Rifiuti. Attività organizzate per il traffico illecito, nozione della c.d. “attività clandestina”, falsità del CER. Cassazione Penale.

Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 47959 del 14 novembre 2016 (ud. 21 luglio 2016)
Pres. Ramacci, Est. Riccardi
Rifiuti. Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. Rifiuti identificati da un falso CER. Momento consumativo del delitto. Pluralità di condotte. Artt. 258, 260 d. lgs. 152/2006. Attività organizzata di gestione dei rifiuti. Presupposti identificativi. Nozione della c.d. “attività clandestina”. Inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni. Effetti. Requisito dell’abusività della gestione. Riconoscimento delle attenuanti generiche. Presupposti e aspetti della valutazione. 
Il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, previsto dall’art. 260 d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in quanto necessariamente caratterizzato da una pluralità di condotte, alcune delle quali, se singolarmente considerate, potrebbero costituire reato, ha natura di reato abituale proprio e si consuma, pertanto, con la cessazione dell’attività organizzata, finalizzata al traffico illecito (cfr. Cass. Pen., Sez. III n. 44629 del 22 ottobre 2015, Bettelli; Sez. III, n. 46705 del 3 novembre 2009, Caserta). Nella specie è stata considerata, immune da censure, altresì, la qualificazione delle condotte in termini di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, essendo emerso l’allestimento di mezzi e attività continuative ed il compimento di più operazioni finalizzate alla gestione abusiva dì rifiuti, così da esporre a pericolo la pubblica incolumità e la tutela dell’ambiente (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 5773 del 17 gennaio 2014, Napolitano): ricorrendo la pluralità di operazioni, atteso che l’avviamento dei rifiuti, identificati da un falso CER, alla discarica della ditta Caserta è proseguito per anni.
Sussiste il carattere abusivo dell’attività organizzata di gestione dei rifiuti qualora essa si svolga continuativamente nell’inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni, il che si verifica non solo allorché tali autorizzazioni manchino del tutto (c.d. attività clandestina), ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime, e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati e accompagnati da bolle false quanto a codice attestante la natura del rifiuto, in modo da celarne le reali caratteristiche e farli apparire conformi ai provvedimenti autorizzatori dei siti di destinazione finale (cfr. Cass. Pen., Sez. V, n. 40330 del 11 ottobre 2006, Pellini, a proposito dell’analoga fattispecie in cui le condotte incriminate si svolgevano secondo il c.d. sistema del “giro bolla” e cioè i rifiuti, in quantità ingenti, venivano declassificati mediante documenti falsi e fatti confluire in stabilimenti privi dei requisiti necessari mentre le relative autorizzazioni venivano acquisite sulla base di falsità documentali, inidonee rispetto alla natura dei rifiuti effettivamente ricevuti). È stato, altresì, chiarito che, in tema di traffico illecito di rifiuti, il requisito dell’abusività della gestione deve essere interpretato in stretta connessione con gli altri elementi tipici della fattispecie, quali la reiterazione della condotta illecita e il dolo specifico d’ingiusto profitto. Ne consegue che la mancanza delle autorizzazioni non costituisce requisito determinante per la configurazione del delitto che, da un lato, può sussistere anche quando la concreta gestione dei rifiuti risulti totalmente difforme dall’attività autorizzata; dall’altro, può risultare insussistente, quando la carenza dell’autorizzazione assuma rilievo puramente formale e non sia causalmente collegata agli altri elementi costitutivi del traffico (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 44449 del 15 ottobre 2013, Ghidoli).
Il riconoscimento delle attenuanti generiche deve essere fondato sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato; ne consegue che, quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante è soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 9836 del 17 novembre 2015, dep. 2016, Piliero, Rv. 266460); ai fini della determinazione della pena, il giudice può tenere conto di uno stesso elemento (nella specie: la gravità della condotta) che abbia attitudine a influire su diversi aspetti della valutazione, ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del “ne bis in idem” (cfr. Cass. Pen., Sez. II, n. 24995 del 14 maggio 2015, Rechichi, Rv. 264378).
