RIFIUTI. La corretta classificazione, le analisi chimiche, l’identificazione della non pericolosità delle sostanze. Cassazione Penale n. 6548/2018.

Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 6548 del 9 febbraio 2018 (ud. del 18 gennaio 2018)

Pres. Blaiotta, Est. Cappello

Rifiuti. Classificazione. Voci a specchio. Ricerca delle sostanze chimiche.  Identificazione della non pericolosità delle sostanze chimiche nei rifiuti. Criterio dell’elevato livello di probabilità. Principio di precauzione, di economicità e fattibilità tecnica. Decisione n. 2000/532/CE. Reg. UE n. 1357/2014. Decisione 2014/955/UE. Art. 2 d.m. 27/09/2010. 

L’assegnazione di un CER corretto ad un rifiuto (nel caso di specie CER “a specchio”, riferibile cioè ai casi in cui da una stessa operazione o processo produttivo può essere generato alternativamente un rifiuto pericoloso o non pericoloso) costituisce, con tutta evidenza, un passaggio indispensabile ai fini di una successiva corretta gestione del rifiuto stesso e della esatta delimitazione degli obblighi incombenti sul gestore nella fase del conferimento.

Ove sia omessa – nel caso di rifiuti non generati regolarmente – l’analisi per singolo lotto, diventa superfluo esaminare il profilo della esaustività della ricerca da un punto di vista quantitativo.

COMMENTO:

La sentenza in esame tratta l’argomento delicatissimo della correta classificazione dei rifiuti e della loro accettazione in discarica. Facendo riferimento alla Decisione 2014/955/UE, al Regolamento UE 1357/2014, al d.m. 27/09/2010, viene rilevato come spetti al produttore, quale soggetto originariamente in grado di avere i necessari dati relativi alla caratterizzazione dei rifiuti (solo a lui noti e conoscibili), l’obbligo di corretta classificazione dei rifiuti, a meno che la violazione di tale disposto non risulti in maniera macroscopica da un’ispezione. In tal senso, non potrebbe imputarsi al gestore dei rifiuti di aver accettato rifiuti catalogati come regolarmente generati che, in realtà, non lo sono, salvo che ciò emerga macroscopicamente dalle verifiche di sua competenza. La regolare generazione dei rifiuti deve pertanto essere una condizione necessaria imprescindibile affinchè il gestore accetti tali rifiuti, dovendo pretendere l’allegazione, da parte del produttore, di una prova di laboratorio specifica in relazione al singolo lotto. Infatti, l’art. 2 del citato d.m. 27/09/2010, al fine di determinare l’ammissibilità dei rifiuti in ciascuna categoria di discarica, « … il produttore (…) è tenuto ad effettuare la caratterizzazione di base di ciascuna tipologia di rifiuti conferiti in discarica (…) prima del conferimento in discarica ovvero dopo l’ultimo trattamento effettuato. 2. La caratterizzazione di base determina le caratteristiche dei rifiuti attraverso la raccolta di tutte le informazioni necessarie per lo smaltimento finale in condizioni di sicurezza (…) e’ obbligatoria per qualsiasi tipo di rifiuto ed e’ effettuata nel rispetto delle prescrizioni stabilite nell’allegato 1 al presente decreto. 3. La caratterizzazione di base e’ effettuata in corrispondenza del primo conferimento e ripetuta ad ogni variazione significativa del processo che origina i rifiuti e, comunque, almeno una volta l’anno». Il richiamato All. 1, al paragrafo 3, prevede, ai fini della corretta caratterizzazione di base del rifiuto, l’obbligo della caratterizzazione analitica, distinguendo tra rifiuti regolarmente generati nel corso del medesimo processo e rifiuti non generati regolarmente nel corso dello stesso processo e nello stesso impianto e che non fanno parte di un flusso di rifiuti ben caratterizzato, con necessità di << …determinare le caratteristiche di ciascun lotto e la loro caratterizzazione di base deve tener conto dei requisiti fondamentali di cui al punto 2. Per tali rifiuti, devono essere determinate le caratteristiche di ogni lotto; pertanto, non deve essere effettuata la verifica di conformità>>. Con la conseguenza che, ove sia omessa – nel caso di rifiuti non generati regolarmente – l’analisi per singolo lotto, diventa superfluo esaminare il profilo della esaustività della ricerca da un punto di vista quantitativo. Tali considerazioni assumono importanza fondamentale allorquando si tratti di c.d. “codici a specchio”, non essendo corretta l’automatica inclusione nella categoria dei rifiuti non generati regolarmente, senza tendere alcuna considerazione in merito alle caratteristiche del ciclo produttivo da cui originano. Senza contare l’esigenza di stabilire preventivamente gli obblighi in capo al produttore e quelli in capo al detentore in ordine alla caratterizzazione e classificazione dei rifiuti prima del loro conferimento costituiscono un passaggio indispensabile ai fini di una successiva corretta gestione del rifiuto stesso e della esatta delimitazione degli obblighi incombenti sul gestore nella fase del conferimento. Alla luce della Decisione 2000/532/CE, la pericolosità di un rifiuto in quanto contenente sostanze pericolose è determinata solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni (ad esempio, percentuale in peso), tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà dì cui all’All. I della Decisione premenzionata.

Per tali motivi, il produttore/detentore è tenuto, ai fini della corretta classificazione del rifiuto e della relativa attribuzione di rifiuto pericoloso/non pericoloso, a svolgere le necessarie analisi volte ad accertare l’eventuale presenza di sostanze pericolose ed il superamento delle soglie di concentrazione, e solo nel caso in cui siano accertati in concreto l’assenza o il mancato superamento di dette soglie, il rifiuto potrà essere classificato come non pericoloso.

Senza contare che nell’All. D del d. lgs. n. 152/2006 è stata inserita una lunga premessa sulle modalità di classificazione dei rifiuti (introdotta dalla legge 11 agosto 2014, n. 116 nell’art. 13 comma 5b-bis): «1. La classificazione dei rifiuti e’ effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente codice CER, applicando le disposizioni contenute nella decisione 2000/532/CE. 2. Se un rifiuto e’ classificato con codice CER pericoloso ‘assoluto’, esso e’ pericoloso senza alcuna ulteriore specificazione. (…) 3. Se un rifiuto e’ classificato con codice CER non pericoloso ‘assoluto’, esso e’ non pericoloso senza ulteriore specificazione. 4. Se un rifiuto e’ classificato con codici CER speculari, uno pericoloso ed uno non pericoloso, per stabilire se il rifiuto e’ pericoloso o non pericoloso debbono essere determinate le proprietà di pericolo che esso possiede. Le indagini da svolgere per determinare le proprietà di pericolo che un rifiuto possiede sono le seguenti: a) individuare i composti presenti nel rifiuto attraverso: la scheda informativa del produttore; la conoscenza del processo chimico; il campionamento e l’analisi del rifiuto; b) determinare i pericoli connessi a tali composti attraverso: la normativa europea sulla etichettatura delle sostanze e dei preparati pericolosi; le fonti informative europee ed internazionali; la scheda di sicurezza dei prodotti da cui deriva il rifiuto; c) stabilire se le concentrazioni dei composti contenuti comportino che il rifiuto presenti delle caratteristiche di pericolo mediante comparazione delle concentrazioni rilevate all’analisi chimica con il limite soglia per le frasi di rischio specifiche dei componenti, ovvero effettuazione dei test per verificare se il rifiuto ha determinate proprietà di pericolo. 5. Se i componenti di un rifiuto sono rilevati dalle analisi chimiche solo in modo aspecifico, e non sono perciò noti i composti specifici che lo costituiscono, per individuare le caratteristiche di pericolo del rifiuto devono essere presi come riferimento i composti peggiori, in applicazione del principio di precauzione. 6. Quando le sostanze presenti in un rifiuto non sono note o non sono determinate con le modalità stabilite nei commi precedenti, ovvero le caratteristiche di pericolo non possono essere determinate, il rifiuto si classifica come pericoloso. 7. La classificazione in ogni caso avviene prima che il rifiuto sia allontanato dal luogo di produzione”.

