Rifiuti. I rapporti tra il reato di “disastro innominato” ex art. 434 c.p. e il disastro ambientale ex art. 452 quater c.p.

Cass. Pen., Sez. I, sent n. 58023 del 29 dicembre 2017 (ud. del 15 maggio 2017)
Pres. Carcano, Est. Cairo

Rifiuti. Sversamento dei rifiuti pericolosi sui terreni agricoli. Bonifica dei siti. Concetto di danno ambientale. Rapporti tra disastro ambientale e disastro innominato. Clausola di riserva. Artt. 452 bis, 452 quater, 452 octies, cod. pen. . Legge n. 68/2015. Art. 239 d. lgs. n. 152/2006. Smaltimento dei rifiuti provenienti da impianti di depurazione. Principio di cautela. Differenza tra inquinamento ambientale e disastro innominato. Grado di tutela del bene protetto e progressività nell’offesa. Disastro innominato come reato di pericolo a consumazione anticipata. Art. 434 c.p. .

Il delitto di disastro ambientale, introdotto nel codice penale dalla legge nr. 68/2015, ha carattere innovativo ed è caratterizzato dalla presenza di una clausola di riserva che trova applicazione sia per le ipotesi di cd. pericolo che per quelle di danno, essendo finalizzata a regolamentare il rapporto tra fattispecie relativa ai processi in corso, al fine di evitare che si possa generare confusione tra gli statuti e le fattispecie applicabili che ovviamente finivano per differire in punto di sanzione e di tipicità. Così, la clausola di riserva che risulta inserita nell’art. 452 quater cod. pen. segna anche l’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 452 bis cod. pen., là dove l’inquinamento si arresti ad una soglia lesiva che non è tale da indurre in senso stretto “disastro ambientale” punito dall’art. 452 quater cod. pen. Questa premessa, impone di ritenere che sia da escludere che possa prefigurarsi rispetto al disastro cd. innominato la sostituzione nei processi in corso con la fattispecie di cui all’art. 452 bis cod. pen. A ciò deve, tuttavia, aggiungersi che tra le due fattispecie vi è un indubbia diversità strutturale, evocando i fatti- reato nei rispettivi nuclei lesivi figure criminis sensibilmente diverse.
L’inquinamento ambientale si caratterizza per una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili delle matrici ambientali, degli ecosistemi o delle biodiversità. Il disastro innominato, specie nella forma aggravata, ha, contrariamente, carattere ben più ampio e meno limitato rispetto all’ambito di applicazione della condotta testé descritta e postula un fatto di proporzioni di ben più ampia gravità, che lo collocano in un grado di lesività ben più marcata al bene protetto. I fenomeni di grave inquinamento ambientale sono stati tradizionalmente affrontati in giurisprudenza, recuperandoli all’ambito di applicabilità dell’art. 434 cod. pen. e facendo ricorso alla disposizione, in particolare, del disastro cd. innominato. Valorizzando la portata “inespressa” della norma regolatrice, la sua collocazione sistematica (tra i delitti contro la pubblica incolumità) e il contenuto lessicale del concetto descrittivo di “disastro” si è apprestata, attraverso la sua applicazione, tutela anche al “paesaggio” (e, dunque, all’ambiente), bene giuridico- materiale oggetto di presidio costituzionale (art. 9 Cost.). Al delitto – rivolto a proteggere la pubblica incolumità, considerata nel suo complesso, e non l’integrità fisica del singolo individuo – è stata ascritta la forma tipica del reato di pericolo, nel suo primo comma. Ai sensi del secondo comma dello stesso art. 434 cod. pen. la verificazione del disastro determina un aggravamento di pena. Fattispecie: contaminazione di siti agricoli realizzata con regressivo accumulo di sostanze anche pericolose nell’ambiente e in violazione delle disposizioni di settore, attraverso la reiterazione di condotte che, per durata e gravità, hanno indotto la compromissione dei beni protetti.
La giurisprudenza ha ritenuto configurabile il delitto di cui all’art. 434 cod. pen. anche con riferimento a casi di inquinamento e contaminazione progressivi e talvolta lungo-latenti, non caratterizzati dalla sussistenza di un evento di forte impatto traumatico sulla realtà, né innescati da una causa di tipo violento (Cass., Sez. IV, 17/05/2006, n. 4675). Si è, ancora, osservato che, per la configurazione del disastro ambientale, “è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente un numero indeterminato di persone” (Cass., Sez. V, sent. n. 40330/2006) e si è giunti ad isolare alcuni requisiti che caratterizzano la nozione di disastro specificamente nella potenza espansiva del nocumento stesso e nell’attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità (Cass. Sez. III, sent. n. 9418 del 2008). (Ancora giurisprudenza sulle coordinate applicative della disposizione in esame (art. 434 cod. pen.), spiegando che essa trovi pacificamente applicazione anche nei casi di cd. disastro ambientale (Sez. 3, n. 46189 del 14/07/2011 Ud. (dep. 13/12/2011); Sez. 4, n. 36626 del 05/05/2011; Sez. 3, n. 9418 del 16/01/2008 Cc. (dep. 29/02/2008); Sez. 5, n 40330 del 11/10/2006 Cc. – dep. 07/12/2006). Il disastro innominato (art. 434 cod. pen. ), reato di pericolo a consumazione anticipata, (Sez. 4, n. 36626 del 05/05/2011 Cc. dep. 11/10/2011) e si perfeziona anche nel caso di contaminazione di siti a seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale (Sez. 3, n. 46189 del 14/07 /2011 Ud. -dep, 13/12/2011 Passariello e altri). E’, cioè, l”‘immutatio loci”, che produce un danno ambientale di eccezionale gravità a integrare la fattispecie ed essa prescinde dalla unitarietà o istantaneità dell’evento di disastro, che può consolidarsi nel tempo proprio attraverso e all’esito della ripetuta e sistematica diffusione incontrollata di rifiuti inquinanti nell’ambiente. Deriva che i connotati di unitarietà e di istantaneità, inteso quest’ultimo come giudizio di relazione temporale tra risultato di danno e condotta, non sono elementi strutturali necessari della fattispecie. Il disastro non deve essere necessariamente evento unitario nella sua consistenza empirico materiale, ma può connotarsi di profili plurimi, riguardando le diverse matrici ambientali compromesse e gli ambiti territoriali dell’ecosistema interessati dalla trasformazione e dall’alterazione prodotta.
La tutela della incolumità pubblica, in generale nei reati cd. vaganti, con soggetto passivo indeterminato (e che tutelano, appunto, collettività indistinte di soggetti, definite con maggiore o minore precisione) è, da un lato, caratterizzata da una forza espansiva del danno e, dall’altro, dalla stessa caratteristica della condotta, che può indurre pericolo per la collettività medesima attraverso lesioni e compressioni anche di altri beni giuridici, lesioni che vanno dalla messa in pericolo alla vera e propria compromissione di essi. In realtà la tutela dell’incolumità pubblica realizza una protezione dell’oggettività giuridica in termini anticipati rispetto a una serie di ulteriori beni, rilevanti anche penalmente (vita, integrità fisica, ambiente) la cui compromissione, lesione o minaccia finisce per mettere in pericolo anche l’indicata incolumità. Si comprende, allora, come risulti spiegata, la ragione per la quale, da un lato, al cospetto dell’incidente di costituzionalità della disposizione di cui all’art. 434 la Corte costituzionale abbia ritenuto conforme la norma nella sua particolare strutturazione alla Carta fondamentale e, dall’altro, come non si versi al cospetto di alcuna applicazione analogica del dato normativo, trovando per costante e fermo orientamento giurisprudenziale esso stesso applicazione anche al cospetto del disastro ambientale. Fattispecie: disastro ambientale supportato attraverso l’entità delle attività di illecita gestione e sversamento in ambiente dei rifiuti illegalmente trattati.
Lo smaltimento dei rifiuti provenienti da impianti di depurazione che risultano speciali pericolosi (all’interno dei quali sono presenti idrocarburi) non può distinguersi tra compost in maturazione e stabilizzato, ribadendo la loro natura di rifiuti privi di caratteristiche agronomiche, da smaltire in discarica di II categoria. Fattispecie: attività di miscelazione non consentita di rifiuti pericolosi e attribuzione di codici CER di comodo compromettendo i riferimenti formali, le caratteristiche dei codici e la pretesa qualificazione dei rifiuti in ragione dell’attribuzione del singolo codice. (Rifiuti i cui codici identificativi erano manipolati con la conseguenza che le stesse verifiche eseguite avevano dimostrato che si trattava di prodotti inquinanti e non di un fertilizzante, idoneo all’impiego in agricoltura).
COMMENTO:

La fattispecie introdotta nel codice penale all’art. 452 quater in tema di disastro ambientale si differenzia da quella più generica individuata dall’art. 434 c.p. in tema di disastro innominato. La fattispecie di natura ambientale rappresenta un reato di evento e non di pericolo, ed oltre a caratterizzarsi per un impatto sanzionatorio più grave (con una pena da 5 a 15 anni di reclusione) rispetto ai 3 anni di pena minima e ai 12 di massima dell’art. 434 c.p., riguarda una condotta soggettiva vincolata alla realizzazione di 3 tipologie di macro-eventi lesivi. Il primo consiste in una alterazione dell’equilibrio dell’ecosistema di carattere «irreversibile» (n. 1); il secondo in un evento «la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali» (n. 2); il terzo incrimina, infine, come macroevento, “l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”.

La terza ipotesi desritta potrebbe anche essere considerata come reato di pericolo concreto più che di danno, ma il modello descrittivo su cui è basata la formulazione dell’intera fattispecie penale del disastro ambientale, causalmente orientata, la porta ad essere un’ipotesi sussidiaria rispetto ai casi di «compromissione e deterioramento significativi e misurabili» dell’ecosistema previsti dall’art. 452 bis c.p. in tema di inquinamento ambientale.

Ma ciò che rileva ulteriormente è la c.d. “clausola di riserva” inserita nell’art. 452 quater c.p., poiché nel suo incipit viene inserita la dicitura «fuori dai casi previsti dall’art. 434», il che porta tale fattispecie ad essere una specificazione autonoma di una fattispecie penale più generale che ne delimita i limiti applicativi tra le rispettive norme evitandone una sovrapposizione o un assorbimento.

Cass. Pen., Sez. I, sent n. 58023 del 29 dicembre 2017 (ud. del 15 maggio 2017)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
PELLINI CUONO nato il 21/01/1964 a ACERRA;
PELLINI GIOVANNI nato il 21/04/1972 a ACERRA;
PELLINI SALVATORE nato il 07/01/1963 a ACERRA;
avverso la sentenza del 29/01/2015 della CORTE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ANTONIOCAIRO;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ANTONIO MURA
che ha concluso per
L’udienza viene sospesa alla ore 12,25
Alle ore 12,35 l’udienza riprende.
Il PG conclude chiedendo il rigetto di tutti i ricorsi. Udito il difensore
L’Avv. Di Leo Generoso conclude riportandosi alle conclusioni che deposita unitamente alla nota spese.
L’Avv. Bianco conclude riportandosi alle conclusioni che deposita unitamente alla nota spese.
L’Avv. Maranella conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso. L’Avv. Preziosi conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’Avv. Majorano conclude chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
L’Avv. Bruno conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso. L’Avv. Bassetta conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso. L’Avv. Riccardi conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Napoli, con sentenza in data 29/3/2013, dichiarava Pellini Giovanni e Pellini Cuono colpevoli dei reati ascritti ai capi a) e m) della rubrica, esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 conv. con mod. nella L. 12 luglio 1991, n. 203 e unificati i fatti ex art. 81 cpv. cod. pen. li condannava alla pena di anni sei di reclusione ciascuno; dichiarava Pellini Salvatore colpevole del reato di cui al capo a), parimenti esclusa la circostanza aggravante indicata, lo condannava alla pena di anni quattro di reclusione. Dichiarava non doversi procedere a carico degli imputati per tutte le residue fattispecie, ritenuta quanto al capo b) della rubrica l’ipotesi di cui all’art. 434 comma 1 cod. pen., per intervenuta prescrizione.
1.1. Su impugnazione del P.M., del P.G., delle costituite parti civili, Cannavacciuolo Mario e Vincenzo, oltre che degli imputati Pellini Salvatore, Cuono e Giovanni, la Corte d’appello, in riforma dell’indicata sentenza, dichiarava Pellini Giovanni, Pellini Cuono e Pellini Salvatore colpevoli del delitto di cui all’art. 434 comma II cod. pen. e li condannava alla pena di anni sette di reclusione ciascuno; dichiarava non doversi procedere per il reato ascritto al capo A per intervenuta prescrizione; assolveva Pellini Cuono e Pellini Giovanni, con formula d’insussistenza, dal reato ascritto al capo m).
1.2. La Corte di merito, confermata la dichiarazione di prescrizione, esaminava il traffico illecito di rifiuti di cui ai capi E ed H e trattava del delitto di disastro ambientale di cui al capo B. Osservava come nella sentenza impugnata si fosse ritenuto non provato il danno e si fosse giunti a ritenere la sola messa in pericolo dell’incolumità pubblica, escludendo così l’aggravante del secondo comma dell’art. 434 cod. pen. per recuperare il fatto stesso alla fattispecie di cui al comma primo. Erano, contrariamente, valorizzate sul punto le dichiarazioni e le attività dell’Auriemma, consulente tecnico del P.M. e si ritenevano fondati gli appelli della Pubblica Accusa per i siti gestiti dai fratelli Pellini. Richiamando una ricostruzione logica e di verosimiglianza la Corte d’appello affermava che si era realizzata la fattispecie in esame, poiché, da un lato, l’altezza della falda e, dall’altro, il gran numero di tonnellate di rifiuti pericolosi gestiti attraverso lo spargimento sui fondi aveva compromesso le matrici di suolo e di acqua. A supporto erano richiamati i principi che questa Corte di legittimità aveva affermato in sede cautelare. Era ritenuta, dunque, provata la condotta associativa (per la quale si addiveniva alla conferma della prescrizione) e quella di disastro ambientale.
Avverso la decisione indicata ricorrono per cassazione gli imputati e deducono quanto segue.