 

Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 47959 del 14 novembre 2016 (ud. 21 luglio 2016)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA 
sul ricorso proposto da Rivoli Rossana, nata a Bari il 12/01/1963;
avverso la sentenza del 19/02/2015 della Corte di Appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Giuseppe Riccardi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio Baldi, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore della parte civile, Avv. Rodolfo Ambrosia, che ha concluso chiedendo il rigetto.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 19/02/2015 la Corte di Appello di Reggio Calabria confermava la condanna di Rivoli Rossana alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione emessa dal Gip del Tribunale di Reggio Calabria per i reati di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260, e di false indicazioni sulla tipologia, la classificazione e le caratteristiche di pericolo dei rifiuti trasportati, di cui all’art. 258, comma 4, d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152.
2. Ha proposto ricorso personalmente Rivoli Rossana, chiedendo l’annullamento della sentenza, e deducendo tre motivi.
2.1. Vizio di motivazione: lamenta che la sussistenza dell’accordo collusivo tra la Omniplast e la ditta Caserta sia stata affermata sulla base della sola perizia, che ha accertato l’attribuzione di un CER diverso ai rifiuti prodotti, senza alcuna valutazione critica dell’elaborato, pure contestato dalla difesa; inoltre, mancherebbe la pluralità di operazioni in grado di integrare la tipicità della fattispecie di cui all’art. 260, e lo stesso connotato di abusività, atteso che la Omniplast svolge l’attività di gestione di rifiuti sulla base di titoli autorizzatori; l’erronea attribuzione di un codice per errata interpretazione, e in buona fede, non può fondare l’elemento soggettivo del reato; lamenta altresì la sussistenza del requisito della ingente quantità di rifiuti, pure ritenuto scarsamente tassativo.
2.2. Vizio di motivazione in relazione all’art. 258 TUA: deduce che per le violazioni connesse alla tenuta della documentazione in materia di rifiuti occorre il dolo generico, non già la colpa.
2.3. Vizio di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Preliminarmente va ribadito che deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (ex multis, Sez. 3, n. 44882 del 18/07 /2014, Carialo, Rv. 260608).
Invero, nel caso in esame i motivi di ricorso appaiono identici a quelli sollevati con l’appello, e motivatamente respinti dalla sentenza impugnata (p. 13-18), con la quale non propongono un reale e motivato confronto argomentativo, limitandosi a contestazioni avulse dal concreto tessuto motivazionale.
Infatti, mentre per il giudizio d’appello rileva solo la genericità intrinseca al motivo stesso, prescindendosi da ogni confronto con quanto argomentato dal giudice del provvedimento impugnato, per il giudizio di cassazione è generico anche il motivo che si caratterizza per l’omesso confronto argomentativo con la motivazione della sentenza impugnata (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 31939 del 16/04/2015, Falasca Zamponi, Rv. 264185; Sez. 6, n. 13449 del 12/02/2014, Kasem, rv. 259456, secondo cui “la genericità dell’appello o del ricorso per cassazione va valutata in base a parametri diversi, in conseguenza della differente conformazione strutturale dei due giudizi, e soltanto in relazione al secondo costituisce motivo di inammissibilità per aspecificità la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impuqnazione”), Il difetto di specificità dei motivi, ricompreso fra le ipotesi che impongono la dichiarazione dell’inammissibilità ai sensi dell’art. 591, comma 1, lett. c), in relazione all’art. 581 lett. c), cod. proc. pen., deve intendersi come la manifesta carenza di una censura di legittimità, chiaramente identificabile.
Nel caso di specie, la genericità dei motivi si evince dalla mera deduzione, senza alcun confronto argomentativo con la sentenza impugnata, della pretesa inattendibilità della perizia, della mancanza di una pluralità di operazioni e dell’abusività dell’attività, della sussistenza della buona fede, tale da escludere il dolo di entrambi i reati, e dei presupposti per il riconoscimento delle attenuanti generiche.
3. In ogni caso, i primi due motivi sono altresì manifestamente infondati. Va innanzitutto evidenziata l’inammissibilità delle doglianze relative alla valutazione probatoria operata dalla sentenza impugnata, in quanto, sollecitano, in realtà, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità; infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie del vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., sono ictu oculi dirette a richiedere a questa Corte un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale.