Gli orientamenti giurisprudenziali che si sono susseguiti nel tempo hanno registrato dicotomie non indifferenti. In un primo momento, è stato indicato come l’analisi strumentale per la caratterizzazione dei rifiuti dovesse essere quantitativamente esaustiva e indagare tutte le componenti di esso, in guisa che – in termini percentuali – la somma algebrica delle porzioni analizzate copra una percentuale che, sommata a quella di concentrazione più bassa prevista per le varie sostanze pericolose, raggiunga il 100% della composizione del rifiuto analizzato, scattando, in caso contrario, la presunzione assoluta di pericolosità in base al principio di “precauzione”. Tale assunto non convinceva anche per evidenti problematiche di livello pratico nell’esecuzione delle analisi, considerato che non si sarebbe potuto, aprioristicamente e senza tener conto della concretezza dei processi produttivi e di molti altri fattori, procedere ad analizzare tutte le variabili per raggiungere un livello di certezza pari al 100%: non sempre infatti la composizione di una sostanza è desumibile dalla origine del rifiuto e, quindi, dalla sua derivazione da uno specifico processo produttivo, potendo essere conseguenza di altri fenomeni o trattamenti che ne rendono incerta o ne mutano la composizione. Senza contare che tale soluzione draconiana avrebbe comportato un aumento smisurato dei costi da sostenere per la realizzazione delle analisi. In un secondo momento si giunse alla conclusione che non sarebbe necessario verificare analiticamente la presenza di tutte le sostanze pericolose esistenti e determinarne la concentrazione, ma unicamente di quelle che, con più elevato livello di probabilità, possano essere presenti nel rifiuto (sostanze ubiquitarie e comuni e quelle specifiche pertinenti con il processo di produzione del rifiuto) e solo rispetto ad esse procedere alla verifica dell’eventuale superamento dei limiti di concentrazione se previsti. Questo indirizzo risulta essere un corretto punto di equilibrio per il contemperamento tra il principio di precauzione e quello di economicità e fattibilità tecnica della gestione dei rifiuti, alla quale la fase della caratterizzazione è propedeutica, in relazione al disposto dell’art. 178 del T.U.A. . Tanto più che la normativa comunitaria, nella sua interpretazione letterale del significato dei concetti quali “appropriate” e “appropriée” verrebbe letteralmente tradotta in italiano con le parole “adatto” o “idoneo”.

Cfr. anche altri articoli sull’argomento:

Rifiuti. Voci a specchio, pericolosità del rifiuto, principio di precauzione. La Cassazione rinvia alla Corte di Giustizia europea.

VOCI A SPECCHIO: La requisitoria del Procuratore Generale della Cassazione in relazione all’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea (ord. n. 37460/2017).

 

 

Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 6548 del 9 febbraio 2018 (ud. del 18 gennaio 2018)

Ritenuto in fatto

1.Con ordinanza 23 marzo 2017, adottata a norma dell’art. 324 codice di rito, il Tribunale di Pistoia ha rigettato i ricorsi per riesame proposti – avverso il decreto di sequestro preventivo dell’impianto industriale “D.C. “, disposto dal G.i.p. in data 03/03/2017 – nell’interesse di F.A. e M.M. (contro i quali si procede per il reato di incendio colposo aggravato e alcune violazioni in materia di rifiuti).

2. La vicenda trae origini da un incendio verificatosi il 04/07/2016 nella D.C. , gestita dalla società “P. “, le cui cause, secondo il Tribunale, non sarebbero state accertate, ravvisandosi tuttavia profili di colpa nella gestione dell’impianto, sia con riferimento ai criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica, che avuto riguardo ai controlli di esaustività della caratterizzazione dei rifiuti operata dal produttore conferente, dai quali discenderebbe la contestazione di incendio colposo, nonché la violazione dell’art. 29quattuordecies co. 3 lett. b) e co. 4, in relazione all’art. 29 sexies del d. Igs. 152/2006, per violazione, nella gestione dei rifiuti, delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale.

3.Hanno proposto ricorsi, con gli stessi difensori e unico atto, F.A. e M.M., formulando cinque, distinti motivi. I primi due riguardano la gestione del rifiuto classificato dal produttore con il CER 19.12.12.; il terzo e il quarto chiamano in causa il criterio di esaustività della caratterizzazione di base dei rifiuti da parte del produttore e la problematica dei relativi obblighi di verifica da parte del gestore di essi; il quinto, infine, riguarda il presupposto del periculum in mora.

3.1. Con il primo motivo, in particolare, i ricorrenti hanno dedotto violazione dell’ALL. 1, punto 3 del D.M. 27/09/2010, come richiamato dall’art. 2 in relazione all’art. 29 quattuordecies, d.lgs. 152 del 2006, oltre a vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, con riferimento, per l’appunto, alla tematica della regolare generazione del rifiuto. Rilevano che le caratterizzazioni del rifiuto operate dal produttore e le verifiche facenti capo al gestore devono essere svolte con modalità diverse, senza che la semplice catalogazione del rifiuto come CER 19.12.12. (codice identificativo dei rifiuti che provengono da impianti di trattamento di rifiuti) e la provenienza dei rifiuti da impianti di quel tipo possano configurare una presunzione iuris et de iure – non rinvenibile in alcuna norma di settore e inammissibile ai fini penali – che trattasi di rifiuto non generato regolarmente, punto sul quale rilevano l’impossibilità di comprendere il ragionamento svolto dal giudice e, comunque, la violazione della normativa richiamata, dal momento che tale classificazione non potrebbe prescindere dalla conoscenza di dati specifici afferenti al processo di produzione e alle caratteristiche dei rifiuti, apprezzabili anche in relazione alla loro variabilità.