I Ricorsi
Ai sensi dell’art. 173 comma 1 disp. att. cod. proc. pen. si darà atto dei motivi di ricorso nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2. Ricorre per cassazione Pellini Cuono, a mezzo dei difensori di fiducia e, con due distinti atti di impugnazione, deduce i seguenti motivi di doglianza.
2.1. Con il primo ricorso, a firma dell’avvocato Lucio Majorano, lamenta applicazione dell’art. 434 comma 2 cod. proc. pen. l’erronea
2.1.1. La disposizione, osserva il ricorrente, è norma di chiusura che sanziona un reato di pericolo a consumazione anticipata. Le ipotesi previste dal primo e dal secondo comma della norma si differenziano per essersi il disastro effettivamente verificato nel costrutto di cui al comma secondo dell’art. 434 e per il pericolo del suo verificarsi, in quello di cui al comma primo. Il disastro, nella logica della fattispecie di cui al comma secondo, dunque, deve essere oggetto di rigorosa prova. La Corte d’appello, nella specie, si lamenta, avrebbe, al contrario, ritenuto che, nonostante la mancanza di specifiche analisi sui siti, si potesse ritenere provato il disastro stesso, avvalendosi del ragionamento logico, fondato su massime d’esperienza e criteri di verosimiglianza. Al contrario, per i giudici della Corte d’appello il disastro era stato “presunto” sulla base di una valutazione discrezionale della gravità del fatto e sulla scorta della sua verosimile attitudine a provocarlo. Nella specie si era ritenuto l’evento di danno, nonostante la mancanza di analisi e di una perizia, pur sollecitata dallo stesso Procuratore Generale d’udienza.
2.1.2. Con il secondo motivo, invoca il ricorrente l’annullamento della sentenza e richiama la legge 22 maggio 2015, n. 68. Afferma che, con l’introduzione dell’art.452 quater cod. pen., si era descritto l’evento di disastro con l’inserimento di un profilo offensivo aggiuntivo e di uno dimensionale. La presenza della clausola di riserva nell’art. 452 quater cod. pen. attestava che, pur alla luce di una non chiarissima formulazione, là dove la condotta non avesse prodotto uno dei risultati descritti dalla disposizione si sarebbe dovuto applicare l’art. 434 comma 1 cod. pen.
La condotta posta in essere dal Pellini non era, pertanto, recuperabile all’art. 452 quater cod. pen. per difetto dell’alterazione dell’ecosistema e/o della offensività diffusa ex art. 452 quater n. 3 cod. pen. e non sarebbe stata recuperabile all’art. 434 comma 2 cod. pen. per sua intervenuta abrogazione.
2.1.3. Con il terzo motivo, si duole il ricorrente del vizio di omessa motivazione. La sentenza impugnata si era limitata a richiamare e riproporre il testo della motivazione della Corte di cassazione resa in fase cautelare. Aveva disatteso tutti i motivi d’appello senza offrire una spiegazione adeguata addivenendo alla statuizione d’estinzione di prescrizione per tutti i fatti ascritti, ad eccezione del delitto di cui all’art. 434 comma 2, per il quale v’era stata condanna, contrariamente a quanto si era fatto nel primo giudizio in cui era stata considerata provata la sola fattispecie di pericolo di cui all’art. 434 comma 1 cod. pen.
2.1.4. Con il quarto motivo deduce il travisamento di atti processuali e ancora la mancanza di motivazione.
La Corte d’appello avrebbe dovuto dare una motivazione adeguata confrontandosi con la decisione di primo grado e spiegando se la nuova decisione fosse frutto di una valutazione alternativa dei fatti o di errori e conclusioni illogiche cui era giunto il primo giudice. Ciò perché la decisione del Tribunale era da ritenere sentenza assolutoria rispetto all’art. 434 comma 2 cod. pen., titolo rispetto al quale il secondo giudizio era giunto alla affermazione di responsabilità del ricorrente.
La Corte d’appello aveva richiamato la deposizione del teste Luongo, appartenente al Corpo forestale dello Stato, che in relazione al reato di disastro ambientale si era rifatto ad una verifica eseguita attraverso un viaggio in elicottero. Sorvolando le aree interessate aveva constatato un cambio di colore del corso d’acqua dei Regi Lagni (contraddistinto da quello tipico del percolato di discarica). Ciò era avvenuto, tuttavia, senza eseguire indagini e prelievi di campioni da analizzare. Durante il processo erano stati prodotti i risultati di diverse analisi eseguite dall’Arpac che avevano sempre (ud. 17/12/2010, testi Gallo, Tucci e Russo) attestato, si assume, la conformità degli scarichi ai parametri previsti dalla legge. La stessa fotografia allegata al fascicolo processuale documentava, poi, la presenza di due condotte: l’una proveniente dal depuratore dei Pellini e l’altra da fonte ignota. Era, pertanto, impossibile verificare dall’alto che il liquido fosse quello prodotto dalla discarica dei medesimi ricorrenti.
Quanto alla produzione di compost – che avveniva in contrada Lenza Schiavone – al pari la sentenza era carente.
Il teste Auriemma aveva riferito sulle caratteristiche del compost stesso (fil. 52 e 73 della sentenza impugnata). Al tema la difesa aveva, tuttavia, dedicato ampie argomentazioni nei motivi d’appello e aveva chiarito che mai alcuna analisi era stata effettuata sul prodotto ceduto alla Agricompost. Le analisi, piuttosto, avevano riguardato un rifiuto in lavorazione, oggetto diverso dal prodotto finito e alcun accertamento aveva confermato la presenza di diossina, né che il decesso del gregge dei Cannavacciuolo fosse legato causalmente alla condotta di disastro ambientale.
Una pura semplificazione risultava, poi, il richiamo alla manipolazione dei codici identificativi.
2.1.5. Con il quinto motivo si lamenta la violazione dell’art. 416 cod. pen. La Corte d’appello aveva ritenuto che la permanenza fosse cessata con la consumazione dei reati tributari ed era addivenuta ad una conferma della decisione sul punto in maniera apodittica e senza confrontarsi con gli argomenti offerti dalla difesa.
2.1.6. Con il sesto motivo, si lamenta la mancanza di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
2.1. 7. Con il settimo motiv’1 si duole il ricorrente della violazione dell’art. 133 cod. pen. La sanzione era stata determinata con un richiamo al mero criterio di equità inidoneo a fondare la motivazione sul punto.
2.1.8. Con l’ottavo motivo1si duole il ricorrente della mancanza di motivazione sulla condanna generica ai danni e della violazione dell’art. 538 cod. proc. pen. Sul punto mancava la prova del danno e la sentenza impugnata sarebbe stata da annullare anche sulle statuizioni civili. La parte danneggiata avrebbe dovuto dare prova del danno e degli elementi costitutivi dell’illecito civile.
Quanto al caso del decesso del gregge dei Cannavacciuolo la Corte d’appello aveva ritenuto che gli animali pascolassero nel sito Lenza Schiavone ove assumevano diossina. Le indagini avevano, tuttavia, attestato che il sito stesso non risultava contaminato da diossina.
2.2. Pellini Cuono, con altro e distinto atto di impugnazione, a firma dell’avvocato Pierfrancesco Bruno, deduce i seguenti motivi.
2.2.1. Con il primo motivo insiste sulla violazione dell’art. 434 cod. pen.. La collocazione sistematica della norma risulta quella di un delitto di comune pericolo mediante violenza, requisito non configurato nella concreta della fattispecie. Nella vicenda mancherebbe un evento naturalistico unitariamente collocato nel tempo e nello spazio con caratteristiche di enormità, istantaneità ed eccezionalità. La disposizione era stata stravolta nella sua applicazione anche sul piano dell’offensività. La tutela dell’ambiente era stata sovrapposta a quella della pubblica incolumità contra legem. L’art. 434 cod. pen. era stato trasformato in norma plurioffensiva eventuale, con difetto di indicazioni al riguardo. Nella fattispecie la Corte d’appello aveva introdotto, nell’ambito di tutela, anche il disastro ambientale – attraverso un’operazione analogica in contrasto con il principio di tassatività di cui all’art. 25 comma 2 Cost. -.
Nel paradigma del cd. disastro innominato non sarebbe stato ineludibile quello di carattere ambientale.
2.2.2 Con il secondo motivo 1 si censura l’inserimento del disastro ambientale in quello innominato e il relativo vizio di motivazione.
La Corte d’appello aveva confuso il concetto di disastro con quello di danno ambientale. La circostanza di cui all’art. 434 comma 2 cod. pen. era stata applicata pur in assenza di un evento riconducibile alla nozione di disastro. Il relativo accertamento avrebbe richiesto indagini e verifiche più approfondite. Il macro evento del disastro era stato ritenuto attraverso una discutibile operazione di sommatoria di microeventi di danni ambientali, incorrendo in una applicazione falsa dell’articolo in questione. La Corte d’appello aveva confuso e trasformato il fatto diretto a cagionare il disastro di cui al comma 1 dell’art. 434 cod. pen. nella versione aggravata del comma secondo della medesima disposizione, che postulava, al contrario, l’accertamento di un evento pericoloso come conseguenza della condotta.
Ciò era accaduto per evitare le conseguenze della prescrizione.
2.2.3 Con il terzo motivo.censura il vizio di motivazione e la violazione degli artt. 192 comma 3, 530 comma 2, 533 comma 1 e 546 lett. e) cod. proc. pen. Il Tribunale era giunto, invero, a conclusioni opposte rispetto a quelle cui era pervenuta la Corte d’appello sulla scorta dei medesimi atti e proprio sulla valutazione della deposizione del teste Auriemma. In particolare, non solo non constava il disastro, ma lo stesso danno ambientale era emerso in relazione alla piana di Acerra e non ai siti gestiti dai Pellini.
Il consulente della difesa, Sabato Castaldo, aveva annotato come non fosse risultato né in località Tappia, né in località Lenza Schiavone un livello di inquinamento superiore alle soglie normative. La stessa deposizione del teste Luongo sul rilievo aereo attestava la presenza di due condutture e che solo una fosse riferibile ai Pellini. La sentenza impugnata aveva, poi, adottato criteri disomogenei per le aree in esame e per gli impianti gestiti dalla Igemar e dalla Pozzolana Flegrea.
Nella specie, la Corte d’appello aveva ribaltato la decisione di primo grado non solo rivalutando in peius le emergenze probatorie, ma disattendendo l’obbligo di motivazione rafforzata cui era di converso tenuta.
2.2.4. Con il quarto motivo di ricorso, si deduce la violazione del principio di correlazione tra contestazione e decisione, oltre che la violazione degli artt. 517 e ss cod. proc. pen. La contestazione indicava che il disastro era avvenuto attraverso il versamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale, analiticamente indicati. L’inquinamento, si era affermato in sentenza, era stato al contrario realizzato con il versamento di percolato da discarica e con distribuzione di compost, inquinanti diversi da quelli contestati che davano luogo ad una condotta diversa da quella ascritta. Si trattava di fatti nuovi non enunciati nel decreto che aveva disposto il giudizio e per i quali si sarebbe dovuto procedere ai sensi dell’art.518 cod. proc. pen. Ciò aveva prodotto anche la violazione dell’art. 6 CEDU parr. 1 e 3 lett. a) e b).
2.3. Il 27/4/2017 sono stati depositati motivi aggiunti nell’interesse del Pellini Cuono a firma dell’avvocato Lucio Majorano. Si insiste sugli argomenti già trattati e, in particolare, si annota che erano state valorizzate, per ribaltare il risultato cui era giunto il Tribunale in primo grado, le deposizioni dei testi Luongo, Auriemma e Di Fiore, testi che avevano reso dichiarazioni e dei quali si sarebbe dovuto rinnovare l’esame in fase di appello, per giungere alla diversa conclusione.
3. Ricorre per cassazione Pellini Giovanni, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, avvocato Giovanni Riccardi e avvocato Stefano Preziosi, articolando più motivi, affidati a due distinti atti di impugnazione.
3.1. Con il primo ricorso, a firma dell’avvocato Riccardi, deduce quanto segue.
3.1.1. In primo luogo lamenta la violazione di legge (in particolare dell’art. 434 comma II cod. pen. ) e il vizio di motivazione.
Afferma che la Corte d’appello era giunta alla condanna dei fratelli Pellini nonostante le richieste del P.G. che, comunque, aveva insistito per la rinnovazione istruttoria o in subordine per l’assoluzione. Si era ritenuta la responsabilità penale per il delitto di cui all’art. 434 comma 2 cod. pen. in assenza di ogni prova e in particolare di analisi che attestassero la condizione di inquinamento dei fondi.
Erano stati valorizzati, ai fini della prova criteri di verosimiglianza e massime di esperienza che la Corte stessa non aveva neppure indicato. Non si sarebbe potuto, tuttavia, parlare di disastro ambientale, poiché mai era stata accertata e verificata alcuna alterazione delle presunte matrici ambientali.
La Corte territoriale era giunta all’affermazione della penale responsabilità seguendo un criterio diverso rispetto a quello che era stato utilizzato per l’altro imputato, legale rappresentante della Igemar (Marrone). In particolare, aveva ritenuto che il disastro ambientale fosse provato per i Pellini e per il ricorrente, poiché la situazione idrogeologica era grave considerata l’altezza della falda; il compost prodotto dai Pellini presentava un elevato contenuto di idrocarburi; vi era stata immissione di percolato di discarica dall’impianto dei Pellini ai Regi Lagni, come attestato da una ripresa aerea operata da un elicottero, tanto che si era apprezzato il cambio di colore dell’acqua. Si trattava, tuttavia, annota il ricorrente, di segmenti che in fatto non figuravano nella contestazione mossa all’imputato. In essa non vi era alcun riferimento né all’altezza della falda sottostante l’impianto, né al compost, né al percolato da discarica e alla relativa immissione.
Il capo B dell’imputazione faceva riferimento al disastro ambientale enucleando specificamente i rifiuti e le relative categorie attraverso le quali si era prodotto il danno ambientale. Alcuno dei rifiuti indicati era stato individuato tra quelli attraverso cui si era ritenuto realizzato il disastro oggetto di contestazione.
