare doglianze.
2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Non formando più oggetto di giudizio la contravvenzione urbanistica, la sentenza impugnata, con motivazione tutt’altro che illogica, ha ritenuto il dolo dell’odierno ricorrente in ordine al reato di falso per induzione a lui ascritto sul rilievo che il medesimo, firmando quale richiedente, nel marzo 2009, l’istanza volta al rilascio di un permesso di costruire volto alla realizzazione di una casa colonica con risanamento di manufatto esistente su terreno di sua proprietà, certamente sapeva che la stessa era stata da tempo pressoché ultimata (tra l’estate del 2006 ed il luglio del 2007, recita l’imputazione) e poteva apprezzare la falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, che si riferiva ad epoca risalente, risultante dalla documentazione fotografica allegata all’istanza. Del resto – ha altrettanto logicamente osservato l’ordinanza – egli era il beneficiario del permesso di costruire richiesto e l’interessato ad ottenerlo e, anche successivamente, curò pacificamente le pratiche edilizie sino ad ottenere il rilascio del permesso di costruire in sanatoria. Si tratta, dunque, di una logica ricostruzione dei fatti, rientrante nell’esclusiva cognizione del giudice di merito, che non può essere sindacata in questa sede.
3. Il quarto motivo di ricorso è ammissibile unicamente con riguardo alla dedotta violazione di legge, mentre non lo è quanto al lamentato vizio di motivazione, trattandosi di questione non dedotta nei motivi d’appello.
Deve ribadirsi, al proposito, che laddove si deduca con il ricorso per cassazione il mancato esame da parte del giudice di secondo grado di un motivo dedotto con l’atto d’appello, occorre procedere alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di gravame, contenuto nel provvedimento impugnato, che non menzioni la doglianza proposta in sede di impugnazione di merito, in quanto, in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve ritenersi proposto per la prima volta in cassazione (Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, Ciccarelli e a., Rv. 270627; Sez. 2, n. 9028/2014 del 05/11/2013, Carrieri, Rv. 259066). Nella specie ciò non è stato fatto e per ciò solo – in questa parte – il ricorso sarebbe inammissibile per genericità.
Deve aggiungersi che l’esame dell’atto d’appello ha consentito al Collegio di verificare che la doglianza relativa all’inquadramento della fattispecie nell’ambito del reato previsto dall’art. 481 cod. pen. non era stata effettivamente dedotta, sicché non può sul punto prospettarsi il vizio di motivazione né può farsi carico al giudice d’appello di non aver esaminato se nella vicenda ricorressero i presupposti di fatto per poter ravvisare tale delitto.
Per contro, sul piano della violazione di legge, la doglianza è ammissibile, poiché la questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra tra quelle su cui la Corte di cassazione può decidere ex art. 609 cod. proc. pen. e, pertanto, può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità purché l’impugnazione non sia inammissibile e per la sua soluzione non siano necessari accertamenti di fatto (Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272651; Sez. 1, n. 13387 del 16/05/2013, dep. 2014, Rossi, Rv. 259730).
Il motivo, tuttavia, è infondato, poiché – al di là della circostanza se nella specie siano ravvisabili ulteriori ipotesi di reato, questione ovviamente non prospettabile nella presente sede di legittimità – certamente corretta è la qualificazione giuridica del fatto data dalla corte territoriale e la doglianza va pertanto esaminata unitamente al quinto motivo di ricorso, che, come già avvenuto con il gravame, prospetta la alternativa qualificazione giuridica quale violazione dell’art. 483 cod. pen.
3.1. Il Collegio, di fatti, condivide l’orientamento – anche di recente ribadito – secondo cui risponde del delitto di falso ideologico in autorizzazioni amministrative il privato che alleghi, a corredo della richiesta di rilascio di un permesso di costruire (in sanatoria o no), atto avente natura di autorizzazione amministrativa, documentazione non veritiera attestante una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, così inducendo in errore il pubblico ufficiale destinatario della richiesta (Sez. 3, n. 7273 del 09/01/2018, Cavallo, Rv. 272559; Sez. 5, n. 37555 del 15/07/2008, Anello e aa., Rv. 241643). L’orientamento ha consolidate radici nella giurisprudenza di questa Corte, espressa, in ripetute occasioni, nella sua più autorevole composizione.
Ed invero, nel confermare un più risalente arresto (Sez. U, n. 1827 del 03/02/1995, Proietti e aa., Rv. 200117), e richiamando ulteriore precedente, le Sezioni unite – che nella specie esaminavano un falso ideologico in atto pubblico e non in certificati o autorizzazioni amministrative, ma le valutazioni ovviamente non cambiano – hanno ribadito che «tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto sia descrittivo sia dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 c.p., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera. Va riconfermato, al riguardo, che il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo ben può investire le attestazioni anche soltanto implicite contenute nell’atto e quei fatti, giuridicamente rilevanti, connessi indiscutibilmente, quali presupposti, con la parte dispositiva dell’atto medesimo (si veda già, in tal senso, Cass., Sez. Unite, 30 giugno 1984, Nirella), sia che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale sia che concernano altri “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità” (art. 479 c.p., ultima parte) […] La falsa premessa deve concernere un fatto del quale l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità e ciò va inteso anche quale “immutatio veri” circa l’esistenza di un presupposto in assenza del quale il provvedimento non avrebbe potuto essere adottato» (Sez. U, n. 35488 del 28/06/2007, Scelsi e a., in motivazione).