A conferma della correttezza della caratterizzazione operata, richiamano l’esito positivo dei controlli operati dall’ARPAT presso la discarica anche dopo l’incendio del luglio 2016, dato rispetto al quale rilevano l’ermeticità della motivazione del Tribunale che ha ritenuto che, nell’occorso, l’agenzia non aveva considerato tale specifico aspetto, soprattutto a fronte del rilievo difensivo con il quale si era sottolineato che l’ARPAT aveva invece effettuato un controllo proprio su un carico di rifiuti classificati CER 19.12.12., rilevandone la conformità, senza sollevare alcun rilievo in ordine alla caratterizzazione come “rifiuto non generato regolarmente”, all’esito di una verifica condotta sulla documentazione tecnica descrittiva, comprensiva delle analisi e delle prove di cessione dei rifiuti pericolosi, conferiti dalle singole aziende dall’inizio dell’anno e sino al momento dell’incendio.

3.2. Con il secondo motivo, hanno dedotto violazione di legge, erronea applicazione della legge penale e vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione anche con riferimento alla ritenuta violazione delle norme sulle condizioni di non conferibilità dei rifiuti stabilite dall’art. 6 del d.lgs. 36 del 2003, rilevando che al produttore compete fornire una scheda descrittiva del rifiuto e la caratterizzazione di base dello stesso eseguita in ottemperanza all’art. 2 del D.M. 27/09/2010 richiamato, corredata di certificato analitico, da ripetersi a ogni variazione significativa del processo che ha originato il rifiuto e, comunque, annualmente, senza che fosse comprensibile quali, fra quelle descritte nel capo d’imputazione, costituisse violazione delle prescrizioni di legge, dal momento che era indiscusso che la documentazione era stata debitamente acquisita o predisposta dalla società (in caso contrario, dovendosi attivare il meccanismo estintivo introdotto con la legge n. 68 del 2015).

3.3. Con il terzo motivo, hanno dedotto inosservanza o erronea applicazione dell’ALL. D alla parte IV del d.lgs. 152 del 2006, in relazione all’art. 13 comma 5 b-bis, d.l. 24/06/2014 n. 91, convertito nella legge 116 del 2014, alla Decisione 2014/955/UE, al Regolamento UE 1357/2014 e all’art. 2 e all’ALL. 1 al D.M. 27/09/2010, nonché all’ALL. D parte IV del d.lgs. 152 del 2006, in relazione alla Decisione 2000/532/CE e alla Decisione 2014/955/UE, nonché vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, questa volta con riferimento alla tematica della esaustività della caratterizzazione di base.

Sotto tale specifico profilo, hanno intanto rilevato intanto che il Tribunale, in maniera non chiara, aveva sì dato atto del dibattito sul punto esistente [tra quanti sostengono che il controllo dovrebbe riguardare tutte le possibili sostanze presenti in un rifiuto e quanti, invece, ritengono che ciò sarebbe impossibile, dovendosi procedere solo alla verifica di quelle potenzialmente presenti in relazione al ciclo produttivo del rifiuto, aderendo alla soluzione più rigoristica, in virtù del principio di “precauzione”; ma hanno al contempo contestato la tesi sostenuta dai CC.TT . del P.M., secondo cui nessuno dei produttori conferenti i rifiuti presso la discarica gestita da “P. ” avrebbe operato correttamente la caratterizzazione del rifiuto, per difetto di una sola analisi che potesse ritenersi esaustiva, opponendo che tale soluzione era concretamente inattuabile, oltre a porsi in contrasto con le vigenti norme di legge, con la dottrina, con alcune pronunce della giurisprudenza e con alcune note del Ministro dell’Ambiente, nelle quali si confermerebbe che – a seguito della emanazione del Regolamento 1357 del 2014 e della Decisione 2014/955/UE – dall’01/06/2015 (data di entrata in vigore di essi) l’art. 13 comma 5b-bis legge 116/2014 avrebbe perso efficacia. Si è, peraltro, rilevato che il Tribunale non avrebbe preso posizione, né fornito alcuna motivazione sulla specifica questione dell’intervenuta abrogazione della norma di cui all’art. 13 comma 5 b-bis citato, a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento UE 1357/2014 e della Decisione 2014/955/UE, entrambe in vigore dal 1° giugno 2015, poiché ad essi (quali atti normativi che hanno ridisciplinato l’intera materia) dovrebbe farsi attualmente riferimento ai fini della codifica e classificazione dei rifiuti e non più agli ALL. D ed I del d. lgs. 152 del 2006.

Si è pure osservato che, anche a voler ritenere il citato art. 13 ancora vigente con l’introdotta premessa sulla “Classificazione dei rifiuti”, essa non potrebbe, in ogni caso, supportare la tesi dell’esaustività solo in caso di analisi completa che consenta di escludere la presenza nel rifiuto di tutte le sostanze pericolose, poiché ove questa fosse stata la volontà del legislatore, non si comprende il motivo di prevedere, per giunta a monte del campionamento e dell’analisi, indagini sul processo produttivo che ha generato il rifiuto. Sul punto, in ricorso si è sostenuto che il legislatore comunitario non avrebbe previsto la necessità che, nel caso di codici “a specchio”, per attribuire il codice “non pericoloso” a un rifiuto, debba escludersi, con un’analisi che dovrebbe essere esaustiva e autosufficiente, la presenza di sostanze pericolose tali da attribuire una o più delle caratteristiche di pericolo previste; bensì esattamente il contrario e, cioè, che l’attribuzione di quel codice e la conseguente classificazione del rifiuto come pericoloso sarebbe “opportuna” solo quando il rifiuto contiene sostanze pericolose pertinenti che determinino una o più delle caratteristiche di pericolo, essendo proprio l’impossibilità tecnico-scientifica di dimostrare con un’analisi chimica di laboratorio che un rifiuto non contenga sostanze pericolose (o che ne contenga solo alcune e non tutte le altre) a rendere necessaria una “codificazione” dei criteri di indagine da seguire (con riferimento ai quali nel ricorso si è operato un rinvio a quanto contenuto nel draft riguardante le linee guida della Commissione Europea e nelle linee guida delle quattro agenzie per l’ambiente del Regno Unito).

3.4. Con il quarto motivo, hanno dedotto analoghi vizi con riferimento allo specifico aspetto della colpa riconosciuta in capo al gestore, rilevando l’inconsistenza logica dell’assunto secondo cui sarebbe a costui rimproverato di non aver richiesto la specifica prova di laboratorio, “accontentandosi” di quella svolta solo annualmente e della caratterizzazione effettuata dal produttore. Si è a tal fine richiamato l’art. 11 del d. lgs. 36/2003 e la precisa ripartizione di compiti e correlate responsabilità in capo ai due differenti soggetti, spettando al produttore la caratterizzazione di base del rifiuto, da effettuarsi in occasione del primo conferimento e da ripetersi ad ogni significativa variazione del processo che origina il rifiuto stesso e, comunque, annualmente; al gestore, invece, la verifica di conformità, avente ad oggetto rifiuti già giudicati “ammissibili” e da effettuarsi sulla scorta dei dati forniti dal produttore dopo la fase di caratterizzazione, utilizzando una o più delle determinazioni analitiche usate per la caratterizzazione di base, comprensive di almeno un test di cessione per lotti, nonché la verifica in loco, da effettuarsi su ogni carico e consistente sostanzialmente in un’ispezione, prima e dopo lo scarico, e in controlli documentali, con prelievi di campioni da analizzare con la frequenza stabilita dall’autorizzazione e, comunque, almeno annualmente.