Alcun riferimento al compost era stato inserito nella contestazione, pur trattandosi dell’unico materiale che, per destinazione, era rivolto ad essere diffuso sul suolo. La stessa Arpac aveva esaminato il compost maturo, repertato nell’impianto dei Pellini e la Pubblica Accusa non aveva ritenuto di inserirlo nella contestazione con la conseguenza che di esso non si sarebbe dovuto tenere conto, poiché formalmente non era oggetto né di contestazione, né di decisione.
Del resto, alcuna condotta di spandimento dei rifiuti era attribuibile ai Pellini. I rifiuti trattati presso l’impianto di Lenza Schiavone erano recuperati o avviati presso altri impianti e, al pari, il compost era ceduto ad altre società (CO.Ga di Foggia o Agricompost di Acerra).
Unici rifiuti rinvenuti presso l’impianto erano quelli trovati su una piattaforma in cemento. Erano riposti, dunque, su una struttura impermeabile con conseguente manifesta illogicità della decisione, che aveva valorizzato quella presenza in funzione dell’affermazione di colpevolezza.
In particolare, si trattava dei fanghi contenenti oli minerali, appunto, non repertati sul suolo. La stessa Arpac aveva ammesso di aver errato nella redazione di almeno 21 rapporti di prova di rifiuti, tanto che aveva provveduto a rettificarne il contenuto. Quel dato, che era stato acquisito in relazione alla Agricompost, non poteva non valere anche per le ditte dei Pellini.
Esse erano autorizzate a trattare e ricevere il rifiuto operando dall’anno 2002, in regime ordinario.
Anche il secondo tipo di rifiuto era legittimamente ricevuto dalla azione dei Pellini. A parte la circostanza che esso non era mai stato rinvenuto, era entrato nell’imputazione perché figurava in alcuni FIR trovati nell’azienda e correttamente registrati.
La Corte d’appello aveva omesso di motivare sui rifiuti (terre e rocce) che al pari potevano essere ricevuti legittimamente, tanto per l’amianto che per il PBC. L’amianto non era mai stato campionato neppure nel compost e quel rifiuto, ricavato in via puramente documentale, era inviato a ditte specializzate per lo smaltimento.
Il presunto sversamento nei Lagni.
La contestazione relativa allo sversamento nei Lagni era generica. Il tutto aveva tratto scaturigine da una ripresa aerea operata da un elicottero, cui non aveva fatto seguito alcun accertamento in concreto. Pur avendo notato che una macchia si allargasse nei Lagni stessi non si era accertato né cosa si stesse versando, né se si trattasse di rifiuti pericolosi. Per altro verso, il teste escusso aveva dedotto che si trattava di materiale proveniente dal sito dei Pellini, poiché esso aveva lo stesso “colore” scuro di altro materiale lì esistente in vasche. Tuttavia, allorquando si erano mostrati i tubi di immissione si era accertato in dibattimento che uno era appartenente ai Pellini e l’altro era uno scarico abusivo di cui si disconosceva l’origine. Lo stesso dichiarante non era stato in grado di individuare quello dei Pellini, né di dire da quale scarico provenissero le immissioni nei Lagni.
I Cannavacciuolo
La difesa dei Cannavacciuolo, costituiti parte civile, aveva omesso di indicare su quali suoli i Pellini avessero cosparso il compost e su quali fondi il gregge avesse pascolato.
Alcuno spargimento di compost era stato operato, poiché la sostanza era consegnata alla Co.Ga. s.r.l. ed alla Agricompost, come si evinceva dai contratti agli atti. Piuttosto, il gregge dei Cannavacciuolo esercitava il pascolo vagante e, nel territorio di Acerra, non esistevano aree destinate ad attività siffatta. D’altro canto, quel gregge pascolava anche su aree adiacenti lo stabilimento Montefibre in zona Asi a vocazione industriale ove la pratica del pascolo era vietata.
Le stesse dichiarazioni del consulente del Pubblico Ministero, Auriemma, erano fuorvianti. Costui aveva riferito di un livello di idrocarburi elevato esistente nel compost. Aveva fatto riferimento, tuttavia, alle analisi dell’Arpac e non a prelievi propri. Il dato era stato ritratto, allora, da verifiche operate sul compost stesso prelevato all’interno dell’impianto e non da campioni prelevati dal suolo.
L’inconsistenza della prova a carico era ritraibile anche dallo studio del Ministero delle Politiche agricole dell’ll/3/2014 studio che aveva, all’esito di specifiche analisi, monitorato i suoli, giungendo alla conclusione che le aree in questione non rientrassero neppure nelle classi sospette di basso profilo (1, 2). Unica era quella Montefibre diversa dai suoli dei Pellini.
Erroneo era stato il richiamo alla decisione della Suprema Corte di cassazione dell’anno 2006 in materia cautelare. La decisione era relativa ad un quadro dimostrativo assolutamente diverso da quello che si era poi formato durante il contraddittorio.
Proprio tra i punti non considerati era quello del carattere abusivo degli impianti. Si era, infatti, inizialmente ritenuto che essi fossero assentiti in regime semplificato. Era, invece, emerso in dibattimento che i Pellini godevano del regime di autorizzazione regionale ordinario. Tale autorizzazione determinava la possibilità di trattare anche rifiuti pericolosi all’interno dell’impianto.
Il contributo dei collaboratori.
La Corte d’appello aveva valorizzato il collaboratore Pasquale Di Fiore, secondo cui i Pellini pagavano i contadini affittando i terreni per scaricare i rifiuti. L’attendibilità del Di Fiore era seriamente compromessa dal suo astio verso i Pellini (concorrenti nella distribuzione del calcestruzzo) e in concreto non era stato neppure in grado di spiegare quali fossero le zone interessate dallo sversamento illecito, zone indicate come renza e appia (in luogo di Tappia e Lenza Schiavone).
Raffaele De Falco parente del Di Fiore aveva smentito, tuttavia, quella versione e si trattava di prospettazioni diverse che la Corte d’appello aveva, tuttavia, ritenuto concordanti.
Anche le dichiarazioni del Frongillo erano inattendibili, poiché costui riferiva di uno spargimento di rifiuti senza essere in grado di indicare i fondi e facendo riferimento a fatti che si erano verificati quando era detenuto.
Di Giovanni, poi, altro collaboratore, aveva riferito che il compost era inviato nella cava della Pozzolana Flegrea ove, eseguite le indagini, si era appurato che non vi fossero rifiuti pericolosi. Il collaboratore, del resto, annota il ricorrente, era inattendibile come accertato in sede giudiziaria e non si sarebbe potuto fare alcun affidamento su quanto da costui riferito.
3.1.2. Con il secondo motivo si lamenta la ritenuta illegittimità delle autorizzazioni in capo al gruppo Pellini. Si era ritenuto erroneamente che si trattasse di autorizzazioni solo formalmente lecite e che in realtà non erano commisurate al tipo di rifiuti ricevuti.
Contrariamente, si era dimostrato che i due impianti quello di via Tappia e di contrada Lenza Schiavone erano regolarmente autorizzati. La Corte d’appello si era limitata a richiamare la consulenza Gerundo che, dal suo canto, aveva esaminato il solo profilo urbanistico e non quello collegato alla normativa sui rifiuti.
3.1.3. Con il terzo motivo in applicazione dell’art. 2 comma 3 cod. pen. si richiede l’estensione degli artt. 452 bis, 452 quater e 452 octies cod. pen.. Si duole, ancora, il ricorrente della violazione dell’art. 7 CEDU.
Afferma che la condanna era stata fondata utilizzando la norma del cd. disastro innominato per punire il cd. disastro ambientale, fattispecie introdotta solo successivamente dall’art. 452 quater cod. pen. L’art 434 comma II cod. pen. era, infatti, norma carente dal punto di vista della tassatività della fattispecie. La stessa Corte costituzionale lo aveva rilevato nella sentenza n. 327/1988. Nella specifica vicenda poi si era errato nel non applicare la riduzione di pena derivante dall’art.452 octies cod. pen. essendo pacificamente intervenuta la bonifica dei siti.
3.1.4. Con il quarto motivo si duole il ricorrente della violazione dell’art. 416 cod. pen. e del vizio di motivazione.
La Corte d’appello era giunta a dichiarare la prescrizione senza considerare che erano stati articolati specifici motivi d’appello con cui si insisteva nella assoluzione. La Corte aveva ritenuto la sussistenza del fatto in relazione al ruolo di gestione della società della famiglia, ruolo da cui, appunto, aveva ritratto la prova del fatto associativo.
3.1.5. Con il quinto motivo si denuncia la violazione di legge e degli artt. 7, 51 e 53 d. lgs 22/1997 oltre che dell’art. 129 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione.
La Corte d’appello aveva dichiarato la prescrizione delle condotte di cui ai capi E, F e G nonostante nel corso del processo si fosse dimostrata la legittimità della condotta degli imputati.
3.1.6. Con il sesto motivo si denuncia la violazione dell’art. 239 d. lgs 152/2006. La Corte d’appello aveva disposto la restituzione di quanto in sequestro al passaggio in giudicato della sentenza. Unici beni in sequestro erano due decreti ingiuntivi, non suscettibili all’evidenza di bonifica alcuna. Che la bonifica fosse avvenuta era del resto dimostrato dalla nota ARPAC del 2/4/2014 che attestava l’assenza di rifiuti nei siti e ciò già prima della sentenza.
Il Tribunale, del resto, in ragione di quanto detto, ne aveva disposto la restituzione.
3.1.7. Con il settimo motivo si censura la violazione degli artt. 62 bis e 132 e 133 cod. pen. Si era negata la concessione delle circostanze attenuanti generiche omettendo sul punto la motivazione doverosa. Già la bonifica dei siti avrebbe imposto la concessione del beneficio invocato.
3.2. Con il secondo ricorso a firma dell’avvocato Preziosi si deduce quanto segue.
3.2.1. Con il primo motivo si lamenta la contraddittorietà della motivazione in ordine alla prova del delitto di cui all’art. 434 comma II cod. pen.
La sentenza impugnata aveva ritenuto il ricorrente colpevole del delitto indicato; riformando in peius la decisione di primo grado. Nonostante il Tribunale fosse addivenuto alla conclusione dell’insussistenza d’una prova sull’evento di danno – che caratterizzava la fattispecie di cui all’art. 434 comma II cod. pen. – versandosi al cospetto di quella afferente il solo pericolo, che integrava la fattispecie di cui al primo comma, la Corte d’appello era stata di avviso contrario. Ciò pur in difetto di una serie di analisi specifiche, di natura tecnica, che potessero documentare, in definitiva, la consistenza dell’inquinamento. Sulla scorta di quanto indicato si era addivenuti alla dichiarazione di prescrizione. Il giudice dell’appello era giunto a conclusioni opposte anche per le società Igemar e Pozzolana Flegrea, in relazione alle quali la mancanza di analisi sui terreni e nelle acque aveva indotto a ritenere non provato l’evento di danno, con conseguente decisione d’assoluzione. Contraddittoriamente sulla scorta di medesimi elementi era giunta a conclusione diversa per i Pellini, valorizzando un percorso di valutazione probatoria di esclusivo spessore logico e criteri di verosimiglianza non immediatamente comprensibili.
Gli stessi atti di appello proposti dal Procuratore Generale e dal Pubblico Ministero davano, contrariamente, conto di una prova ben più solida di inquinamento per i siti gestiti dalla Igemar e dalla Pozzolana Flegrea, rispetto ai siti dei Pellini stessi. Ciò nonostante la Corte territoriale era giunta ad affermazione della penale responsabilità di costoro ed aveva assolto i primi, per difetto di prova dell’evento di danno, in relazione ai siti gestiti dalle due società indicate.
3.2.2. Con il secondo motivo deduce la violazione degli artt. 568, 570, 581, 591 e 597 cod. proc. pen. con conseguente inammissibilità dell’appello che aveva proposto il Procuratore Generale.
Quanto premesso intergava una causa di inammissibilità dell’appello proposto dal P.G. che la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare ex art. 591 cod. proc. pen. Pur avendo affermato di impugnare in relazione al disastro ambientale era evidente che il P.G. non avesse estrinsecato alcuna critica al provvedimento impugnato, in relazione alla posizione dei Pellini ed ai siti da costoro gestiti.
3.2.3. Si lamenta, con il terzo motivo, la violazione del principio di correlazione tra l’imputazione e la sentenza con conseguente violazione degli artt. 516, 521 e 522 cod. proc. pen.
La contestazione del delitto di disastro ambientale era stata formulata con riferimento al versamento delle sostanze analiticamente indicate nell’imputazione. La Corte d’appello si sarebbe dovuta concentrare su di esse, al fine di accertarne la pericolosità e, prima ancora, l’avvenuto versamento sui terreni e nelle acque. La sentenza impugnata, al contrario aveva ritenuto che la condotta si fosse concretizzata nello spargimento del compost, che secondo la consulenza del P.M. era caratterizzato dalla presenza di idrocarburi. Ciò integrava un fatto diverso da quello contestato, in cui non figurava, appunto, il compost. Piuttosto si faceva
riferimento ai rifiuti pericolosi che le aziende dei Pellini ricevevano da intermediari (e non al compost) e che erano autorizzati a produrre. D’altro canto, anche l’attività istruttoria non aveva affatto dimostrato quel particolare, nonostante la sentenza ne avesse dato atto affermando che la consulenza “Auriemma” attestava lo spargimento di quel prodotto ad elevato tasso di idrocarburi. Contrariamente a quanto ritenuto, il consulente non aveva operato alcun tipo di analisi sul compost (ud. 26-6-2009 fl. 79) e si era basato sulle sole analisi compiute dall’ARPAC.
Erroneo era il percorso seguito anche per ritenere che la ditta Pellini producesse un compost non di qualità. A parte l’autorizzazione ordinaria a produrre quel tipo di fertilizzante, anche là dove si fosse inteso che si trattava di “compost fuori specifica”, ciò non significava averne provato la natura di rifiuto pericoloso.
Il teste Auriemma aveva erroneamente riferito sulla presenza di idrocarburi in misura superiore a quella consentita. Si era trattato di un errore nella lettura dei dati derivanti dalle analisi Arpac. Erano stati, invero, analizzati due tipi di compost prodotti in sito Lenza Schiavone, compost fuori specifica e compost in maturazione.
Il primo era considerato pacificamente non pericoloso; il secondo pur essendo pericoloso e pur non essendo incluso nella contestazione, era suscettibile di ulteriore lavorazione e, dunque, di essere reso non pericoloso.