Giova, al riguardo, premettere che il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, previsto dall’art. 260 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in quanto necessariamente caratterizzato da una pluralità di condotte, alcune delle quali, se singolarmente considerate, potrebbero costituire reato, ha natura di reato abituale proprio e si consuma, pertanto, con la cessazione dell’attività organizzata, finalizzata al traffico illecito (Sez. 3, n. 44629 del 22/10/2015, Bettelli, Rv. 265573; Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009, Caserta, Rv. 245605).
Nel caso in esame, la sentenza della Corte territoriale dà adeguatamente conto del complessivo compendio probatorio, alla stregua del quale è emerso che, nell’ambito di una più vasta indagine sul traffico illecito di rifiuti pericolosi provenienti dalla Centrale Elettrica di Brindisi, abusivamente gestiti dalla impresa “Caserta”, mediante interramento in una cava adiacente al proprio stabilimento, veniva accertato che la Omniplast s.r.l., della quale l’odierna ricorrente era legale rappresentante, e che gestiva la produzione e la vendita di materiale plastico, improvvisamente cambiava il codice CER assegnato ai rifiuti provenienti dal proprio ciclo di produzione; in particolare, mentre in precedenza era stato sempre assegnato il CER 120115 (fanghi di lavorazione), dopo aver affidato le analisi ad altra società (la SCA di Mesagne), era stato assegnato il CER 190814 (fanghi prodotti da altri trattamenti delle acque reflue industriali), al fine di consentire il deposito presso la ditta Caserta; la modifica del CER, operata ad attività produttiva invariata, senza l’obbligatoria comunicazione alla Provincia di Roma, e senza alcuna ragione tecnica, veniva attribuita alla deliberata scelta di falsificare il codice, in modo da poter recuperare il rifiuto con procedura semplificata, senza smaltimento in specifica discarica, e con una riduzione dei costi della metà.
Ebbene, senza indulgere in una valutazione parcellizzata ed atomistica delle fonti di prova, sì come proposta nel ricorso, l’affermazione di responsabilità risulta fondata non soltanto sugli accertamenti del perito, che ha chiarito l’incoerenza del CER improvvisamente modificato rispetto al processo produttivo, ma altresì sulle circostanze che la modifica è avvenuta in seguito all’affidamento ad una società preposta alle analisi chimiche del rifiuto coinvolta nelle più ampie operazioni di traffici illeciti accertati, e gravitante nell’orbita della ditta “Caserta”, e che Annichirico Paolo, legale rappresentante della ETS, società intermediaria nella gestione dei rifiuti della Omniplast, ha riferito di aver convenuto con la Rivoli l’errata classificazione dell’originario CER.
Il carattere volontario sotteso alla scelta deliberata di identificare i rifiuti provenienti dall’attività di produzione con un codice CER diverso da quello in precedenza attribuito, al fine di poter avviare i rifiuti al recupero con procedura semplificata, anziché allo smaltimento in apposita discarica, con conseguente abbattimento dei costi di gestione (della metà), evidenzia, dunque, la manifesta infondatezza delle doglianze proposte dalla ricorrente, con riferimento sia al reato di cui all’art. 260 che al reato di cui all’art. 258, comma 4, d.lgs. 152/2006, in merito all’asserita buona fede, ed alla conseguente mancanza di dolo; le false attestazioni sulla classificazione dei rifiuti nei certificati di analisi (art. 258, comma 4 ), infatti, sono risultate  dolosamente preordinate proprio al compimento delle operazioni di traffico illecito (art. 260), ed escludono in radice l’ipotizzabilità di una mera interpretazione errata della natura del rifiuto.
Immune da censure appare, altresì, la qualificazione delle condotte in termini di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, essendo emerso l’allestimento di mezzi e attività continuative ed il compimento di più operazioni finalizzate alla gestione abusiva dì rifiuti, così da esporre a pericolo la pubblica incolumità e la tutela dell’ambiente (Sez. 3, n. 5773 del 17/01/2014, Napolitano, Rv. 258906): ricorre la pluralità di operazioni, pure contestata dalla ricorrente, atteso che l’avviamento dei rifiuti, identificati da un falso CER, alla discarica della ditta Caserta è proseguito per anni.