Si è rilevato, in particolare, come il sistema ruoti proprio attorno alla caratterizzazione di base, i cui contenuti non possono che essere inseriti dal produttore in quanto solo a lui noti e conoscibili, ciò che costituirebbe, secondo i deducenti, un’estensione del correlato obbligo di classificazione. Ne deriverebbe che, eccezion fatta per l’ipotesi in cui ciò sia rilevato con un’ispezione, solo il produttore può valutare se un rifiuto rientri o meno tra quelli regolarmente generati, poiché solo accedendo all’impianto che li genera e a tutti i dati e documenti relativi sarebbe possibile verificare la correttezza o meno di tale valutazione, cosicché non può imputarsi al gestore di aver accettato rifiuti catalogati come regolarmente generati che, in realtà, non lo sono, salvo che ciò emerga macroscopicamente dalle verifiche di sua competenza, evenienza non riconducibile alla sola classificazione con il CER 19.12.12., non sussistendo in capo allo stesso alcun obbligo o onere di verifica della “esaustività” della caratterizzazione effettuata.

3.5. Con il quinto motivo, infine, hanno dedotto erronea applicazione della legge penale e mancata assunzione di una prova decisiva, con riferimento al periculum in mora, rispetto al quale rilevano, intanto, l’assoluto difetto di motivazione, a fronte delle specifiche deduzioni formulate nelle note depositate all’udienza camerale, oltre alla mancata valutazione, da parte dei CC.TT . del P.M. e da parte del G.i.p., delle conclusioni delle indagini svolte dall’Istituto di Geoscienze e Georisorse del CNR di Pisa, dell’Università di Siena, dagli enti certificatori e dall’ISPRA, osservando che la discarica è stata autorizzata a ricevere anche rifiuti pericolosi.

4.Con successiva memoria, depositata il 23 ottobre 2017, i ricorrenti hanno sviluppato le difese e le argomentazioni svolte con il ricorso, rilevando che, nelle more, sono sopravvenuti elementi a conferma della fondatezza di esse: la Regione Toscana, che aveva già concesso a P. l’autorizzazione a riprendere la gestione della discarica a distanza di pochi mesi dall’incendio, ha affermato, in una nota del 13/04/2017, che fa carico al produttore di operare la caratterizzazione dei rifiuti ricorrendo ai concetti di “opportunità, proporzionalità e pertinenza”; la Conferenza di servizi, nel verbale del 09/10/2017, ha deciso la conclusione dell’istruttoria, non rilevando violazioni amministrative o dell’AIA vigente che richiedessero l’adozione di un provvedimento ai sensi dell’art. 29 -decies co. 9 d.lgs. 152/06; in termini generali e normativi, poi, è entrato in vigore il d.l. 91 del 20/06/2017, convertito nella legge 123 del 03/08/2017, il cui art. 9 ha stabilito che la classificazione dei rifiuti è effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella Decisione 2014/955/UE e nel Regolamento UE 1357/2014 della Commissione del 18 dicembre 2014 e, a seguito dell’integrazione del testo del d.I., anche del Regolamento UE 2017/1997 del Consiglio dell’08/06/2017, con ciò avendo il legislatore espressamente statuito che la premessa di cui all’ALL. D. non è più applicabile; il parere dell’ISPRA sull’art. 9 del d.l. 91/2017 citato; infine, le ordinanze della Terza Sezione di questa Corte rese all’udienza del 21/07/2017, nn. 37460, 37461 e 37462, con le quali, esaminata la tematica della “esaustività” dell’analisi effettuata dal produttore, si è prospettata la possibilità di una terza soluzione rispetto alle due opposte tesi della “certezza” e della sola “probabilità” della verifica da parte del produttore, ritenuta conforme al principio di precauzione e a criteri di ragionevolezza, e sollevata questione pregiudiziale – ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E. – alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sotto il profilo dell’incertezza circa l’ambito di operatività della disciplina comunitaria in conseguenza delle modifiche apportate nel tempo alla normativa nazionale e della sua incidenza sul profilo del fumus commissi delicti. Detta soluzione che, a parere dei ricorrenti, dovrebbe individuare una sorta di tertium genus tra le prospettate soluzioni circa la portata dell’analisi per la caratterizzazione del rifiuto da parte del produttore, sarebbe quella seguita proprio da P., secondo il tenore delle deduzioni difensive, e – in base ad essa – dovrebbe concludersi nel senso che una caratterizzazione spinta e sistematica del rifiuto sarebbe necessaria solo se lo stesso è sconosciuto, altrimenti dovendo l’analisi riguardare esclusivamente le sostanze che sono potenzialmente presenti in base alle fonti dei dati e del processo di formazione del rifiuto, scelta questa ritenuta non aleatoria, siccome conseguenza della conoscenza delle materie prime che hanno concorso alla formazione del rifiuto e del processo di formazione dello stesso, con applicazione di metodi razionali di deduzione.

Nel caso di specie, P. avrebbe implementato le procedure di ammissibilità dei rifiuti in discarica, integrandole nel piano di gestione operativa approvato con l’AIA e facenti parte delle relative prescrizioni, prevedendo che, per ogni rifiuto ammissibile, sia predisposto un dossier con tutte le informazioni del produttore sul processo che genera il rifiuto e le sostanze impiegate e quant’altro necessario per caratterizzarlo, cosicché dovrebbe escludersi che possano essere conferiti rifiuti “sconosciuti” nel senso chiarito nelle ordinanze sopra richiamate.

Con la conseguenza, sottolineata dai deducenti, che la discarica in questione si troverebbe ad essere l’unica tutt’ora sottoposta a sequestro preventivo, per di più ad libitum per effetto delle contestazioni in ordine alla classificazione dei rifiuto con codice a specchio, atteso che gli impianti laziali, oggetto della vicenda portata all’attenzione della Corte di Giustizia U.E., compresi quelli dei produttori (di coloro cioè che per primi, se non in via esclusiva, sarebbero responsabili della caratterizzazione dei rifiuti) sono nelle more operativi, vuoi perché dissequestrati dal Tribunale del riesame, vuoi per adozione di provvedimenti basati su elementari ragioni di equità e parità di trattamento.

5.Le persone offese nell’ambito del procedimento penale hanno depositato propria memoria difensiva in data 03 novembre 2017, rilevando l’inammissibilità del ricorso, con il quale i ricorrenti hanno censurato la motivazione del provvedimento, laddove – avverso le ordinanze in materia di riesame cautelare reale – è consentito dedurre unicamente il vizio di violazione di legge o di erronea applicazione della legge penale, dovendosi escludere che, nel caso di specie, sia ravvisabile un vizio della motivazione sì radicale da poter essere sussunto nella violazione di legge secondo la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, richiamandosi, quanto al periculum in mora, quanto affermato a proposito della mancata adozione di garanzie per la sicurezza e la tutela dell’ambiente, alla luce della quale la libera disponibilità della discarica potrebbe protrarre ed aggravare il pericolo di danni per l’ambiente, rilevandosi che la discarica in questione è stata interessata da ben tre incendi (nel 1999, nel 2010 e nel luglio 2016) durante la gestione di P.