Tra l’altro l’impianto dei Pellini era autorizzato a trattare rifiuti pericolosi.
Quanto alle immissioni di percolato di discarica nei Regi Lagni, la sostanza non era indicata nel capo di imputazione. In ogni caso, il percolato da discarica analizzato dall’Arpac era un rifiuto speciale non pericoloso. Sul punto in sentenza si era compiuto un travisamento. Le riprese video che attestavano lo sversamento erano ricondotte all’impianto di Via Tappia, là dove il percolato veniva prodotto presso l’impianto di via Lenza Schiavone.
Tutti questi elementi dimostravano la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza. Il disastro innominato avrebbe imposto l’indicazione nell’imputazione delle modalità e delle sostanze con cui esso era stato cagionato.
La circostanza che nel giudizio di primo grado si fosse discusso del compostaggio non valeva a ridurre il vulnus al diritto di difesa. Ciò perché il confronto era avvenuto su quel punto in relazione ad altre imputazioni (E, F, G) e non a quella di disastro ambientale.
Il P.M. avrebbe dovuto modificare l’imputazione, cosa che in realtà non era avvenuta, con la conseguenza che risultava la violazione del principio indicato.
3.2.4. Con il quarto motivo si deduce il vizio di motivazione in relazione al principio del giusto processo sulla intervenuta condanna per il disastro ambientale. Si era, infatti, ribaltato il verdetto di primo grado, senza procedere alla rinnovazione istruttoria e, in violazione det principio fissato dalla decisione CEDU 5/7 /2011 (Dan contro Moldavia).
La stessa Corte di legittimità aveva fissato il principio che, allorquando la modifica in peius della decisione di primo grado si fondava sulla diversa valutazione della prova dichiarativa, si dovesse procedere ad una rinnovazione dell’assunzione della fonte, adempimento non necessario solo se la diversa valutazione afferiva il riscontro sulla prova dichiarativa stessa.
Nella specie sussisteva un obbligo di motivazione rafforzata obbligo che era stato disatteso. In particolare non si era spiegato perché e sulla scorta di quali elementi si fosse inteso ribaltar~ il verdetto assolutorio di primo grado sul delitto di cui all’art. 434 comma II cod. pen. La motivazione risultava apparente. Il giudice d’appello si era limitato a richiamare sia la decisione del primo giudice, sia quella della Corte di cassazione, resa in ambito cautelare.
Né la Corte territoriale aveva spiegato con motivazione appagante la ragione per la quale non avesse inteso disporre una perizia come richiesto anche dal P.G.
3.2.5. Con il quinto motivo si deduce la violazione dell’art. 6 par. 1 CEDU e degli artt. 111 e 117 Cost., oltre che dell’art. 603 cod. proc. pen. per mancata rinnovazione del dibattimento. Pur non avendo mutato la Corte territoriale la valutazione di attendibilità intrinseca dei testimoni essa avrebbe dovuto procedere alla rinnovazione dell’audizione dei testi stessi. Ciò perché si era modificato il giudizio sull’idoneità delle rispettive dichiarazioni a provare quel determinato fatto. Non si sarebbe, pertanto, secondo il ricorrente, potuta assumere una conclusione diversa, senza escutere nuovamente la fonte. La nuova escussione si imponeva anche per stabilire se le dichiarazioni fossero idonee a dimostrare la realizzazione dell’evento del ritenuto reato di disastro ambientale.
La censura riguarda, dunque, la mancata rinnovazione del dibattimento, in ordine a quelle prove che in primo grado erano state ritenute inidonee ad affermare la penale responsabilità.
3.2.6. Con il sesto motivo si censura la violazione dell’art. 434 cod. pen.. La Corte territoriale aveva ribaltato la prima decisione e non si era posta neppure il problema di accertare l’esistenza non solo di un evento di danno, ma anche di pericolo con il procedimento della cd. prognosi postuma.
3.2. 7. Con il settimo motivo si evidenzia l’intervento di ius superveniens ad opera della legge 68 del 22 maggio 2015, con conseguente inapplicabilità sopravvenuta dell’art. 434 cod. pen.. La novella escludeva l’applicabilità dell’art 434 cod. pen. alle fattispecie in esame. Era stato, infatti, introdotto il delitto di inquinamento ambientale di cui all’art. 452 bis cod. pen. (che risultava punito con pena maggiore di quella del disastro innominato ex art. 434 cod. pen.).
Per effetto della riforma l’alternativa era quella di considerare che nel sistema, continuasse a vivere un’ipotesi di disastro ambientale minore, coniata dalla giurisprudenza e riconducibile all’art. 434 cod. pen., nei casi di inapplicabilità delle fattispecie di cui all’art. 452 quater o 452 bis cod. pen. ovvero che la novella avesse posto fine all’applicazione dell’art. 434 cod. pen. nei termini elaborati dalla giurisprudenza. Questa sarebbe stata la soluzione preferibile con la conseguenza che l’art. 434 cod. pen. non avrebbe trovato legittima applicazione neppure nella fattispecie in esame.
3.2.8. Con l’ottavo motivo si censura la violazione dell’art. 597 cod. proc. pen., nonché dell’art. 185 cod. pen. e degli artt. 40, 41 e 434 comma II c.p. in relazione al disposto risarcimento del danno.
Il Tribunale di Napoli aveva deciso in ordine alla richiesta delle diverse parti civili costituite. Essendo intervenuta prescrizione del delitto di disastro ambientale non si sarebbe, contrariamente, potuto statuire sulle domande di risarcimento. Ancora, la mancanza di prova sul nesso eziologico tra disastro e decesso del gregge, addotto come evento di danno per le parti civili, escludeva che si potesse accogliere la specifica domanda di risarcimento articolata dai Cannavacciuolo. Costoro (Mario e Vincenzo Cannavacciuolo) avevano impugnato la decisione e la Corte d’appello, nonostante l’impugnazione afferisse solo le due indicate parti civili, aveva deciso di disporre il risarcimento nei confronti di tutti. Le altre parti civili avrebbero avuto onere di proporre impugnazione autonoma, per evitare che la sentenza passasse in giudicato in ordine alle statuizioni civili.
Non si era affatto tenuto conto della deposizione del consulente Sabato Castaldo che aveva individuato le possibili cause della morte degli ovini; v’era in questa prospettiva anche una nota della Asi e non era stata spesa una motivazione adeguata a confutazione degli elementi segnalati.
3.3. Nell’interesse di Giovanni Pellini in data 27 aprile 2017 è stata depositata memoria difensiva a firma dell’avvocato Preziosi.
Si riprendono in sostanza i temi già trattati ai punti 4 e 5 dei motivi di ricorso relativi alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. In particolare era stata ribaltata la sentenza di primo grado che aveva dichiarato l’estinzione del reato ritenuta la fattispecie di cui all’art. 434 comma 1 cod. pen. ed era stata affermata la penale responsabilità per il fatto di cui all’art. 434 comma II cod. pen.
Si ribadisce che, da un lato, si censurava il vizio di motivazione per non aver la Corte d’appello adeguatamente motivato sulla scelta di non rinnovare l’istruttoria dibattimentale e dall’altro si era censurata la violazione di legge e in particolare dell’art. 603 comma III cod. proc. pen.
Risultavano violati i principi della sentenza CEDU 5/7/2011 Dan contro Moldavia e l’art. 6 par 1 della Convenzione. Il giudizio di appello, infatti, senza attività istruttoria aveva ribaltato sulla scorta di una diversa lettura quello di primo grado.
Pur non essendosi mossa la decisione impugnata sulla valutazione di attendibilità intrinseca dei testimoni si sarebbe dovuto, comunque, prendere atto che le S.U di questa Corte (28 aprile 2016 n. 27620) avevano imposto al giudice che la rinnovazione avesse ad oggetto prove decisive consistenti in dichiarazioni che inizialmente erano state poste a fondamento della assoluzione. Il tema rilevante, dunque, non coincideva con la sola attendibilità del dichiarante, ma con la decisività della sua deposizione. Una valutazione delle dichiarazioni in termini antitetici rispetto a quelli già operati in primo grado avrebbe imposto la rinnovazione.
Nel caso oggetto d’esame ciò si sarebbe imposto per il consulente Auriemma e per il teste Ciro Luongo.
3.4. Memoria difensiva ulteriore è stata depositata in data 10-5-2017 nell’interesse di Giovanni Pellini a firma anche dell’avvocato Giovanni Riccardi.
Si riprendono i motivi già esposti e si sottolinea l’illogicità del ragionamento osservando che la Corte d’appello era giunta all’assoluzione dei responsabili della Pozzolana Flegrea ed aveva raggiunto conclusione diversa per i fratelli Pellini. A seguito di incalzanti richieste nell’interesse del Lubrano erano stati oggetto di revisione e conseguente modifica da parte dell’Arpac i dati relativi ai rifiuti analizzati, prima classificati come nocivi e tossici e dei quali era stata, poi, riconosciuta la non pericolosità. Così il Lubrano, titolare della Pozzolana Flegrea era stato assolto. Era emerso, tuttavia, che l’Arpac non aveva provveduto alla rivisitazione di tutti i rapporti di prova, ivi compresi quelli afferenti i Pellini. La difesa, dunque, aveva avanzato il 29-2-2016 istanza di correzione dei rapporti di prova, lamentando arbitrarie classificazioni ed errori inficianti i rapporti medesimi.
Nel febbraio del 2017 era pervenuto un preavviso di diniego ex art 10 bis L. 241/1990 poiché in sostanza gli atti non erano disponibili pendendo il giudizio presso questa Suprema Corte. Ciò attestava secondo il ricorrente la fondatezza della doglianza relativa alla errata valutazione e motivazione sulla mancata correzione dei rapporti di prova.
4. Ricorre per cassazione Pellini Salvatore, a mezzo del difensore, avvocato Marco Bassetta, e deduce quanto segue.
4.1. Con il primo motivo lamenta il ricorrente la violazione dell’art. 434 comma 2 cod. pen. e la nullità della sentenza.
La norma distingue le due ipotesi di cui al primo e al secondo comma. Si tratta di una fattispecie di pericolo, per il delitto di cui al comma 1 e di danno per il comma 2. La condanna di Salvatore Pellini era intervenuta valorizzando la prova logica fondata su criteri di verosimiglianza, là dove sarebbe stato necessario disporre accertamenti che documentassero l’evento di danno che caratterizzava l’ipotesi aggravata. Esso doveva essere provato secondo criteri rigorosi.
4.2. Con il secondo motivo si censura la nullità della sentenza per mancanza di motivazione.
La sentenza constava di trenta pagine di motivazione effettiva e di sole tre pagine dedicate alla esposizione delle ragioni a fondamento della decisione che aveva ritenuto sussistente il disastro ambientale, oltre che di quattro riservate alle specifiche posizioni degli imputati Pellini.
Si era, poi, valorizzata la decisione cautelare assunta dalla Corte di cassazione senza considerare i risultati dell’istruttoria dibattimentale e le conclusioni cui era pervenuta la sentenza di primo grado.
Ciò attestava come la decisione di secondo grado non si fosse confrontata con motivi d’appello e come la motivazione fosse apparente.
4.3. Con il terzo motivo si denuncia il vizio di motivazione e l’illogicità della decisione, per travisamento di atti processuali in relazione allo sversamento di rifiuti pericolosi nei Lagni.
Si era in particolare richiamata nella motivazione la deposizione del teste Luongo che aveva fatto riferimento allo sversamento del percolato. Non si era, tuttavia, tenuto presente quanto indicato dal Tribunale di primo grado e non si era ottemperato all’obbligo di motivazione rafforzata cui era tenuta la Corte territoriale. Era coerente, piuttosto, il ragionamento seguito dal giudice di primo grado che aveva richiamato le riprese operate dall’elicottero che attestavano le immissioni nei Lagni stessi, senza, tuttavia, aver dato conto della provenienza di esse e della conduttura da cui risultavano immesse. Del resto, era ininfluente il dato relativo al colore delle immissioni poiché non erano state effettuate analisi sul contenuto degli scarichi.
Anche i risultati delle analisi eseguite dall’Arpac davano conto della conformità di essi ai parametri di legge.
La stessa ripresa citata non permetteva di attribuire lo scarico a quello proveniente dal depuratore dei Pellini. Si era, durante, l’istruttoria documentato che vi fossero due condotte di immissione, l’una proveniente dall’impianto degli imputati e l’altra sconosciuta. In quella località esistevano altri impianti che non erano riconducibili agli imputati e su cui aveva riferito anche il teste Rusciano (all’udienza del 23-4-2010).
Il percolato da discarica, ancora, era un rifiuto non pericoloso e risultava, pertanto, inidoneo a provocare un disastro ambientale.
4.4. Con il quarto motivo si censura la nullità della sentenza per vizio di motivazione relativamente allo sversamento dei rifiuti pericolosi sui terreni agricoli.
Si era partiti dalla produzione di compost in Contrada Lenza Schiavone. Si era ritenuto, in definitiva, che venissero diffusi sui terreni rifiuti contrabbandati per compost. Al tema la difesa aveva dedicato motivi d’appello specifici. Nella specie non risultava esaminato né il suolo ove si affermava essere stato diffuso il compost né erano stati eseguiti accertamenti o analisi sul compost stesso, come prodotto finale ceduto alla Agricompost per il successivo impiego in agricoltura. Nell’appello si era evidenziato come le analisi avessero riguardato un prodotto diverso dal compost e, cioè, un rifiuto ancora in lavorazione all’interno di un impianto a ciò espressamente autorizzato; non si trattava, pertanto, di un prodotto finito.
Anche il riferimento alla diossina non trovava supporto negli atti processuali. La diossina non era mai stata rilevata all’esito delle analisi e ciò aveva indotto il Tribunale a rigettare la domanda delle parti civili Cannavacciuolo, in relazione alle cui richieste si riteneva non provato il nesso causale tra disastro ed evento di danno (morte del gregge).
4.5. Con il quinto motivo si lamenta la nullità della decisione per mancanza di motivazione relativamente al concorso dell’imputato nel delitto di cui all’art. 434 cod. pen.