Con riferimento ai rapporti tra il delitto di falso ideologico in atto pubblico per induzione (artt. 48-479 o 48-480 cod. pen.) ed il reato di falsità ideologica in atto pubblico commesso da privati (art. 483 cod. pen.), la citata decisione ha affermato che, «stante il rapporto di causa-effetto tra il fatto attestato dal privato, quale presupposto dell’emanazione dell’atto del pubblico ufficiale, ed il contenuto dispositivo di quest’ultimo e stante, altresì, la stretta connessione logica tra l’uno e l’altro, la falsità del primo si riverbera sul secondo e diventa essa stessa falsità di questo, sicché la recepita falsa attestazione del decipiens acquista la ulteriore veste di falsa attestazione del pubblico ufficiale deceptus sui fatti falsamente dichiarati dal primo e dei quali l’atto pubblico è destinato a provare la verità. Si configurano perciò, anche sotto il profilo naturalistico, due condotte riconducibili al decipiens: una prima condotta consistente nella redazione della falsa attestazione ed una seconda concretatasi nell’induzione in errore del pubblico ufficiale mediante la produzione della stessa ai fini dell’integrazione di un presupposto dell’atto pubblico emanando, con conseguente configurabilità del concorso materiale tra i due reati, legati anche da connessione teleologica» (Sez. U, n. 35488 del 28/06/2007, Scelsi e a., in motivazione). Si è, pertanto, tratta la conclusione secondo cui il delitto di falsa attestazione del privato di cui all’art. 483 cod. pen. può concorrere – quando la falsa dichiarazione sia prevista di per sé come reato – con quello della falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto al quale la attestazione inerisca (artt. 48 e 479 cod. pen.), sempre che la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità (Sez. U, n. 35488 del 28/06/2007, Scelsi e aa., Rv. 236868 – 01).
3.2. Per questa ragione non stupiscono – dipendendo dall’impostazione che si è data al procedimento sin dalle fasi iniziali – alcuni dei precedenti, citati dal ricorrente, in cui, in fattispecie non dissimili (ma neppure identiche), è stata ritenuta la sussistenza del delitto di cui all’art. 483 cod. pen., ravvisabile quando la falsa attestazione del privato sia contenuta in un atto qualificabile come pubblico e contenente fatti dei quali lo stesso sia destinato a provare la verità, ciò che nella materia de qua è per lo più avvenuto con riguardo alle attestazioni circa la data di ultimazione di manufatti abusivamente realizzati, contenute in dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà presentate al fine di ottenere il provvedimento di sanatoria nell’ambito delle procedure di condono edilizio (cfr. Sez. 5, n. 42524 del 12/07/2012, Picone, Rv. 254119). Ciò non toglie che, laddove tale falsa dichiarazione abbia altresì indotto il pubblico funzionario ad emanare il provvedimento di sanatoria, il privato si renda responsabile anche del delitto di cui agli artt. 48 e 480 cod. pen., giusta le argomentazioni svolte nella citata sentenza Scelsi resa dalle Sezioni unite, che non hanno condiviso un orientamento precedente difforme di cui erano espressione alcune delle decisioni citate in ricorso (Sez. 5, n. 22021 del 04/04/2003, Carbini, Rv. 227147; Sez. 5, n. 21209 del 25/05/2006, Bartolazzi e a., Rv. 234210).
3.3. Le stesse conclusioni valgono con riguardo al delitto di cui all’art. 481 cod. pen., laddove – per la qualifica soggettiva dell’autore del falso (in cui può ovviamente concorrere anche il soggetto extraneus) – nella mera falsa attestazione sia ravvisabile tale reato piuttosto che quello di cui all’art. 483 cod. pen., ciò che, oggi, dovrebbe peraltro ritenersi con riguardo allo specifico reato previsto dall’art. 20, comma 13, d.P.R. 380/2001, non ancora introdotto nell’ordinamento all’epoca dei fatti qui sub iudice (cfr. Sez. 3, n. 29251 del 05/05/2017, Vigliar e a., Rv. 270433). Anche in questo caso, laddove sussistano i presupposti di entrambe le fattispecie ed il pubblico ufficiale abbia emanato l’autorizzazione perché tratto in inganno dalla falsa attestazione, sono ravvisabili sia il delitto di cui all’art. 481 cod. pen. (o, oggi, art. 20, comma 13, d.P.R. 380 del 2001) e quello di cui agli artt. 48 e 480 cod. pen. (cfr., in motivazione, Sez. 5, n. 3146 del 07/12/2007, dep. 2008, Sechi e a., Rv. 238344).