Sotto altro profilo, si sottolinea l’ambiguità della posizione del F. e del M., avendo il difensore del primo depositato anche una nomina a difensore come persona offesa nell’ambito del medesimo procedimento penale.

6.Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto, in via principale, ai sensi dell’art. 267 del T.F.U.E., la sospensione del procedimento e la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’unione Europea; in via subordinata, l’annullamento con rinvio e le pronunce consequenziali.

Considerato in diritto

1.I ricorsi devono essere accolti nei termini che si vanno di seguito a illustrare.

2.Il Tribunale ha ritenuto infondate le argomentazioni difensive, precisando che i Vigili del Fuoco, nella relazione finale, avevano affermato genericamente che l’incendio avvenuto il 04/07/2016 all’interno della D.C. , gestita da P., poteva essersi generato spontaneamente a causa della miscelazione delle diverse sostanze presenti in discarica, esposte alle elevate temperature del periodo estivo, analogamente a quanto affermato dai consulenti del P.M., i quali avevano ipotizzato per l’appunto un fenomeno di autocombustione. Quel giudice, pur non escludendo a priori la natura dolosa dell’incendio, in ragione del ritrovamento sul posto di composti aromatici di origine petrolifera tipici del benzene (che, però, secondo i consulenti del P.M. potevano trovarsi in alcune sostanze presenti in discarica) e di quanto segnalato da un dipendente della discarica a proposito di un’apertura di una parte della recinzione metallica ad opera di ignoti (che aveva tuttavia interessato una zona distante da quella in cui si era propagato l’incendio), ha tuttavia ritenuto l’ipotesi inverosimile, stante la presenza di ben visibili telecamere di sorveglianza e tenuto conto dell’orario in cui l’incendio si era verificato (le ore 18:00 circa, quando ancora vi erano operai sul sito).

Riservata alla fase dibattimentale tale verifica, ha ritenuto però sussistenti taluni profili di colpa indicati nell’imputazione, attribuibili al gestore della discarica. In primo luogo, con riferimento ai criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica, il gestore aveva accettato il conferimento di rifiuti recanti il codice CER 19.12.12 (non generati cioè regolarmente), senza pretendere l’allegazione, da parte del produttore, di una prova di laboratorio specifica in relazione al singolo lotto, avendoli in molti casi il produttore trattati come rifiuti generati regolarmente nel medesimo processo, allegando solo la prova di laboratorio a campione svolta nell’anno trascorso (nessuna rilevanza quel giudice ha attribuito all’eventuale affidamento che il gestore possa aver riposto sulla falsa dichiarazione del produttore, secondo cui i rifiuti sarebbero stati regolarmente generati nello stesso processo, considerata la specializzazione del soggetto che avrebbe dovuto indurlo a pretendere la singola prova di laboratorio per ogni lotto che rechi la classificazione CER 19.12.12).

Inoltre, essendo emerso che tra gli anni 2013 e 2016 erano stati conferiti rifiuti per oltre 30.000 tonnellate pari al 27,2% del totale dei rifiuti abbancati, provenienti da precedente lavorazione di altri rifiuti, estremamente variegati tra loro e dei quali non poteva conoscersi la precisa composizione, il gestore ne aveva accettato il conferimento in violazione dell’autorizzazione integrata ambientale rilasciata in suo favore, in cui è previsto che la gestione del rifiuto deve avvenire in conformità alle disposizioni di cui al D.M. 27/09/2010, configurandosi quindi la violazione dell’art. 29 quattuordecies co. 3, d. Igs 152/2006, sul punto ritenendo irrilevante la mancanza di rilievi da parte dell’ARPAT, non avendo tale soggetto considerato lo specifico aspetto della gestione.

Infine, con riferimento alla non esaustività della caratterizzazione compiuta sui rifiuti, quel giudice ha rilevato che essi riguardano sì adempimenti propri del produttore, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 27/09/2010, ma possono ripercuotersi sulla verifica di conformità incombente sul gestore, allorché questi si accontenti di una carente caratterizzazione da parte del produttore e non estenda la verifica a tutti i profili che consentono di stabilire se un rifiuto sia o meno pericoloso, quanto al profilo della esaustività del controllo aderendo il Tribunale all’orientamento che ritiene necessario un criterio che, in ossequio al principio di precauzione, permetta di verificare tutte le sostanze potenzialmente presenti in un rifiuto.

3. Una precisazione s’impone in via preliminare.

Il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (cfr. Sez. U. n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692; sez. 2 n. 18951 del 14/03/2017, Rv. 269656; sez. 6 n. 6589 del 10/01/2013, Rv. 254893). Il che rende inammissibili tutte quelle censure, con le quali i ricorrenti hanno contestato la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento censurato.

4.I motivi sono tutti fondati, sia pure limitatamente alle dedotte violazione di legge ed erronea applicazione della legge penale, il provvedimento impugnato incorrendo in tali vizi con riferimento alla valutazione della sussistenza di entrambi i presupposti di legittimità del titolo cautelare.

5.Ciò posto quanto ai limiti di sindacabilità del provvedimento in esame, deve intanto osservarsi, con riferimento al presupposto del fumus commissi delicti, che il Tribunale ha ravvisato in capo agli indagati, nelle rispettive qualità, “taluni profili di colpa” indicati nella imputazione provvisoria (riguardanti in generale il mancato rispetto delle regole per l’accettazione dei rifiuti), ricavandoli a loro volta dalla ritenuta violazione di obblighi da parte del produttore/detentore in materia di caratterizzazione del rifiuto conferito. In particolare, tali condotte colpose sarebbero consistite nell’avere gli indagati accettato il conferimento di rifiuti non generati regolarmente senza la preventiva analisi per lotti, ma solo sulla scorta dei certificati a cadenza annuale non relativi ai singoli lotti, in violazione dell’ali. 1, par. 3, lett. b) del d.m. 27/09/2010 (recante “Definizione dei criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica, in sostituzione di quelli contenuti nel decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio 3 agosto 2005”); e nell’avere omesso di verificare che le certificazioni fossero esaustive, nel senso di attestare una ricerca di tutte le possibili sostanze pericolose presenti in detti rifiuti.

Trattasi di profili che, come acutamente osservato dal P.G., si pongono tra di loro in ordine logico, in quanto il profilo della esaustività della ricerca delle sostanze pericolose per i rifiuti recanti codici CER speculari (come quello 19.12.12 indicato nell’ordinanza) si pone a valle della corretta individuazione dell’oggetto dell’analisi.