Pellini Salvatore era totalmente estraneo all’attività lavorativa dei fratelli Giovanni e Cuono. Pertanto, censura la conclusione secondo cui egli sarebbe stato gestore di fatto e richiama l’art. 2639 c.c. norma secondo la quale è tale colui che, di fatto, in modo continuativo e significativo esercita i poteri inerenti la funzione. Nella specie facevano difetto tutti gli elementi che avrebbero permesso di dedurre la gestione e la qualità di socio di fatto. Nessun elemento in fatto aveva convalidato la tesi del coinvolgimento del ricorrente nell’attività della società; costui era stato coinvolto nelle attività di indagine solo perché omonimo del capo meccanico della Pellini s.r.l.
Del resto, si era annotato nell’atto di appello che le intercettazioni telefoniche tra il ricorrente e i fratelli, in ben cinque mesi di captazione, fossero solo 14. Ciò documentava che il Pellini Salvatore non avesse posto in essere alcuna attività di gestione della società. Non vi erano telefonate che afferissero la gestione di rifiuti, né conversazioni che potessero dare conto di attività connesse all’associazione per delinquere.
La contraddizione logica della sentenza impugnata era, dunque, evidente. Mentre si era ritenuto che non vi fosse prova della gestione dell’attività collegata al trattamento dei rifiuti da parte del Pellini Salvatore, dall’altro, si era affermato che costui per la sua posizione “pubblica”, trattandosi di un appartenente all’Arma dei carabinieri, avrebbe contribuito con modalità meno visibili, ma egualmente incisive, a gestire in posizione apicale gli aspetti burocratici di tale attività. La Corte aveva ritenuto che la prova si ricavasse dalle telefonate e dalle conversazioni sui cui contenuti, tuttavia, essa non si era soffermata. Dai testi dei colloqui contrariamente a quanto ritenuto emergeva che il ricorrete non fosse al corrente di quanto stava facendo il fratello Cuono e ignorava se quel giorno fossero stati concimati terreni con compost prodotto nell’azienda; si interessava, piuttosto, al problema della fresatura solo per il cattivo odore e per il rispetto dell’ordinanza sindacale emessa; si trattava di un intervento estraneo alla gestione della società. La stessa decisione impugnata non aveva spiegato in cosa si fosse concretizzata la gestione burocratica che integrava il concorso nel delitto.
La Corte aveva omesso di confrontarsi con le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. In questa cornice non aveva considerato né quelle rese dal Nocera Pietro, né quelle rese da Gerardi Antonio. Entrambi nulla avevano riferito sui Pellini. Solo il primo aveva fatto alcuni riferimenti a tali Perrini come soggetti che avevano contatto con Buttane Bruno.
Egualmente, Aveta e Cuccaro, legati ai Belforte e Cantone Francesco, vicino ai casalesi, mai avevano fatto riferimento ai Pellini.
Lo stesso Frongillo Michele, che aveva operato riferimenti ai Pellini, aveva confuso Giovanni con Salvatore.
Vassallo Gaetano non aveva operato riferimenti e il Di Fiore Pasquale dimostrava di conoscere solo Giovanni Pellini, al pari di Di Giovanni Pasquale.
Il Laiso non aveva conoscenze e non era stato in grado di riferire alcunché.
4.6. Con il sesto motivo si lamenta la violazione dell’art. 110 cod. pen. in relazione all’art. 434 cod. pen.
La fattispecie concorsuale era stata ritenuta in difetto del contributo causale e psicologico ai fatti e attraverso la valorizzazione di una sentenza emessa dalla Corte di cassazione in fase cautelare utilizzata in maniera non conforme al disposto dell’art 238 bis cod. proc. pen. Si era giunti a ritenere il fatto attraverso la prova logica che contrariamente non risultava applicabile per l’accertamento del delitto di cui all’art. 434 cod. pen.
4.7. Con il settimo motivo si lamenta la violazione dell’art. 416 cod. pen. e 129 cod. proc. pen. La Corte territoriale si era limitata a confermare la statuizione di primo grado che aveva dichiarato colpevole l’imputato per il delitto di cui all’art. 416 cod. pen. senza dare conto delle critiche rivolte con l’impugnazione e senza, soprattutto, esaminare gli elementi che in fatto potessero dare supporto alla struttura associativa ritenuta. Era, dunque, giunta alla dichiarazione di prescrizione del delitto attraverso una semplificazione, così confermando le statuizioni civili.
4.8. Con l’ottavo motivo si deduce la mancanza di motivazione circa la negazione delle circostanze attenuanti generiche, tema su cui la corte non aveva risposto agli argomenti impiegati per invocarne l’applicazione.
4.9. Con il nono motivo si lamenta la violazione dell’art. 133 cod. pen. in relazione all’inosservanza dei criteri seguiti per la determinazione del trattamento sanzionatorio.
4.10 Con il decimo motivo s invoca l’annullamento della sentenza impugnata in applicazione dell’art. 2 cod. pen. e della entrata in vigore della legge 68/2015 sui cc.dd. ecoreati e non essendosi verificati gli eventi che contraddistinguono le norme in esame da ultimo introdotte (artt. 452 bis e 452 quater cod. pen.) norme più favorevoli e suscettibili di applicazione retroattiva in punto di descrizione della condotta.
5. Con distinto atto di impugnazione ricorre per cassazione Pellini Salvatore a mezzo del difensore di fiducia avvocato Stefano Maranella e deduce quanto segue.
5.1. Con il primo motivo lamenta la violazione degli artt. 416 comma 1 cod. pen. 192 cod. proc. pen. Assume il ricorrente che la Corte territoriale aveva condiviso il ragionamento del Tribunale ed aveva utilizzato il materiale relativo alla fattispecie associativa, per la quale addiveniva a declaratoria di prescrizione, per fondare il ragionamento che induceva la condanna per il delitto di cui all’art. 434 comma II cod. pen. Ciò in riforma della sentenza di primo grado che aveva ritenuto sussistente contrariamente la fattispecie di cui all’art. 434 comma I cod. pen., addivenendo alla declaratoria di prescrizione.
A carico di Salvatore Pellini era stato ritenuto il ruolo di promotore valorizzando le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (Frongillo e Di Fiore) oltre che i risultati delle intercettazioni telefoniche senza dare conto del ruolo effettivo del Pettini stessi dell’elemento soggettivo del reato e del contributo causale al fatto associativo.
Quanto ai risultati delle conversazioni si è annotato che il ricorrente, laureato in legge, si fosse limitato in poche conversazioni ad interloquire con i fratelli Cuono e Giovanni, dando consigli giuridici sulla gestione societaria e non intervenendo sulle vicende legate alle attività in questione ed oggetto di processo. Facevano difetto, infatti, collegamenti o conversazioni con soggetti diversi dai fratelli indicati ed egualmente sottoposti ad indagini per i fatti per cui si procede.
Lamenta il ricorrente l’omessa motivazione in relazione alla conversazione del 4-11-2011 n. 4261 conversazione su cui la difesa aveva offerto ampia spiegazione con cui la Corte d’appello non si era confrontata.
Ancora si duole della mancata risposta agli argomenti difensivi in ordine alla conversazione n. 2367 del 28 novembre 2002, trattandosi di una telefonata che non aveva alcuna connessione con le contestazioni. Anche le conversazioni n. 2877 del 3-12-2002, 6767, 11843 non avevano significato assorbente.
Quanto alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in particolare, pur ammessa la regola della frazionabilità delle dichiarazioni, occorreva sempre un positivo giudizio di attendibilità. Il Frongillo non aveva partecipato ad incontri diretti e aveva appreso de relato; non conosceva i fratelli Pellini (e Salvatore Pettini) e non era stato nella condizione di descrivere gli impianti della azienda.
Tra l’altro .non si era considerato che il Frongillo era stato arrestato nel 2002 ed era stato in detenzione sino al 2006: questo elemento escludeva possibilità cognitive relative a quel periodo.
Né si era considerato che il Frongillo fosse stato ritenuto inattendibile in altri processi come risultava dalle sentenze in atti.
Anche le dichiarazioni del Di Giovanni non offrivano elementi a carico del ricorrente. Costui era stato ritenuto responsabile per la sola appartenenza alla famiglia Pellini. Erano assenti profili individualizzanti di riscontro alle propalazioni e la motivazione oltre a risultare meramente apparente era contraddittoria.
Sarebbe dovuta prevalere l’assoluzione sulla dichiarazione di prescrizione di cui al delitto di cui all’art 416 comma 1 cod. pen.
5.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la mancanza di prova in ordine alla responsabilità del ricorrente. La vicenda processuale aveva avuto un precedente che non aveva visto, tuttavia, indagato il Pellini Salvatore e che si era risolta con il provvedimento di annullamento del sequestro della struttura dei fratelli e con il rigetto del ricorso per cassazione, che aveva interposto il P.M. Si era, dunque, aperto il presente procedimento che aveva visto la contestazione per la prima volta del delitto di disastro ambientale. Lo stesso dibattimento pur a fronte di contestazioni aggravate dall’art. 7 I 203/1991 aveva escluso il collegamento dei fatti con la criminalità organizzata.
Il processo era scaturito da attività di indagine che erano state svolte sul conto di Pellini Giovanni per alcuni collegamenti emersi tra costui e aziende dell’area veneta, al pari sottoposte ad indagine.
All’esito di verifiche investigative, furono svolti accertamenti da parte dell’Arpac della Campania, analisi che attestarono che non vi fosse inquinamento e che avevano indotto la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Nola a chiedere l’archiviazione.
Nella specie, tuttavia, non erano mai state effettuate verifiche sui materiali, né riscontri tecnici su di essi e la prova si era fondata su accertamenti documentali, osservazioni oculari, mere deduzioni e supposizioni.
D’altro canto, alcuna delle imputazioni riguardava il compost che tra l’altro era quello prelevato in una fase non corretta ed anteriormente alla chiusura del ciclo prevista che era di 90 giorni. Non erano stati individuati neppure i 700 enzimi aromatici degli idrocarburi dei quali vi fosse stata individuazione, contesto investigativo che la Procura di Napoli aveva definito con richiesta di archiviazione dopo il dissequestro dell’impianto.
Nonostante in sede di appello lo stesso P.G. avesse chiesto la rinnovazione dell’istruttoria11a Corte d’appello non aveva tenuto conto dell’istanza ed era giunta, pur in difetto di analisi specifiche, alla condanna del ricorrente alla pena di anni sette di reclusione.
5.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione degli artt. 62 bis e 133 cod. pen. e il relativo vizio di motivazione. Le circostanze attenuanti generiche erano state negate senza addurre una motivazione valida e che, soprattutto, desse conto delle ragioni poste a fondamento della decisione. Non si era, del resto, dato conto del corretto comportamento processuale dell’imputato che aveva in dibattimento fornito l’elenco dei rifiuti rimossi in via Tappia e in contrada Lenza Schiavone.
5.4. Con il quarto motivo si deduce il vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’art. 452 decies cod. pen. (ravvedimento operoso) introdotto con la legge 68/2015. Non si era in particolare tenuto conto della condizione del Pellini appartenente all’ Arma dei carabinieri e della sua estraneità alla compagine societaria l’imputato unitamente ai fratelli si era adoperato per evitare che il reato fosse portato a conseguenze ultori e, pertanto, aveva diritto alla riduzione di pena indicata dalla norma anzidetta. Sul punto si lamenta anche l’omessa motivazione.
5.2. Nell’interesse di Pellini Salvatore in data 21 aprile 2017 è stata depositata memoria a firma dell’avvocato Stefano Maranella, in cui si insiste nell’accoglimento del ricorso deducendo la nullità della sentenza per violazione del principio del ne bis in idem. All’uopo si richiama la sentenza n. 200 del 31 maggio 2015 della Corte Costituzionale. Il presente giudizio (n. 26007/2006) prendeva le mosse da una reiscrizione di altro procedimento presso la stessa Procura della Repubblica di Napoli (55125/2002). I fatti derivavano da altre iscrizioni presso Procure diverse (Venezia e Viterbo) tra la fine degli anni 90 e l’inizio del 2000 ed avevano visto indagati Cuono e Giovanni Pellini (non Salvatore). Nel procedimento 55125/2002 il 28/3/2003 era stato eseguito un sequestro probatorio poi annullato e su cui la Corte di legittimità il 25/2/2004 aveva rigettato il ricorso della parte pubblica.
Altra iscrizione per i fatti era stata eseguita presso la Procura della Repubblica di Nola e l’esito positivo delle indagini il 19 maggio 2003 aveva indotto il P.M. a richiedere ed ottenere archiviazione.
Era derivata la nuova iscrizione presso al Procura napoletana che aveva valorizzato i fatti recuperandoli al disastro ambientale. Non si era tenuto conto che, dei due siti, quello di Lenza Schiavone era utilizzato come discarica pubblica dal Commissario governativo per la gestione rifiuti nella regione Campania. L’azione penale era stata esercita nei confronti di Pellini Cuono, dalla Procura di Nola e, all’esito dei giudizi di merito, la Corte di cassazione con sentenza 19-12-2011 aveva annullato con rinvio la decisione di condanna, annullamento all’esito del quale la Corte distrettuale investita del giudizio aveva prosciolto l’imputato. Si era ciò nonostante proseguito il giudizio attraverso la riqualificazione sub specie di disastro ambientale.
5.2.1. Nell’interesse di Pellini Salvatore in data 21 aprile 2017 sono stati depositati motivi aggiunti a firma dell’avvocato Marco Bassetta.
Si lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 6 CEDU.
In particolare si sarebbe dovuto rinnovare l’esame del teste Luongo Ciro che aveva riferito che lo scarico nei Regi Lagni aveva dedotto provenisse dal sito dei Pellini per il colore di esso che era uguale a quello contenuto nella vaca del suddetto impianto. La Corte avrebbe avuto obbligo di rinnovare l’esame del dichiarante al fine di permettere soprattutto alle difese di interrogare il teste stesso e di chiarire alla medesima Corte che il percolato di discarica era rifiuto non pericoloso inidoneo a provocare trasformazioni rilevanti per l’ambiente.