In ordine al requisito dell’ingente quantità, premesso che, tenuto conto delle finalità della norma – evidentemente strumentale al contrasto delle più pericolose attività illecite concernenti i rifiuti – , del quadro normativo di riferimento e degli orientamenti espressi da questa Corte, appare senz’altro possibile, nell’ambito di un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito affidato al giudice, definire l’ambito applicativo della disposizione, è stato chiarito che la nozione deve essere riferita al quantitativo di materiale complessivamente gestito attraverso una pluralità di operazioni anche se queste ultime, considerate singolarmente, potrebbero essere dì entità modesta (Sez. 3 n. del 15/11/2005, Costa; Sez. 3, n. 358 del 20/11/2007, dep. 2008, Putrone, Rv. 238558).
Al riguardo, non appare ragionevolmente revocabile in dubbio che il traffico illecito di ben 75 tonnellate dì rifiuti, anche pericolosi, integri il requisito di fattispecie richiamato.
Infine, quanto alla doglianza relativa alla assenza di abusività della condotta, va rammentato che sussiste il carattere abusivo dell’attività organizzata di gestione dei rifiuti qualora essa si svolga continuativamente nell’inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni, il che si verifica non solo allorché tali autorizzazioni manchino del tutto ( c.d. attività clandestina), ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime, e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati e accompagnati da bolle false quanto a codice attestante la natura del rifiuto, in modo da celarne le reali caratteristiche e farli apparire conformi ai provvedimenti autorizzatori dei siti di destinazione finale (Sez. 5, n. 40330 del 11/10/2006, Pellini, Rv. 236294, a proposito dell’analoga fattispecie in cui le condotte incriminate si svolgevano secondo il c.d. sistema del “giro bolla” e cioè i rifiuti, in quantità ingenti, venivano declassificati mediante documenti falsi e fatti confluire in stabilimenti privi dei requisiti necessari mentre le relative autorizzazioni venivano acquisite sulla base di falsità documentali, inidonee rispetto alla natura dei rifiuti effettivamente ricevuti).
È stato, altresì, chiarito che, in tema di traffico illecito di rifiuti, il requisito dell’abusività della gestione deve essere interpretato in stretta connessione con gli altri elementi tipici della fattispecie, quali la reiterazione della condotta illecita e il dolo specifico d’ingiusto profitto. Ne consegue che la mancanza delle autorizzazioni non costituisce requisito determinante per la configurazione del delitto che, da un lato, può sussistere anche quando la concreta gestione dei rifiuti risulti totalmente difforme dall’attività autorizzata; dall’altro, può risultare insussistente, quando la carenza dell’autorizzazione assuma rilievo puramente formale e non sia causalmente collegata agli altri elementi costitutivi del traffico (Sez. 3, n. 44449 del 15/10/2013, Ghidoli, Rv. 258326).
Nel caso in esame, l’abusività delle condotte ricorre nel conferimento dei rifiuti con codice CER deliberatamente falso ad uno stabilimento privo delle necessarie autorizzazioni, anziché in apposita discarica.
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Invero, il riconoscimento delle attenuanti generiche deve essere fondato sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato; ne consegue che, quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante è soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, dep. 2016, Piliero, Rv. 266460); ai fini della determinazione della pena, il giudice può tenere conto di uno stesso elemento (nella specie: la gravità della condotta) che abbia attitudine a influire su diversi aspetti della valutazione, ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del “ne bis in idem” (Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, Rechichi, Rv. 264378).
Nel caso in esame, il diniego delle attenuanti generiche è stato fondato, con apprezzamento di fatto immune da illogicità, e dunque incensurabile in sede di legittimità, sulla base della gravità della condotta e della reiterazione nel tempo.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 1.500,00: infatti, l’art. 616 cod. proc. pen. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 cod. proc. pen., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 cod. proc. pen..
La ricorrente va, altresì, condannata alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, Legambiente Comitato Regionale Calabria, che si liquidano, sulla base dei valori medi del D.M. 55/2014, in complessivi € 3.500,00, oltre spese generali e accessori di legge.
 
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Legambiente Comitato Regionale Calabria nel grado, in favore dello Stato, che liquida in complessivi € 3.500,00 oltre a spese generali e accessori di legge.
Così deciso in Roma il 21/07 /2016