BENI AMBIENTALI. Reato edilizio, tutela del paesaggio e nozione giuridica di “bosco”. Cassazione Penale n. 2520/2021.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 2520 del 24 gennaio 2022 (ud. del 14 dicembre 2021)
Pres. Rosi, Est. Di Stasi

Beni ambientali. Reato edilizio e nozione giuridica di bosco. Artt. 181 comma 1, 178 del d. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42. Art. 44, comma 1 lett.c) dpr n. 380/2001.

In tema di tutela del paesaggio, dopo l’entrata in vigore del d. lgs. 18 maggio 2001, n. 227, deve qualificarsi come bosco – meritevole di protezione ai sensi dell’art. 181 del d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – ogni terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da macchia mediterranea, purché aventi un’estensione non inferiore a mq. duemila, con larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore al 20 per cento

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 2520 del 24 gennaio 2022 (ud. del 14 dicembre 2021)

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 10/12/2020, la Corte di appello di Venezia confermava la sentenza emessa in data 14/05/2019 dal Tribunale di Vicenza, con la quale OMISSIS era stato dichiarato responsabile dei reati di cui agli artt. 44, comma 1 lett.c) dpr n. 380/2001, 181, comma 1 e 178 comma 1 lett. a) d. lgs 42/2004 e condannato alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione ed euro 3.000,00 di multa.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione OMISSIS, a mezzo del difensore di fiducia, articolando cinque motivi di seguito enunciati.

Con il primo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione in ordine alla la mancata declaratoria della prescrizione per il reato contestato sub a) e b) dell’imputazione.

Argomenta che la Corte territoriale aveva erroneamente valutato che i lavori edilizi non fossero stati ancora ultimati alla data del luglio 2016, in quanto le risultanze istruttorie comprovavano che i lavori contestati si erano effettivamente conclusi nel mese di giugno del 2015 o, al più, nel novembre 2015.
Con il secondo motivo di ricorso deduce erronea applicazione di legge penale con riferimento alla definizione di zona boscata lamentando che la Corte di appello aveva omesso l’accertamento sulla natura boschiva dell’area interessata dalle opere contestate, ritenendola tale sulla sola base dei fotogrammi di Google Hearth, insufficienti a dimostrare la presenza di un bosco, da individuarsi in base all’art. 2 del d. lgs 227/2001, in mancanza di eventuali norme regionali.

Con il terzo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione in ordine alla ritenuta validità del vincolo nell’area siccome non caratterizzata dalla presenza di un bosco, lamentando che la Corte di appello non aveva fornito risposta alla censura con la quale si evidenziava che dai fotogrammi esaminati si evinceva una progressiva diminuzione della vegetazione boschiva nella zona e, quindi, il venir meno del relativo vincolo.

Con il quarto motivo di ricorso deduce vizio di motivazione in relazione alla grossolanità del falso di cui al reato sub c) dell’imputazione, reato da ritenersi impossibile, sulla base dei materiali, delle tecniche di costruzione e degli elementi esterni.

Con il quinto motivo di ricorso deduce violazione dell’art. 133 cod. pen. e vizio di motivazione in relazione alla dosimetria della pena, lamentando che erroneamente ed illogicamente la Corte di appello aveva dato rilievo alle dimensioni dell’opera edilizia ed all’intensità del dolo desunta alla finalità di sfruttamento economico dell’opera ed alla personalità dell’imputato.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

3. Si è proceduto in camera di consiglio senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, in base al disposto dell’art. 23, comma 8 d.l. 137/2020, conv. in l. n. 176/2020

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Il primo motivo è inammissibile.

Va ricordato che il reato di costruzione abusiva ha natura permanente per tutto il tempo in cui continua l’attività edilizia illecita, ed il suo momento di cessazione va individuato o nella sospensione di lavori, sia essa volontaria o imposta ex auctoritate, o nella ultimazione dei lavori per il completamento dell’opera o, infine, nella sentenza di primo grado ove i lavori siano proseguiti dopo l’accertamento e sino alla data del giudizio (SS UU., n.17178 del 27/02/2002, Rv.221399; Sez.3, n.38136 del 25/09/2001, Rv.220351; Sez.3, n.29974 del 06/05/2014, Rv.260498).

Questa Corte ha, inoltre, affermato che deve ritenersi ultimato solo l’edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità (Sez. 3, n. 40033 del 18/10/2011, Cappello, Rv. 250826) al punto che anche l’uso effettivo dell’immobile, se pure accompagnato dall’attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente al fine di ritenere “ultimato” l’immobile abusivamente realizzato, coincidendo l’ultimazione con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura, Rv. 251424; Sez. 3, n.48002 del 17/09/2014, Rv.261153).

Si tratta di un principio affermato anche con riferimento al reato previsto dall’ art. 181, comma 1, del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, qualora la fattispecie sia realizzata, come nella specie, attraverso una condotta che si protragga nel tempo, come nel caso di realizzazione di opere edilizie in zona sottoposta a vincolo, trattandosi di reato che ha natura permanente e che si consuma con l’esaurimento totale dell’attività o con la cessazione della condotta per qualsiasi motivo. (Sez. 3, n. 28934 del 26/03/2013, Borsani, Rv. 256897; Sez.3, n. 24690 del 18/02/2015, Rv.263926).