Orbene, secondo l’art. 2 del citato d.m. 27/09/2010, al fine di determinare l’ammissibilità dei rifiuti in ciascuna categoria di discarica, « … il produttore (…) è tenuto ad effettuare la caratterizzazione di base di ciascuna tipologia di rifiuti conferiti in discarica (…) prima del conferimento in discarica ovvero dopo l’ultimo trattamento effettuato. 2. La caratterizzazione di base determina le caratteristiche dei rifiuti attraverso la raccolta di tutte le informazioni necessarie per lo smaltimento finale in condizioni di sicurezza (…) e’ obbligatoria per qualsiasi tipo di rifiuto ed e’ effettuata nel rispetto delle prescrizioni stabilite nell’allegato 1 al presente decreto. 3. La caratterizzazione di base e’ effettuata in corrispondenza del primo conferimento e ripetuta ad ogni variazione significativa del processo che origina i rifiuti e, comunque, almeno una volta l’anno».

Il richiamato All. 1, al paragrafo 3, prevede, ai fini della corretta caratterizzazione di base del rifiuto, l’obbligo della caratterizzazione analitica, distinguendo tra rifiuti regolarmente generati nel corso del medesimo processo e rifiuti non generati regolarmente nel corso dello stesso processo e nello stesso impianto e che non fanno parte di un flusso di rifiuti ben caratterizzato. Per questi ultimi la lett. b) prevede la necessità di << …determinare le caratteristiche di ciascun lotto e la loro caratterizzazione di base deve tener conto dei requisiti fondamentali di cui al punto 2. Per tali rifiuti, devono essere determinate le caratteristiche di ogni lotto; pertanto, non deve essere effettuata la verifica di conformità». Ne discende, pertanto, che ove sia omessa – nel caso di rifiuti non generati regolarmente – l’analisi per singolo lotto, diventa superfluo esaminare il profilo della esaustività della ricerca da un punto di vista quantitativo.   6.Ciò premesso, deve convenirsi con quanto osservato dal P.G. nelle rassegnate conclusioni. La motivazione dell’ordinanza impugnata con riferimento alla natura dei rifiuti conferiti come non generati regolarmente nei processi ed impianti di provenienza è solo apparente. Essa, infatti, prende in considerazione una sola tipologia di rifiuti (quelli recanti codice speculare 19.12.12) e in maniera del tutto apodittica ne ha ritenuto l’automatica inclusione nella categoria dei rifiuti non generati regolarmente, senza tendere alcuna considerazione in merito alle caratteristiche del ciclo produttivo da cui originano (che pure individua in “altri rifiuti prodotti dal trattamento meccanico di rifiuti”). Non opera alcun confronto con il paragrafo 3 dell’All. 1 più volte citato e pure richiamato nell’ordinanza, che – alla lett. a) – contiene un espresso riferimento ai rifiuti provenienti da impianti che effettuano lo stoccaggio e la miscelazione di rifiuti (ma non contempla tuttavia quelli prodotti da trattamento meccanico, come nella specie), rispetto ad essi rilevando la possibile presenza di caratteristiche estremamente variabili delle quali occorre tenere conto per stabilire la tipologia di appartenenza, precisando che tale variabilità fa propendere verso la tipologia dei rifiuti non generati regolarmente. Cosicché, non è dato comprendere se l’inclusione nella categoria b) sia stata conseguenza di un automatismo, ritenuto ma non esplicitato o della esistenza di specifiche caratteristiche del ciclo produttivo che la giustifichino e che, ancora una volta, non sono state indicate nel provvedimento. Trattasi di specificazione, a ben vedere, fondamentale ai fini del corretto inquadramento delle fattispecie contestate (e della conseguente verifica di legittimità richiesta a questa Corte) nella complessa cornice normativa di riferimento, anche di matrice sovranazionale, sulla quale peraltro hanno lungamente dedotto sia i ricorrenti (anche a mezzo di memoria successiva al ricorso) che il P.G., il quale ha effettuato una complessa ricognizione della materia, a fronte del sostanziale silenzio serbato dal Tribunale.   6.1 La problematica riguardante l’esatta delimitazione degli obblighi del produttore/detentore in ordine alla caratterizzazione e classificazione dei rifiuti prima del loro conferimento ha peraltro un dirimente rilievo nel caso all’esame, in cui le imputazioni provvisorie riguardano il Presidente e il Direttore Tecnico della società di gestione di rifiuti erroneamente caratterizzati e illecitamente conferiti, secondo l’ipotesi accusatoria. Infatti, l’assegnazione di un CER corretto ad un rifiuto (nel caso di specie CER “a specchio”, riferibile cioè ai casi in cui da una stessa operazione o processo produttivo può essere generato alternativamente un rifiuto pericoloso o non pericoloso) costituisce, con tutta evidenza, un passaggio indispensabile ai fini di una successiva corretta gestione del rifiuto stesso e della esatta delimitazione degli obblighi incombenti sul gestore nella fase del conferimento.   6.2. Come già puntualizzato dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni scritte, ma del resto già chiarito da questa Corte di legittimità, l’attuale disciplina eurounitaria sulla classificazione dei rifiuti in generale prende le mosse dalla Decisione 2000/532/CE (che ha sostituito la Decisione 94/3/CE istitutiva dell’elenco dei rifiuti) che, con riferimento ai codici “a specchio” di cui sopra, nei quali la pericolosità dipende dalle sostanze pericolose in essi contenute, ha reso necessario l’accertamento del superamento dei limiti stabiliti.   La classificazione dei rifiuti è disciplinata dal d.lgs. 152 del 2006, Parte IV All. D, contenente l’elenco dei rifiuti istituito con la suindicata Decisione [più precisamente, con tale atto è stato istituito il Catalogo Europeo dei Rifiuti (CER), precisandosi, in un allegato, le modalità da seguire per l’identificazione di un rifiuto con un codice a sei cifre]. Il d.l. 25/02/2012, n. 2 ha modificato il punto 5 dell’All. D di cui sopra, prevedendo che «Se un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, esso è classificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni (ad esempio, percentuale in peso), tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà dì cui all’allegato I>>. Tuttavia, il punto 5 richiamato, nel dare la definizione normativa del rifiuto con codice “a specchio” pericoloso, non indica le modalità di caratterizzazione del rifiuto, presupposto per la sua corretta classificazione, incombente al produttore/detentore del rifiuto medesimo.

5.2. Ed è proprio su tale passaggio che si è concentrato lo sforzo difensivo delle parti e che il Procuratore Generale ha sostanzialmente sviluppato il ragionamento svolto nel suo articolato parere legale.

Sul punto, questa Corte ha già affermato che, in caso di gestione di rifiuti identificati con un codice c.d. “a specchio”, il produttore/detentore è tenuto, per classificare il rifiuto e attribuire il codice (pericoloso/non pericoloso), ad eseguire le necessarie analisi volte ad accertare l’eventuale presenza di sostanze pericolose ed il superamento delle soglie di concentrazione, e solo nel caso in cui siano accertati in concreto l’assenza o il mancato superamento di dette soglie, il rifiuto potrà essere classificato come non pericoloso (cfr. sez. 3 n. 46897 del 03/05/2017, Arduini, Rv. 268126). In quella sede, la Corte ha peraltro precisato che un’interpretazione delle norme che rimettesse al produttore/detentore di accertare, mediante analisi, il superamento di determinate concentrazioni di sostanze pericolose, sarebbe «eccentrica rispetto all’intero sistema normativo che disciplina la gestione del ciclo dei rifiuti, ed al principio di precauzione ad esso sostteso>>.