OSSERVA IN DIRITTO
1. I ricorsi contengono doglianze in parte comuni che impongono esame trattazione congiunta.
In questa prospettiva si enucleano le questioni afferenti:
a) i rapporti tra l’art. 434 cod. pen. e i delitti di cui al Libro Il titolo VI bis introdotti ex lege 22 maggio 2015, n. 68;
b) l’omessa rinnovazione del dibattimento in fase di appello; l’assunta violazione della C.E.D.U. per effetto della condanna pronunciata su impugnazione della Pubblica Accusa, senza procedere al nuovo esame dei testi ritenuti decisivi;
e) la violazione dei criteri di prova in relazione alla ritenuta sussistenza della fattispecie aggravata di cui all’art. 434 comma 2 cod. pen.
d) la violazione del principio di correlazione tra accusa e decisione.
a) Il rapporto tra fattispecie penali in “successione” (art 434 cod. pen. e 452 bis e ss. cod. pen.) e i temi connessi alla validità e all’applicabilità ratione temporis delle singole disposizioni in funzione della individuazione della norma regolatrice.
La questione – cui si sono dedicati, sia pur con talune sfumature diverse – tutti i ricorrenti va trattata, in via preliminare, per motivi sistematici e d’ordine logico.
Le critiche e le argomentazioni sviluppate condividono un nucleo centrale sul rapporto tra fattispecie e sul fenomeno successorio, rispetto al quale si giunge anche ad adombrare l’ipotesi di una sostanziale abolitio criminis dell’art. 434 comma 2 cod. pen., in relazione al disastro ambientale, per effetto della novella di cui alla legge 22 maggio 2015, n. 68, con conseguente indifferenza dell’ordinamento penale rispetto ai fatti in esame, commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore e con relativa sussunzione della vicenda successoria nello statuto di disciplina della cd. abrogazione della precedente incriminazione.
a.1.) I fenomeni di grave inquinamento ambientale sono stati tradizionalmente affrontati in giurisprudenza, recuperandoli all’ambito di applicabilità dell’art. 434 cod. pen. e facendo ricorso alla disposizione, in particolare, del disastro cd. innominato. Valorizzando la portata “inespressa” della norma regolatrice, la sua collocazione sistematica (tra i delitti contro la pubblica incolumità) e il contenuto lessicale del concetto descrittivo di “disastro” si è apprestata, attraverso la sua applicazione, tutela anche al “paesaggio” (e, dunque, all’ambiente), bene giuridico- materiale oggetto di presidio costituzionale (art. 9 Cost.).
L’art. 434 cod. pen., norma di chiusura e residuale, ha generalmente presentato più d’un aspetto problematico nel regime della sua applicazione.
Il modello legale, in sintesi estrema, ha permesso di delimitarne il piano operativo, innanzitutto, nei casi in cui non ricorresse alcuno dei disastri nominati.
Un primo requisito di tipicità è stato enucleato proprio “in negativo” valorizzando il contenuto del disastro ed enucleando, tra gli “eventi”, quelli che non sarebbero rientrati nell’ambito di tutela della disposizione, in quanto già recuperati alla tipicità penale dalle norme che precedevano l’incriminazione. L’insolita tecnica normativa, che incentrava sul concetto di alterità del disastro, la connotazione dell’ambito di obiettivizzazione della condotta, ha indubbiamente stimolato il fronte delle critiche, sul piano del rigore descrittivo e della tassatività.
In realtà la lamentata mancanza di una puntuale descrizione normativa del fatto è stata esclusa (Corte Costituzionale, con la sentenza n. 327 del 2008) proprio in ragione del rinvio alla nozione di “disastro” desumibile dalle analoghe disposizioni incriminatrici, che caratterizzano il titolo VI del Libro II del codice penale, categoria idonea ad essere recuperata a unità concettuale e di cui l’art. 434 cod. pen. costituisce norma di chiusura. Un recupero di tipicità, dunque, che ha essenzialmente ritratto il suo fondamento dalla definizione unitaria e allargata del concetto penalistico di “disastro”, entro cui si è inscritto quello ambientale. Esso risultava, invero, connotato dalla specificità tipologica del bene aggredito e delle caratteristiche lesive e si coordinava e inseriva nel paradigma legale di quello incriminato come “altro disastro doloso”, anche assurto nel linguaggio applicativo ad una definizione tipizzante, attraverso il ricorso all’attributo di innominato.
In questa logica, dunque, la delimitazione delle coordinate strutturali del nucleo essenziale di tipicità è stata individuata proprio nel carattere “dimensionale” e “offensivo” del fatto. Occorreva, cioè, un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi (o un atto diretto a … ). Ancora si sarebbe dovuto realizzare un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, senza che, peraltro, fosse richiesta l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti.
Al delitto – rivolto a proteggere la pubblica incolumità, considerata nel suo complesso, e non l’integrità fisica del singolo individuo – è stata ascritta la forma tipica del reato di pericolo, nel suo primo comma. Ai sensi del secondo comma dello stesso art. 434 cod. pen. la verificazione del disastro determina un aggravamento di pena (sull’art. 434 comma 2 cod. pen., Cass. 17/5/2006 ha ritenuto la struttura di una aggravante; non sono mancate voci nel pensiero scientifico che hanno contrariamente optato per la tesi del delitto aggravato dall’evento; recentemente, anche Cass. Sez I, del 23/2/2015, n. 7941 ha affermato trattarsi di un delitto
aggravato dall’evento, assumendo che la consumazione del fatto si realizza nel momento in cui si verifica il disastro e, cioè, allorquando l’immutatio foci di straordinaria portata degenerativa dell’habitat naturale risulta essersi realizzata).
La giurisprudenza ha ritenuto configurabile il delitto di cui all’art. 434 cod. pen. anche con riferimento a casi di inquinamento e contaminazione progressivi e talvolta lungo-latenti, non caratterizzati dalla sussistenza di un evento di forte impatto traumatico sulla realtà, né innescati da una causa di tipo violento (Cass., Sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Rv. 235669).
Si è, ancora, osservato che, per la configurazione del disastro ambientale, “è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente un numero indeterminato di persone” (Cass., Sez. V, sent. n. 40330 del 2006) e si è giunti ad isolare alcuni requisiti che caratterizzano la nozione di disastro specificamente nella potenza espansiva del nocumento stesso e nell’attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità (Cass. Sez. III, sent. n. 9418 del 2008).
a.2). Il legislatore con l’inserimento nel Libro II del codice penale del Titolo VI bis,”dei delitti contro l’ambiente” ha, tra l’altro, introdotto la fattispecie di cui all’art. 452 quater cod. pen. con cui ha riscritto il modello del disastro ambientale.
La fattispecie è costruita come reato di evento e non di pericolo (almeno nei modelli di incriminazione descrittivi di cui al comma 2 nn. 1 e 2). E’ caratterizzata da un incremento sanzionatorio (punisce, con una pena da 5 a 15 anni di reclusione, rispetto ai 3 anni di pena minima e ai 12 di massima dell’art. 434 c.p.) e dalla condotta di colui che abusivamente cagioni uno dei tre distinti macro-eventi di disastro ambientale, cui si riferisce la tutela penale. Il primo consiste in una alterazione dell’equilibrio dell’ecosistema di carattere «irreversibile» (n. 1); il secondo in un evento «la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali» (n. 2). Il terzo incrimina, infine, come macroevento: “l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”.
La natura della figura di cui al n. 3 non è di agevole definizione. Limitandosi ad una verifica formale potrebbe essere ricondotta, piuttosto, che al delitto con evento di danno in senso stretto, all’ipotesi dell’incriminazione del fatto di pericolo concreto. Ciò almeno nella ipotesi in cui sia l’indicatore alternativo del numero di persone esposte a pericolo a dare conto della lesione/offesa all’incolumità pubblica, lesione da intendere non solo come distruzione del bene protetto, ma come concreta esposizione di esso al pericolo della sua verificazione.
La costruzione della fattispecie come causalmente orientata, secondo il modello descrittivo base di cui all’art. 452 quater comma 1 cod. pen. e l’intendimento dell’offesa alla pubblica incolumità come evento giuridico potrebbero anche essere di conforto in questa lettura della disposizione.
Si tratta, tuttavia, di un tema marginale, in definitiva, ai fini che qui interessano e che non appare utile approfondire non risultando rilevante in funzione di alcuna delle questioni prospettate.
Piuttosto, l’incriminazione in esame è sussidiaria ai casi di «compromissione e deterioramento significativi e misurabili» dell’ecosistema (“inquinamento ambientale” ex art. 452 bis c.p.).
Non interessa qui trattenersi sui criteri distintivi tra le due ipotesi di alterazione dell’ecosistema, di cui ai nn. 1) e 2) del nuovo art. 452 quater c.p., né su quelli che potrebbero segnare il distinguo concettuale tra l’alterazione non irreversibile dell’ecosistema, di cui al n. 2) cit. e la mera compromissione, che dà luogo all’ipotesi delittuosa di inquinamento ex art. 452 bis c.p. In questa logica dovrebbe essere centrale l’interpretazione dei riferimenti alla “particolare onerosità” e alla “eccezionalità dei provvedimenti” necessari per l’eliminazione del danno.
Ciò che va, piuttosto, analizzato è l’assetto dei rapporti che intercorrono tra le figure delittuose, in ragione, in particolare, di una riflessione sulla clausola di riserva che il legislatore ha ritenuto di inserire nella descrizione della condotta tipica del nuovo disastro ambientale («fuori dai casi previsti dall’art. 434» ).
a.3). Lo scopo, in generale delle clausole di riserva è quello di delimitare i rapporti tra le due figure criminis e, soprattutto, nel caso di specie e nei limiti del possibile, di garantire le sorti dei processi già avviati con l’accusa di disastro innominato ex art. 434 cod. pen. Gli stessi lavori preparatori della riforma ne danno, d’altro canto, conto.
Si deve osservare che difficilmente si sarebbe potuto ritenere, in ragione della formulazione delle norme e dei rapporti tra le fattispecie, alla luce di quanto aveva avuto modo di definire la giurisprudenza nella applicazione dell’art. 434 cod. pen., che il nuovo art. 452 quater cod. pen. avesse abrogato la precedente incriminazione sottraendo all’area di rilevanza penale il “precedente” disastro ambientale, punibile ai sensi dell’art. 434 cod. pen. Già per ciò solo si sarebbe esclusa la possibilità di un recupero dello statuto normativo della cd. nuova incriminazione in materia di successione di leggi penali del tempo, così optando per l’applicazione dell’art. 2 comma 1 cod. pen.
Né, e per altro verso, si sarebbe potuta prospettare la possibilità di applicare la nuova fattispecie, ai fatti precedentemente commessi, perché figura normativa più grave sul piano del trattamento sanzionatorio del disastro cd. innominato ex art. 434 cod. pen. Una lettura diversa avrebbe, infatti, determinato l’applicazione retroattiva – anche, cioè, ai processi in corso – con violazione dei principi generali in tema di successione di norme penali nel tempo, fissati dall’art. 2 cod. pen..
Già queste premesse inducono la constatazione che, alla luce della presenza della clausola di riserva, il tema dei rapporti tra fattispecie sia stato risolto in radice dal Legislatore escludendo interferenze tra le incriminazioni o problemi di successione in senso stretto.
L’esatta delimitazione della portata operativa della clausola in questione non è certo di semplice definizione in ogni suo aspetto. Tuttavia, sembra chiaro che essa non instilli dubbi, almeno sul piano della successione temporale tra norme, avendo chiarito secondo la voluntas legis che non si sia inteso abdicare alla tutela penale in materia di ambiente (specie in relazione ai giudizi in corso) e non si siano sottratte affatto all’intervento penale le condotte di disastro che la giurisprudenza aveva già enucleato in quelle caratteristiche di tipicità strutturale, rilevanti ai fini dell’incriminazione di cui all’art. 434 cod. pen.. Non si tratta, pertanto, di una ipotesi cd. nuova incriminazione, d’un fatto prima non previsto dalla legge come reato, poiché il disastro ambientale, sia pur nel paradigma cd. innominato era già direttamente punito dall’art. 434 cod. pen. in funzione della tutela apprestata costituzionalmente al bene giuridico-materiale di presidio superprimario. Si è, piuttosto, al cospetto di un trattamento penale modificativo, in cui il fatto lesivo permane nel suo nucleo essenziale e centrale di disvalore – che il legislatore ha rinnovato – e che risulta descritto, in maggiore aderenza al principio di tassatività, attraverso l’aggiunta di elementi ulteriori, con funzione e connotati specializzanti. Si tratta di elementi che non immutano, tuttavia, la portata offensiva della condotta e la lesione che la caratterizza nella sua dimensione ontologica e che, piuttosto, operano sul piano della tecnica normativa descrittiva dell’incriminazione e dei criteri da seguire nella strutturazione della fattispecie, in funzione della delimitazione del suo contenuto di tipicità. Non è un caso che la “normativizzazione” della definizione del disastro ambientale sia passata attraverso le letture che la stessa giurisprudenza aveva già in passato avuto modo di operare di quel concetto lesivo, ritraendole dalle categorie omologhe, sia pur di ambiti diversi, cui il disastro innominato stesso si era rifatto, per “ritagliarsi”, nella dimensione legale, un margine di tipicità adeguato (evocando appunto e come detto il concetto di alterità che figura nell’art. 434 cod. pen.).
Del resto, i criteri generalmente utilizzati per definire i rapporti tra l’abrogazione della precedente incriminazione, l’introduzione di una nuova fattispecie e la definizione d’un trattamento penale di mera modifica sono essenzialmente riconducibili al principio di continuità del tipo di illecito, alla regola di continenza tra fattispecie e a quello dei rapporti strutturali tra paradigmi normativi, alla luce delle rispettive collocazioni sistematiche.
In ciascuno di essi si suole generalmente impiegare, ora con funzione d’integrazione, ora di pura delimitazione, il principio di specialità (art 15 cod. pen.) regola cardine che governa la più ampia fenomenologia del concorso di norme e non la specifica materia della successione delle disposizioni penali nel tempo, rimessa allo statuto dell’art. 2 cod. pen. Ciascuna delle impostazioni enucleate, sia pur con i pregi che include, contiene nodi di criticità.
La teoria della continuità dell’illecito isolatamente applicata, incentrandosi sul solo bene giuridico e sulle modalità d’offesa si rimette a puri criteri di valore, per inferire l’abrogazione o meno a seconda dell’identità e/o della continuità del bene stesso, elemento che, escludendo il fenomeno abolitivo, attesterebbe, appunto, quello d’un trattamento di mera modifica.