La Corte di appello, facendo buon governo del principio di diritto suesposto, ha evidenziato con motivazione congrua e logica che si sottrae al sindacato di legittimità (cfr. pag. 12 e 13 della sentenza impugnata), come le convergenti risultanze istruttorie comprovano che alla data del 20.7.2016 le opere abusive erano ancora in corso(risultando, conseguentemente, contraddetta dalle risultanze istruttorie la diversa allegazione difensiva che collocava la data di ultimazione delle opere nel giugno del 2015 o, al più, nel novembre 2015) e che da tale data decorreva il termine prescrizionale quinquennale che, con tutta evidenza, non era ancora maturato al momento della pronuncia della sentenza di appello.

Il ricorrente si limita sostanzialmente a proporre una lettura alternativa del materiale probatorio, dilungandosi in considerazioni in punto di fatto, che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità, non essendo demandato alla Corte di cassazione un riesame critico delle risultanze istruttorie
2. Il secondo motivo ed il terzo motivo, che si trattano congiuntamente perché oggettivamente connessi, sono inammissibili.

La Corte territoriale, in aderenza alle complessive risultanze istruttorie (dichiarazioni testimoniali e prove documentali) ha confermato la valutazione del primo giudice e ritenuto che l’area interessata dalle opere abusive era in precedenza ricoperta da bosco e che l’attività illecita dell’imputato aveva portato ad un progressivo disboscamento della stessa (cfr. pag. 14, 15, 16 della sentenza impugnata).
La motivazione è congrua e logica ed insindacabile in sede di legittimità e la nozione di bosco posta a fondamento della decisione impugnata è in linea con il principio di diritto, secondo cui, in tema di tutela del paesaggio, dopo l’entrata in vigore del d. lgs. 18 maggio 2001, n. 227, deve qualificarsi come bosco – meritevole di protezione ai sensi dell’art. 181 del d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – ogni terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da macchia mediterranea, purché aventi un’estensione non inferiore a mq. duemila, con larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore al 20 per cento (Sez.3, n. 32807 del 23/04/2013, Rv.255904 – 01).

A fronte di tale adeguata e corretta motivazione, il ricorrente svolge in sostanza inammissibili rilievi in fatto senza neppure confrontarsi con l’articolato percorso argomentativo della sentenza impugnata.

3. Del pari inammissibile è il quarto motivo.

La Corte territoriale ha disatteso con argomentazioni congrue e logiche, non sindacabili in questa sede, la deduzione difensiva con la quale si prospettava la grossolanità del falso architettonico, rimarcando come la natura e la consistenza dell’opera realizzata nonchè le modalità della sua pubblicizzazione erano idonee a trarre in inganno una persona comune senza peculiari nozioni storico artistiche.
Il ricorrente ripropone la stessa doglianza motivatamente disattesa dai Giudici di appello dilungandosi, anche su tale questione, in considerazioni in punto di fatto, che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità, non essendo demandato alla Corte di cassazione un riesame critico delle risultanze istruttorie.

4. Il quinto motivo è manifestamente infondato.

La sentenza impugnata ha fatto corretto uso dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., ritenuti sufficienti dalla Giurisprudenza di legittimità, per la congrua motivazione in termini di determinazione della pena; la Corte territoriale riguardo alla pena ha richiamato le dimensioni dell’opera ed il relativo impatto sul territorio nonchè la particolare intensità del dolo desunta dalla finalità di sfruttamento economico dell’opera realizzata ed alla personalità dell’imputato desunta dalle modalità della condotta, così che la pena irrogata è stata ritenuta adeguata ai fatti accertati.
Va ricordato che, ai fini del trattamento sanzionatorio, è sufficiente che il giudice di merito prenda in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen. quello (o quelli) che ritiene prevalente e atto a consigliare la determinazione della pena; e il relativo apprezzamento discrezionale, laddove supportato da una motivazione idonea a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo, non è censurabile in sede di legittimità se congruamente motivato. Ciò vale, a fortiori, anche per il giudice d’appello, il quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante, non è tenuto a un’analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, deve indicare quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (Sez.2, n.19907 del 19/02/2009, Rv.244880; Sez. 4, 4 luglio 2006, n. 32290).

5. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue anche quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

6. Il ricorrente va, inoltre, condannato, in base al disposto dell’art. 541 cod. proc. pen. alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile che, avuto riguardo ai parametri di cui alle tabelle allegate al D.M. n. 55/2014, come aggiornate sulla base del DM n. 37/2018, all’impegno profuso, all’oggetto e alla natura del processo, si ritiene di dover liquidare nella misura di cui al dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro tremilacinquecento, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso il 14/12/2021

Scarica in pdf il testo della sentenza: cass. pen., sez. 3, sent. n. 2520-2022