5.3. A tale ultimo principio e al criterio di esaustività ad esso sotteso sembra aver fatto riferimento il Tribunale nel provvedimento censurato, tuttavia omettendo qualsiasi riferimento alla normativa eurounitaria, ai fini del corretto inquadramento della fattispecie contestata, passaggio invero indispensabile per operare la scelta (principio di precauzione) sottesa alla laconica affermazione contenuta nell’ordinanza.

Ed infatti, in sede di conversione del d.l. 24 giugno 2014, n. 91, la legge 11 agosto 2014, n. 116 nell’art. 13 comma 5b-bis ha inserito una premessa all’Allegato D del d. lgs. 152 del 2006 del seguente tenore: «1. La classificazione dei rifiuti e’ effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente codice CER, applicando le disposizioni contenute nella decisione 2000/532/CE. 2. Se un rifiuto e’ classificato con codice CER pericoloso ‘assoluto’, esso e’ pericoloso senza alcuna ulteriore specificazione. (…) 3. Se un rifiuto e’ classificato con codice CER non pericoloso ‘assoluto’, esso e’ non pericoloso senza ulteriore specificazione. 4. Se un rifiuto e’ classificato con codici CER speculari, uno pericoloso ed uno non pericoloso, per stabilire se il rifiuto e’ pericoloso o non pericoloso debbono essere determinate le proprietà di pericolo che esso possiede. Le indagini da svolgere per determinare le proprietà di pericolo che un rifiuto possiede sono le seguenti: a) individuare i composti presenti nel rifiuto attraverso: la scheda informativa del produttore; la conoscenza del processo chimico; il campionamento e l’analisi del rifiuto; b) determinare i pericoli connessi a tali composti attraverso: la normativa europea sulla etichettatura delle sostanze e dei preparati pericolosi; le fonti informative europee ed internazionali; la scheda di sicurezza dei prodotti da cui deriva il rifiuto; c) stabilire se le concentrazioni dei composti contenuti comportino che il rifiuto presenti delle caratteristiche di pericolo mediante comparazione delle concentrazioni rilevate all’analisi chimica con il limite soglia per le frasi di rischio specifiche dei componenti, ovvero effettuazione dei test per verificare se il rifiuto ha determinate proprietà di pericolo. 5. Se i componenti di un rifiuto sono rilevati dalle analisi chimiche solo in modo aspecifico, e non sono perciò noti i composti specifici che lo costituiscono, per individuare le caratteristiche di pericolo del rifiuto devono essere presi come riferimento i composti peggiori, in applicazione del principio di precauzione. 6. Quando le sostanze presenti in un rifiuto non sono note o non sono determinate con le modalità stabilite nei commi precedenti, ovvero le caratteristiche di pericolo non possono essere determinate, il rifiuto si classifica come pericoloso. 7. La classificazione in ogni caso avviene prima che il rifiuto sia allontanato dal luogo di produzione”». L’entrata in vigore di tali disposizioni è stata fissata dalla stessa legge di conversione al 18 febbraio 2015 (decorsi, cioè, 180 giorni dalla data di entrata in vigore della stessa, cfr. art. 13 comma 5 bis).

Infine, l’art. 9, co. 1, d.l. 20/06/2017, n. 91, entrato in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione (cfr. art. 17) ha ulteriormente modificato l’Ali. D Parte IV del d.lgs. 152 del 2006 sostituendo i numeri da 1 a 7 della premessa con il seguente: «1.La Classificazione dei rifiuti è effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella Decisione 2014/955/UE e nel Regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014, nonché del Regolamento (UE) 2017/997 del Consiglio, dell’8 giugno 2017 ».

5.4. Tale ultima modifica costituisce, invero, un novum rispetto alla data di deliberazione dell’ordinanza impugnata e segna la terza fase della normativa eurounitaria (dalla cessata vigenza, cioè, della Decisione 2000/532/CE al 20 giugno 2017). Cionostante, non può non rilevarsi come difetti, nel provvedimento impugnato: qualsivoglia riferimento alle precedenti fasi (la prima fino al 17 febbraio 2015, data di entrata in vigore del d.lgs. 205/2010 che ha introdotto la richiamata premessa all’Ali. D; la seconda dal 18 febbraio 2015 al 31 maggio 2015, ultimo giorno di vigenza della Decisione 2000/532/CE); qualsiasi considerazione in ordine alla efficacia del Regolamento UE da ultimo citato e alla necessità di interpretare, in senso ad esso conforme, la normativa nazionale (il riferimento è, nello specifico, alla perdurante vigenza dei nn. da 1 a 7 della premessa all’ALL. D del d. Igs. 152/2006 a seguito della introduzione del Regolamento UE n. 1357 del 2014); infine, ogni precisazione sulla rilevanza, ai fini penalistici, della successione nel tempo delle richiamate disposizioni in materia di classificazione dei rifiuti.

6.Il silenzio motivazionale sul punto costituisce censura certamente deducibile in questa sede, traducendosi nella omessa indicazione dei presupposti legali considerati a fondamento della specifica regola juris seguita dal giudice di merito.

Si consideri, inoltre, che i dubbi interpretativi concernenti la normativa nazionale, europea e eurounitaria (sui quali lungamente si sono diffusi i ricorrenti e lo stesso P.G.) hanno già formato oggetto di ben tre ordinanze (adottate in data 21 luglio 2017 dalla Terza Sezione di questa Corte in altro ambito processuale), con le quali è stata proposta questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione (come pure attentantamente segnalato dai ricorrenti nella memoria successivamente depositata), proprio con specifico riferimento alla classificazione dei rifiuti con codice speculare.

6.1. Il tema è assai dibattuto e rispetto ad esso, sin da prima delle modifiche normative del 2014-2015, si sono registrati sostanzialmente due filoni ermeneutici tra di loro contrastanti. Secondo il primo orientamento, l’analisi strumentale alla caratterizzazione del rifiuto (fase che precede, con tutta evidenza, la classificazione di esso con attribuzione del relativo codice) deve essere quantitativamente esaustiva e indagare tutte le componenti di esso, in guisa che – in termini percentuali – la somma algebrica delle porzioni analizzate copra una percentuale che, sommata a quella di concentrazione più bassa prevista per le varie sostanze pericolose, raggiunga il 100% della composizione del rifiuto analizzato, scattando, in caso contrario, la presunzione assoluta di pericolosità in base al principio di “precauzione”.

Tale principio, peraltro, costituisce uno di quelli fondamentali in materia ambientale a livello eurounitario (cfr. art. 191 co. 2 TFUE) e nazionale (cfr. art. 3 ter T.U.A.), ed è richiamato anche dalla legge 116 del 2014 con l’inserimento della premessa all’ALL. D, come sopra già visto (cfr. punto 5).