Il rapporto di continenza, ancora, postulando che la nuova legge contenga la precedente e introducendo elementi di specialità rispetto alla prima che avrebbe carattere generale, si limita a prevedere un meccanismo di funzionamento per specialità unilaterale, là dove rapporto di continenza può esistere anche allorquando la norma successiva, pur introducendo elementi di specialità su taluni dei temi, assuma, comunque, carattere generale su altri.
Il rapporto strutturale tra fattispecie si conforma, di converso, al trattamento di mera modifica, allorquando la norma successiva, speciale, è abrogata e si espande quella generale con l’introduzione di elementi tali da comprendere la condotta precedente, salve le ipotesi di espressa decriminalizzazione. Infine; si verifica allorquando la nuova norma abroga la precedente a carattere generale e subentra con elementi di specialità, rispetto ai segmenti che mantengono rilevanza penale – in ragione della disposizione introdotta successivamente -.
Vi sarebbe abrogazione, in senso stretto, in tutti i casi in cui l’eterogeneità tra fattispecie esclude la continuità tra figure criminis (art. 2 comma 1 e 2 cod. pen.). Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di spiegare che in tema di successione di leggi penali, perché sia applicabile la regola del terzo comma dell’art. 2 cod. pen., occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge, mentre non sono più punibili i fatti commessi in precedenza e rimasti fuori del perimetro della nuova fattispecie. Tale situazione va verificata in base al criterio di coincidenza strutturale tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo, senza che sia necessario, di regola, fare ricorso ai criteri valutativi del bene tutelato o delle modalità di offesa. L’art. 2 cod. pen., infatti, pone, nei commi che lo costituiscono, una sequenza di regole tra loro collegate in modo che si chiariscono a vicenda: perché operi la regola del terzo comma deve essere esclusa l’applicabilità del primo e del secondo comma. Ne consegue che un fatto è punibile se, astrattamente considerato e sulla base dei criteri enunciati, rientra nell’ambito normativo di disposizioni che si sono succedute nel tempo e, quando ciò accade e nei limiti in cui accade, non opera l’effetto abolitivo della disposizione successiva (Sez. U, sentenza 25887 del 26/03/2003 Ud. (dep. 16/06/2003), Giordano e altri, Rv. 224608).
Questi principi che dettano i criteri generalmente valevoli per la risoluzione del rapporto tra fattispecie, postulano, tuttavia, che il Legislatore non abbia risolto il problema del coordinamento tra norme ab initio e al momento dell’intervento normativo di riforma.
E’, contrariamente, certo nella specie che l’intervento normativo ha inteso esattamente fare salvi i casi di applicazione dell’art. 434 cod. pen. e salvaguardare, dunque, e in primo luogo, i processi in corso, per fatti commessi nel vigore della disposizione indicata, proprio inserendo una espressa clausola di riserva, in ragione della indiscussa applicazione dell’art. 434 cod. pen. Se, poi, la clausola abbia anche l’ulteriore funzione e conseguenza di riservare alla tutela di quella disposizione anzidetta fatti successivamente commessi, rispetto all’entrata in vigore della legge di modifica 22 maggio 2015, n. 68 e che non rientrano nell’ambito di applicabilità dell’art. 452 quater cod. pen., di nuova formulazione, non rileva in questa sede e ai fini dell’odierno decidere, proprio per quanto si è già avuto modo di dire e poiché dovrebbe trattarsi di fatti avvenuti dopo l’entrata in vigore della L. 68 del 2015, eventualità che non riguarda il presente processo.
E’ certo, piuttosto, che, per l’incidenza lessicale della clausola di riserva richiamata e per il tenore dei lavori preparatori, le condotte oggetto di esame si debbano, appunto, esaminare in relazione alla precedente disposizione escludendosi, in ragione del tempus commissi delicti e del quadro legislativo di riferimento, oltre che dell’assenza di un intervento normativo proteso a introdurre un effetto di abrogazione espressa o implicita, con introduzione di una nuova incriminazione, che norma regolatrice della fattispecie debba essere appunto l’art. 434 cod. pen. nella sua formulazione originaria.
Né si ritiene possano mutare le conclusioni nella definizione del rapporto tra l’art.452 bis cod. pen. e l’incriminazione del disastro cd. innominato.
La norma neo-introdotta è in stretto rapporto di collegamento con l’art. 452 quater cod. pen. e si lega alla disposizione anzidetta attraverso un evidente vincolo di progressione lesiva. L’aggressione al bene giuridico e la conseguente tutela apprestata dal legislatore sono in nesso di continuità crescente nel senso che da una lesione di minore portata si passa ad una di consistenza maggiore che recupera la condotta al disastro, là dove l’alterazione assuma i caratteri dell’irreversibilità o della reversibilità, per così dire complessa, per oneri e interventi eccezionali comportamentali in funzione ripristinatoria. Nella descrizione normativa della tipicità
del delitto di cui all’art. 452 bis cod. pen. l’inquinamento ambientale è definito evocando concetti di indubbia valenza sostanziale che si è inteso ancorare ai referenti definitori della misurabilità e della significatività. Si tratta di elementi di specializzazione del risultato-evento (compromissione o deterioramento) che la condotta di inquinamento deve produrre e che, risulta chiaro, nell’espansione dell’offesa al massimo livello, induce le alterazioni irreversibili dell’art. 452 quater cod. pen..
Si intende, pertanto, come il rapporto che lega le due disposizioni poggi su un giudizio di valore che riserva l’intervento con il disastro ambientale ai casi di maggiore gravità, in cui la lesione risulta connotata da tratti di alterazione che producono modifiche irreversibili degli equilibri di sistema e che non permettono all’ambiente di reagire ripristinando lo status quo ante, secondo meccanismi naturali o che potrebbero indurre quel tipo di riduzione in pristino stato solo attraverso interventi etero-indotti eccezionali o di carattere particolarmente oneroso. Si comprende da questa premessa come la clausola di riserva che risulta inserita nell’art. 452 quater cod. pen. finisca per segnare anche l’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 452 bis cod. pen., là dove l’inquinamento si arresti ad una soglia lesiva che non è tale da indurre in senso stretto “disastro ambientale” punito dall’art. 452 quater cod. pen. Già questa premessa impone di ritenere che in via logica sia da escludere che possa prefigurarsi rispetto al disastro cd. innominato la sostituzione nei processi in corso con la fattispecie di cui all’art. 452 bis cod. pen. A ciò deve, tuttavia, aggiungersi che tra le due fattispecie vi è un indubbia diversità strutturale, evocando i fatti- reato nei rispettivi nuclei lesivi figure criminis sensibilmente diverse. L’inquinamento ambientale si caratterizza per una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili delle matrici ambientali, degli ecosistemi o delle biodiversità. Il disastro innominato, specie nella forma aggravata, ha, contrariamente, carattere ben più ampio e meno limitato rispetto all’ambito di applicazione della condotta testé descritta e postula un fatto di proporzioni di ben più ampia gravità, che lo collocano in un grado di lesività ben più marcata al bene protetto. Pur potendo dunque, concettualmente, continuare ad ipotizzarsi l’evocata linea progressiva nell’offesa si tratta di delitti distinti rispetto ai quali, in ragione della diversità strutturale (e pur postulato non estensibile in chiave risolutiva l’effetto della clausola di riserva) non si pone, in concreto, un problema di successione tra norme penali.
Del resto, la norma in esame contempla un fatto di aggressione al bene giuridico diverso nella sua tipicità descrittiva rispetto a quello incriminato dal primo e dal secondo comma dell’art. 434 cod. pen. Ricorre, infatti, nel comma 1 dell’articolo testé indicato un delitto di pericolo che, nella struttura, anticipa la punibilità secondo il modello del fatto tentato e dei fatti di attentato, creando l’insidia per il bene della pubblica incolumità. Nel secondo comma, la norma incrimina, si è detto, l’evento aggravatore della verificazione del disastro stesso. E’, tuttavia, la stessa definizione di disastro, ritratta dalle elaborazioni giurisprudenziali, a guidare l’interpretazione e a escludere che si possa recuperare al concetto di identità e continuità normativa i due delitti. I fatti, come anticipato, risultano diversi, né vi sono margini per ritenere che il criterio di specialità possa intervenire a risolvere ipotizzati problemi di coordinamento normativo nel fenomeno successorio, che al contrario vanno ritenuti non esistenti.
Emerge, infatti, dalla decisione impugnata, come si sia ritenuto integrato il disastro e come si sia recuperato il fatto stesso, per la sua descrizione e la sua portata probatoria, alla diversa fattispecie di cui all’art. 434 comma II cod. pen..
Né giova ricorrere al piano processuale della prova e ai nessi di interferenza indiscutibili che in materia siffatta possano ritrarsi tra diritto processuale e sostanziale, evocando che la prova raggiunta per il delitto in esame condurrebbe piuttosto ad una ipotesi di cui all’art. 452 bis cod. pen. non applicabile, perché più grave di quella di cui all’art. 434 cod. pen. comma 1, là dove si sarebbe dovuta escludere l’ipotesi contraria e ritenuta dalla Corte d’appello, relativa alla fattispecie di cui al comma 2 dell’art. 434 cod. pen.
La Corte territoriale ha spiegato, nella specifica vicenda, la ragione per la quale ha ritenuto esistente l’ipotesi del disastro come fatto di evento e ha conformato la portata lesiva del risultato prodotto attraverso un ragionamento logico che resta insindacabile in questa sede di legittimità, avendo evocato i referenti di scrutinio di esso e non risultando la decisione, né contraddittoria né manifestamente illogica.
La Corte territoriale, infatti, richiamando anche i dati elaborati nella decisione di primo grado e l’entità dei rifiuti gestiti presso i siti, oltre all’imponenza della quantità di essi ha ritenuto integrato il fatto di verificazione del disastro ambientale. La prova articolata, secondo un costrutto logico, ha tenuto conto non solo dei risultati delle verifiche presso i siti stessi, ma anche e soprattutto dell’entità delle false fatture annotate in contabilità, per schermare operazioni effettivamente non esistenti per come annotate e non contabilizzabili nella effettiva consistenza, operazioni che, per il solo anno 2004, erano pari a circa 3 milioni di euro. La intervenuta dichiarazione di prescrizione non esclude, infatti, che si potesse valutare e rielaborare quel dato in funzione della “quantificazione” dell’entità dei rifiuti trattati illecitamente e dedurre attraverso l’inferenza logica le dimensioni del fenomeno inquinante posto in essere, attraverso lo smaltimento e l’illecita gestione dei rifiuti stessi.
a.4). Altro aspetto che, al pari, va esaminato è relativo alla applicazione della speciale attenuante di cui all’art. 452 decies cod. pen. che ha introdotto in materia ambientale il cd. ravvedimento operoso.
La questione posta che, in linea astratta, potrebbe avere un suo fondamento, risulta nel caso in esame, tuttavia, priva di rilevanza e di decisività.
Alcun dubbio che trattandosi di una disposizione di favor essa avrebbe potuto trovare applicazione nei casi di effettiva sussistenza della condotta anzidetta (con conseguente diminuzione delle pene dalla metà a due terzi) a favore di colui che si fosse adoperato per evitare conseguenze ulteriori o avesse provveduto (prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado) alla messa in sicurezza o alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi o ad offrire aiuto alla ricostruzione dei fatti, per la individuazione degli autori o per la sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti (riduzione da. un terzo alla metà), con possibilità di sospensione del dibattimento.
La norma in esame, si collega, tuttavia, a specifiche caratteristiche del ravvedimento cd. operoso, che non ricorrono nel caso in esame. Il cd ravvedimento deve inserirsi nella vicenda processuale non oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento e deve produrre i risultati specifici ed esattamente indicati dalla disposizione.
Nel caso di specie fanno difetto i presupposti strutturali dell’istituto.
A parte la genericità dei ricorsi sul punto, si assume una bonifica in maniera apodittica, senza alcuna dimostrazione seria di quel dato e non risulta il rispetto del requisito temporale. Ancora, fa difetto la prova che avrebbero dovuto offrire i ricorrenti che si fossero effettivamente realizzate le condizioni materiali cui la disposizione sopravvenuta lega il trattamento di favore, come risposta al ravvedimento del singolo che deve documentare, in ogni caso, l’impedimento di danni ulteriori con una condotta finalisticamente protesa a quel risultato, l’intervenuta bonifica o il ripristino dello stato dei luoghi.
b) Le comuni questioni afferenti la omessa rinnovazione del dibattimento in fase di appello, la assunta violazione della CEDU per effetto della condanna pronunciata su impugnazione della Pubblica Accusa, senza procedere al nuovo esame dei testi ritenuti decisivi;
La questione della reformatio in peius e della rinnovazione istruttoria, al pari prospettata dai ricorrenti, va trattata congiuntamente. Si tratta di individuare i limiti di carattere probatorio alla riforma in appello della decisione assolutoria di primo grado. In questa logica viene in rilievo l’art 6 par. 3 lett. d) CEDU che stabilisce che ogni accusato ha diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame di quelli a discarico nelle stesse condizioni di quelli a carico. La Corte Europea ha affrontato la questione in due decisioni recenti (Corte EDU 4 giugno 2013 Hanu c. Romania, 4 giugno 2013 e Corte Edu, Kostecki v. Polonia, 4 giugno 2013). Ha in proposito richiamato la giurisprudenza in materia di escussione testimoniale (Corte Edu Al Khawaja e Tahery v. Regno Unito, 15 dicembre 2011, affermando il principio che affinché un imputato possa essere ritenuto colpevole, tutti gli elementi di prova devono essere prodotti in pubblica udienza in sua presenza e nel contraddittorio. Ha spiegato che l’art 6 CEDU si applica anche al giudizio d’appello (già Corte Edu 17/1/1970 Delcourt v. Belgio). Il tema si intreccia con la questione fondamentale della riforma in appello della decisione favorevole di primo grado, riforma attuata attraverso una mera rivalutazione del risultato della prova senza procedere alla rinnovazione istruttoria dei testi (Corte Edu 26 giugno 2012, Gaitanaru v. Rooi spiegache l’art. 6 CEDU non pone regole sull’ammissibilità della prova o sulle modalità di assunzione, materie riservate alla legislazione nazionale (Corte Edu Hanu v. Romania cit.) ma fissa H principio del cd. divieto di reformatio in peius nei casi in cui la diversa decisione di assoluzione in primo grado sia riformata attraverso una pura valutazione della prova esperita in primo grado, in difetto dell’audizione diretta dei testi (principio che si trova già espresso in Corte Edu 7 giugno 1989, Bricmont c. Belgio par. 89 e ribadito in Corte EDU Dan C. Moldavia 22 agosto 2011).