4. Posto che l’ultimo motivo di ricorso è inammissibile, giusta il principio secondo cui, in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale – e vi è più quando, come nella specie, la pena sia di pochissimo superiore al minimo edittale – non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197), deve invece ritenersi fondato il terzo motivo di ricorso, con cui si lamenta la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
Benché la richiesta non risulti essere stata avanzata nel giudizio d’appello, reputa il Collegio che nella specie non si tratti di doglianza inammissibile ai sensi dell’art. 603, comma 3, ult. parte, cod. proc. pen., perché la condanna in primo grado inflitta per il reato di cui all’art. 479 cod. pen. – che prevede una pena edittale compresa tra uno a sei anni di reclusione – escludeva l’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 131 bis cod. pen., sicché l’appellante non poteva ritenersi onerato di invocare detta fattispecie. La possibilità di farne applicazione è invece derivata dalla derubricazione – non richiesta dall’odierno ricorrente, né oggetto di impugnazione presentata dal pubblico ministero, ma, come detto, operata d’ufficio dalla corte territoriale senza aver prima sollecitato il contraddittorio sul punto – nel delitto di cui all’art. 480 cod. pen., punito con la ben meno grave pena edittale da tre mesi a due anni di reclusione.
Proprio la possibilità – riconosciuta in base ai principi sopra affermati sub §. 1 – di instaurare il contraddittorio sull’intervenuta riqualificazione nella presente fase di legittimità induce il Collegio a ritenere ammissibile la doglianza, resa appunto proponibile dalla decisione assunta dalla corte territoriale, dovendo affermarsi il principio secondo cui, qualora il fatto venga diversamente qualificato dal giudice di appello senza che l’imputato abbia preventivamente avuto modo di interloquire sul punto, la garanzia del contraddittorio assicurata mediante la possibilità di proporre il ricorso per cassazione implica che possa in tale sede essere per la prima volta invocata la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, resa astrattamente applicabile in base agli inferiori limiti edittali di pena fissati per la diversa ipotesi criminosa ex officio ritenuta.
4.1. Dalle sentenze di merito si apprende che l’imputato è incensurato e la condotta non risulta abituale, non rilevando al proposito la declaratoria di estinzione per prescrizione della contravvenzione urbanistica ritenuta in primo grado, giusta il principio secondo cui il quale ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 Ud., Tushaj, Rv. 266591). Non essendo nella specie ravvisabile alcuna delle condizioni ostative di cui all’art. 131 bis, secondo comma, cod. pen., nella motivazione della sentenza impugnata non è neppure rintracciabile un’implicita motivazione che escluda la particolare tenuità del fatto, non essendo al proposito univoca la determinazione della pena base in termini di pochissimo superiore al minimo edittale (mesi 4 e giorni 15 di reclusione), e ciò anche per la mancata indicazione dei parametri nella specie utilizzati, ed in particolare se soltanto quelli di cui all’art. 133, primo comma, cod. pen., ovvero anche quelli di cui al secondo comma della disposizione. Deve inoltre considerarsi come all’imputato siano state concesse le circostanze attenuanti generiche nella massima estensione.
Proprio il carattere equivoco della determinazione della pena base non consente, per contro, di poter fare qui applicazione del principio secondo cui la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis cod. pen., nel giudizio di legittimità, può essere ritenuta, senza rinvio del processo nella sede di merito, in presenza di un ricorso ammissibile, a condizione che i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali a tal fine (Sez. 1, sent. n. 27752 del 09/05/2017, Menegotti, Rv. 270271). S’impone, pertanto, un completo giudizio di merito sul punto.
Nel respingere nel resto il ricorso, la sentenza impugnata deve dunque essere annullata limitatamente a tale questione, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Lecce, vale a dire – avendo quest’ultima una sola sezione penale nella sede principale del capoluogo distrettuale – alla Sezione distaccata di Taranto. Essendo intervenute due cause di sospensione del corso della prescrizione per complessivi 346 giorni (per i rinvii del processo di primo grado richiesti ed ottenuti alle udienze del 7 marzo e 20 ottobre 2014 per adesione dei difensori all’astensione dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria), il reato non è infatti ad oggi prescritto, né il termine potrà successivamente decorrere nel giudizio di rinvio a seguito della presente sentenza di annullamento parziale, come affermato da consolidato orientamento di questa Corte (Sez. 3, n. 30383 del 30/03/2016, Mazzoccoli e a., Rv. 267590; Sez. 3, sent. n. 50215 del 08/10/2015, Sarli, Rv. 265434; Sez. 3, n. 38380 del 15/07/2015, Ferraiuolo e a., Rv. 264796).

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. e rinvia per esame sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso l’11 dicembre 2018.

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