Secondo l’altro orientamento, invece, i criteri per la caratterizzazione sarebbero meno stringenti e non sarebbe necessario verificare analiticamente la presenza di tutte le sostanze pericolose esistenti e determinarne la concentrazione, ma unicamente di quelle che, con più elevato livello di probabilità, possano essere presenti nel rifiuto (sostanze ubiquitarie e comuni e quelle specifiche pertinenti con il processo di produzione del rifiuto) e solo rispetto ad esse procedere alla verifica dell’eventuale superamento dei limiti di concentrazione se previsti. Ciò è affermato sulla scorta di un contemperamento tra il principio di precauzione e quello di economicità e fattibilità tecnica della gestione dei rifiuti, alla quale la fase della caratterizzazione è propedeutica (cfr. art. 178 d.lgs. 152/2006). Tale opzione ermeneutica ravvisa una conferma nella stessa normativa eurounitaria del 2014 – della quale si pone in evidenza la sovraordinazione rispetto a quella nazionale – laddove si introducono, con riferimento agli accertamenti sulla effettiva composizione dei rifiuti, termini come “opportuno e proporzionato”, ovvero “pertinenti”, senza alcun riferimento invece a presunzioni di pericolosità del rifiuto.

6.2. Proprio su tale ultimo profilo, questa Corte si è già soffermata, opportunamente osservando come la copertura eurounitaria di tale teoria finisca con il fare i conti con la stessa interpretazione del significato dei concetti sopra richiamati [la locuzione “opportuno” tradurrebbe i termini inglese e francese rispettivamente “appropriate” e “appropriée” che, letteralmente trasposti nel nostro idioma, sembrano evocare il diverso concetto di “adatto” o “idoneo” (cfr., in motivazione, Sez. 3, ordinanza n. 37461 del 21/07/2017; in quella sede la Corte ha proposto una “terza via”, ritenendo condivisibile la soluzione per la quale non sarebbe necessaria, ai fini di una caratterizzazione “adeguata”, la indiscriminata ricerca di tutte le sostanze che il rifiuto potrebbe astrattamente contenere, poiché accertando l’esatta composizione del rifiuto sarebbe conseguentemente possibile verificare la presenza di sostanze pericolose, rilevandosi inoltre che non sempre detta composizione è desumibile dalla origine del rifiuto e, quindi, dalla sua derivazione da uno specifico processo produttivo, potendo essere conseguenza di altri fenomeni o trattamenti che ne rendono incerta o ne mutano la composizione)].

7.Il lungo excursus che precede mette in evidenza, come del resto hanno fatto anche gli scritti difensivi e le conclusioni del P.G., l’esistenza di una complessa situazione normativa e di consistenti dubbi interpretativi in ordine agli obblighi incombenti sul produttore/detentore del rifiuto, sui quali vanno poi calibrati quelli propri del gestore che specificamente interessano nel caso all’esame.

Rispetto a tali temi non si rinviene nel provvedimento censurato alcuna effettiva disamina, che pure è direttamente rilevante ai fini della astratta configurabilità oggettiva dei reati ipotizzati, essendosi il Tribunale limitato a rassegnare una conclusione che evoca il criterio di esaustività e il principio di precauzione, alla luce dei quali ha ritenuto la sussistenza del fumus della violazione di regole cautelari da parte del gestore.

Gli elementi fattuali esposti nel provvedimento impugnato non consentono a questo giudice di legittimità neppure di verificare l’esistenza di questioni pregiudiziali riservate alla interpretazione del giudice eurounitario (pur astrattamente prospettabili ai fini della valutazione del fumus commissi delicti con riferimento alle ipotesi di reato formulate nel caso concreto) e di assolvere al proprio, conseguente obbligo di rimessione della decisione al giudice naturale sovranazionale. Né tali dubbi possono essere fugati dal solo richiamo al principio di precauzione per ravvisare la regola cautelare che si assume astrattamente violata, non avendo il giudice cautelare di merito previamente esaminato la questione relativa all’attribuzione della natura di rifiuto non generato regolarmente. Essa, con ogni evidenza, presuppone l’indicazione della natura e della provenienza dei rifiuti conferiti e degli obblighi specifici incombenti sul produttore/detentore conferente. L’obbligo ritenuto in capo al gestore, sia pure astrattamente, tenuto conto della natura del vincolo imposto, non può essere eccentrico rispetto al modello di riferimento, considerato che sia la Decisione 2000/532/CE che la Decisione 2014/955/UE prevedono, come uno dei passaggi fondamentali per la caratterizzazione di base, la identificazione della fonte che genera il rifiuto (previsione evidentemente ultronea ove si richiedesse in ogni caso una analisi quantitativamente esaustiva che, determinando una verifica del 100% del rifiuto, sarebbe del tutto sganciata dal ciclo produttivo di esso).

8.Peraltro, anche a voler convenire sul carattere di sommarietà di un tale apprezzamento, per il quale non è necessario individuare gravi indizi di colpevolezza in capo all’agente, resta in ogni caso un punto di radicale e decisiva carenza del provvedimento, riferibile alla necessità del mantenimento del vincolo.

Nell’ordinanza impugnata, infatti, non è dato rinvenire alcun riferimento al materiale conferito che sia ancora presente nell’area, al pericolo che ne discenderebbe al bene protetto, né al concreto e dimostrato pericolo di futuri conferimenti inquinanti e/o pericolosi.

8.1.Sul punto, deve infatti ribadirsi, anche in questa sede, che – in tema di impugnazione delle misure cautelari reali – il c.d. “effetto devolutivo” del riesame deve essere inteso nel senso che il tribunale è tenuto a valutare, indipendentemente dalla prospettazione del ricorrente, ogni aspetto relativo ai presupposti della misura cautelare (fumus commissi delicti e, nel sequestro preventivo, periculum in mora) [cfr. sez. 3 n. 35083 del 14/04/2016, Rv. 267508]. Tale secondo presupposto, peraltro, deve presentare i requisiti della concretezza e attualità, da valutare in riferimento alla situazione esistente non soltanto al momento dell’adozione della misura cautelare reale ma anche durante la sua vigenza, di modo che possa ritenersi quanto meno probabile che il bene assuma carattere strumentale rispetto all’aggravamento o alla protrazione delle conseguenze del reato ipotizzato o all’agevolazione della commissione di altri reati (cfr. sez. 3 n. 47686 del 17/09/2014, Rv. 261167).

9.Alla luce di tali principi, l’ordinanza deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Pistoia per nuovo esame sia con riferimento al fumus in relazione alla astratta configurabilità dei reati ipotizzati, alla luce del quadro normativo sopra richiamato e dei principi indicati, che avuto riguardo al periculum in mora, rispetto al quale il giudice dovrà procedere alla verifica dell’esistenza di un pericolo concreto ed attuale, direttamente collegato alla disponibilità del bene assoggettato alla misura reale.

P.Q.M.

Annulla il provvedimento con rinvio al Tribunale di Pistoia.

Deciso in Roma il 18 gennaio 2018.

Il Consigliere estensore

Gabriella Cappello

Il Presidente

Rocco Marco Blaiotta

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