Questa Corte si è trovata a dover circoscrivere i richiamati principi e a dover delinearne gli ambiti di operatività. Si è in sintesi spiegato che la necessità di rinnovazione è legata al requisito di decisività della prova testimoniale per pervenire a un giudizio di condanna e di riforma della decisione assolutoria di primo grado e alla necessità di operare un giudizio di attendibilità della medesima prova (Sez V, 5 luglio 2012, n. 30085, Luperi e altri; Sez II, 8 novembre 2012 n. 46065, Consagra; Sez V 11 gennaio 2013, n. 10965 Cava e altro; Sez. VI 26 febbraio 2013, n. 16566, Caboni).
Nel quadro tracciato le Sezioni Unite di questa Corte hanno preso una posizione netta chiarendo, in primo luogo, che i principi della Convenzione EDU costituiscono criteri di interpretazione delle norme interne cui il giudice nazionale si deve conformare (S.U. n. 27620, del 28/4/29016, Dasgupta, Rv. 267486) e che, diversamente, la riforma della sentenza assolutoria di primo grado, senza disporre, anche d’ufficio la rinnovazione delle prove ritenute decisive, sarebbe affetta da vizio di motivazione rilevante ex art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. (S.U. cit, Rv.267492). Principi estesi e ribaditi anche all’ipotesi cui il ribaltamento della pronuncia assolutoria di primo grado sia relativo ad un giudizio celebrato in rito abbreviato non condizionato (S.U. 19/1/2017, n. 18620/17, Patalano) in cui si sviluppano gli argomenti della sentenza Dasgupta chiarendo che non può parlarsi di differente “valutazione” del significato della prova dichiarativa quando il documento che tale prova riporta risulti semplicemente travisato ed emerga che la lettura risulti affetta da errore cd. “revocatorio” per omissione, invenzione o falsificazione. In questi casi, vi sarebbe un errore che cade sul documento e su quanto documentato con la conseguenza che non avrebbe significato razionale la rinnovazione di un esame e la nuova audizione del dichiarante.
c) la violazione dei criteri di prova in relazione alla ritenuta sussistenza della fattispecie aggravata di cui all’art. 434 comma 2 cod. pen.
La questione affrontata, sia pur con diverse sfumature, in tutti i ricorsi degli imputati, postula la violazione del criterio di prova in fatto del danno all’ambiente tradottosi nel ritenuto disastro. Si assume, in particolare, il difetto di analisi sul suolo e sulle acque, difetto che avrebbe imposto di escludere l’evento di disastro e la fattispecie di cui al comma II dell’art. 434 cod. pen., contrariamente ritenuta dal giudice d’appello. Ciò nonostante il primo decidente avesse ritenuto che il quadro probatorio si arrestasse a legittimare l’esistenza del delitto nella forma di mero pericolo, di cui al primo comma, che, affermata dal Tribunale, era stata dichiarata estinta per prescrizione.
Il nucleo centrale del tema da affrontare in questa sede, rinviando all’esame dei singoli motivi sviluppati nell’interesse di ciascuno dei ricorrenti, per gli aspetti di maggiore specificità, riguarda essenzialmente il metodo di conoscenza e di prova del fatto-risultato, assumendo la difesa, in sostanza, che non si sarebbe potuta affermare l’esistenza dell’evento-disastro in difetto di una conoscenza scientifica sui suoi connotati e in assenza di analisi e elementi che ne documentassero la consistenza.
In altri termini si è criticata la decisione che ha posto a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità la prova cd logica ritenendo che essa potesse prevalere su quella scientifica e sul difetto che le indagini istruttorie avevano lasciato persistere, nonostante il dibattimento e la scelta di non disporre una integrazione peritale attraverso una verifica dei siti.
Ebbene, si deve chiarire che, nella specie, non fa affatto difetto quell’apporto essenziale per la conoscenza scientifica del fenomeno.
Il processo ha rivelato come furono eseguite le verifiche presso i siti gestiti dagli imputati e furono prelevati campioni e rifiuti per procedere alla relativa catalogazione e tipizzazione. Furono, altresì, realizzati accertamenti cartolari e sulla documentazione contabile (con contestazione e dimostrazione del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti) oltre che indagini specifiche, seguendo alcuni mezzi che provvedevano a scaricare direttamente rifiuti in maniera incontrollata sui fondi. Il richiamo alle intercettazioni, alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e alla lettura dei dati acquisiti con quelli già emersi nell’ambito dei giudizi da cui le verifiche avevano tratto genesi, ha permesso, dunque, di articolare un complesso ragionamento sulla scorta del quale si è ritenuta la fattispecie di disastro ambientale.
I rifiuti, infatti, trasferiti dal Veneto in Campania, e conferiti presso i siti Pellini, subivano la modifica della causale (trattandosi di prodotto da avviare allo smaltimento in discarica) e attraverso operazioni di manipolazione e trasformazione illegale erano avviati al recupero nonostante la normativa di settore lo vietasse.
Si era trattato di attività ripetute e continuative che avevano assunto proporzioni enormi rispetto alle quali l’impossibilità di tracciare il ciclo e la vita del rifiuto stesso era funzionale alla concretizzazione di uno smaltimento illecito che avveniva contaminando i suoli e l’ambiente, in generale. In questa logica si è, allora, concluso per l’esistenza del delitto di disastro e per la verificazione dell’evento, non potendo razionalmente ammettersi che migliaia di tonnellate di rifiuti, con quelle caratteristiche -come sarà chiarito nell’esame dei motivi di ricorso e specificamente nello scrutinio delle doglianze avanzate nell’interesse di Pellini Giovanni- potessero risultare neutri e indifferenti rispetto all’equilibrio ambientale oltre che privi di forza e potenzialità distruttiva. Essi, contrariamente, proprio perché smaltiti in maniera non conforme alla normativa, e in ragione della natura e delle caratteristiche di composizione, che contenendo sostanze incompatibili con la conformazione naturale dell’ambiente in cui erano abusivamente immessi ne alteravano gravemente l’equilibrio, trasformandone le caratteristiche e le vocazioni essenzialmente agricole, così compromesse. Rilevano in questa logica non solo gli idrocarburi contenuti nelle diverse categorie di sostanze, ma le code di distillazione cui erano attribuiti codici diversi, per farle risultare come meri residui acquosi e ogni altro rifiuto proveniente anche dalla bonifica di siti industriali inquinati, di cui danno conto le analisi eseguite dagli organi competenti.
Non vale, allora, il richiamo alla mancanza di verifiche scientifiche, per affermare l’impossibilità di provare l’esistenza del disastro ambientale, assumendo che il ragionamento logico e la massima di esperienza sia in sé recessiva rispetto a quella forma di prova.
Il ragionamento così impostato induce conclusioni fuorvianti, giacché la prova del disastro ambientale non ha matrice esclusivamente scientifica. D’altro canto è la stessa “misurazione” del disastro a evocare un’attività in senso stretto non immediatamente concepibile, in difetto della preventiva individuazione di un suo oggetto, che non fa parte della descrizione normativa inclusa nell’art. 434 cod. pen. (non marginali si prospettano le difficoltà interpretative sul tema adelfo e sul concetto di misurabilità della compromissione ex art. 452 bis comma 1 cod. pen.). L’evento che caratterizza la fattispecie indicata di cui all’art 434 cod. pen. ha, infatti, spessore empirico-materiale ed è caratterizzato dalla straordinaria gravità della sua consistenza. Si risolve in un giudizio di valore che deriva da un’attività di continuo e ripetuto sversamento di rifiuti pericolosi, come quelli indicati (per milioni di tonnellate) che risultano diffusi in maniera incontrollata in una parte delimitata dell’ambiente e senza il rispetto delle minime regole che permettono l’individuazione delle sostanze in essi contenuti, così producendo una lesione all’equilibrio ambientale di proporzioni assolutamente gravi. Si genera, allora, il pericolo per la pubblica incolumità, pur in assenza di eventi di morte o lesioni.
d) Violazione del principio di correlazione tra accusa e decisione.
Si sostiene la violazione del principio di correlazione poiché vi sarebbe stata in estrema sintesi la condanna per un fatto non contestato (la diffusione del compost). Il compost risulterebbe, nella specifica vicenda, uno dei rifiuti manipolati ed illecitamente sversati. Oltre a quanto si avrà modo di dire specificamente nell’esame delle ragioni di doglianza articolate nell’interesse dei singoli ricorrenti, in questa sede preliminare si può osservare quanto segue.
La sentenza di primo grado esamina i rifiuti e richiama anche i codici di essi che sono riportati nella contestazione. Non si tratta, tuttavia, di un fatto diverso né ricorre la violazione lamentata.
Il delitto oggetto di contestazione resta quello di disastro ambientale; muta in realtà e solo parzialmente una delle modalità commissive. Il tema, tuttavia, ha costituito oggetto di discussione e confronto sia in primo grado e che in appello e risulta dedotto e discusso negli stessi motivi di impugnazione.
Basta qui anticipare che, perché sussista la violazione del principio di correlazione in esame, occorre che la diversità non afferisca ad elementi marginali o secondari o di valenza aggiuntiva che non risultano affatto decisivi per la struttura della contestazione e per il tema della prova. Si deve, cioè, attingere attraverso l’istruttoria, un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale con una trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità d’effettiva difesa (Sez. 6, n. 17799 del
06/02/2014, Rv. 260156; Sez. 6, n. 899 del 11/11/2014 Ud. (dep. 12/01/2015 ) Rv. 261925).
Nella specifica vicenda, il delitto era contestato richiamando espressamente l’art. 434 comma II cod. pen. e non si è, dunque, al cospetto di un fatto nuovo. Come si avrà modo di annotare nell’approfondire la questione prospettata, nell’interesse d Pellini Cuono, la descrizione che figura in imputazione risulta puramente esemplificativa. Viene, invero, in rilievo un fatto la cui condotta è a cd. a forma libera e rispetto ad essa l’evento di danno si connota come risultato causalmente orientato non in ragione di uno specifico ed analitico rifiuto, ma della massiva e straordinaria gravità della diffusione dei rifiuti stessi, cosparsi sul territorio e
ripetutamente sversati in violazione delle norme di settore, attraverso le manipolazioni dei codici identificativi e l’immissione anche nei lagni.
Ciò che rileva è, pertanto, la descrizione complessiva della condotta, con riferimento alle norme di legge violate e non le singole modalità di attuazione di ogni specifico segmento commissivo, trattandosi di atti reiterati e protrattisi con sistematica durata nel tempo. Del resto, si è al cospetto di una condotta materiale definita nelle sue coordinate empirico-fattuali essenziali e rispetto alla quale il diritto di difesa e alla prova può indiscutibilmente articolarsi.
La stessa Corte EDU ha precisato (Campisi contro Italia 12/02/2013 Seconda Sezione nr. Rie. 10948/05) che le disposizioni dell’articolo 6 § 3 a) della Convenzione implicano la necessità di eseguire con estrema cura la notifica dell’«accusa» all’interessato. L’atto d’accusa svolge, infatti, un ruolo “informativo” ufficiale del fondamento giuridico e fattuale delle accuse mosse nei suoi confronti (Kamasinski c. Austria, 19 dicembre 1989, § 79, serie A n. 168) e della qualificazione giuridica attribuita a tali fatti (Pélissier e Sassi c. Francia [GC], n. 25444/94, § 51, CEDU 1999-11)) condizione essenziale dell’equità del procedimento (Pélissier e Sassi, sopra citata, § 52).
Ciò che rileva, dunque, è che l’imputato disponga di elementi sufficienti per comprendere pienamente le accuse mosse a suo carico. Al riguardo, l’adeguatezza delle informazioni deve essere valutata dal punto di vista del comma b) del paragrafo 3 dell’articolo 6, che riconosce a ogni persona il diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie per preparare la sua difesa (Mattoccia c. Italia, n. 23969/94, § 60, CEDU 2000-IX).
Là dove il capo di imputazione menzioni singoli segmenti commissivi o particolari di dettaglio, a pura connotazione descrittiva della condotta materiale stessa, si è al cospetto di precisazioni con funzione di mera esemplificazione e di specificazione delle alternative modalità commissive del fatto. Si tratta di aspetti che si inseriscono in un’azione di ben più ampia portata la cui incriminazione discende dalla produzione dell’evento di danno previsto dalla fattispecie nella logica unificante della causalità che orienta, nel caso in esame, gli atti plurimi e ripetuti nel tempo verso l’evento finale.
In questa vicenda processuale, in primo luogo, la qualificazione penale del fatto addebitato dal primo grado è rimasta tale (art 434 comma II cod. pen.) (anche, Hermida Paz c. Spagna (dee.), n. 4160/02, 28 gennaio 2003). Inoltre, i segmenti relativi allo spargimento del compost e del percolato nei regi lagni, rientrano nella macrocategoria dei rifiuti illecitamente smaltiti, e costituiscono uno dei dettagli che non ha sostanzialmente modificato i fatti principali addebitati ai ricorrenti stessi (Hermida Paz, decisione sopra citata).
La Corte EDU ha rammentato, altresì, che la Convenzione non vieta ai giudici nazionali di precisare, sulla base degli elementi prodotti nel corso del pubblico dibattimento e portati a conoscenza dell’imputato, le modalità di esecuzione del reato al medesimo addebitato (Previti c. Italia (n. 2) (dee.), n. 45291/06, § 209, 8 dicembre 2009). Sui temi specifici i ricorrenti hanno avuto la possibilità di organizzare la difesa, interrogando e controinterrogando i testimoni (si veda, D.C. c. Italia (dee.), n. 55990/00, 28 febbraio 2002).
In questa logica si è escluso che una modifica su particolari di dettaglio della contestazione violasse la Convenzione (Campisi contro Italia 12/02/2013 Seconda Sezione nr. Rie. 10948/05).
Esame dei singoli motivi di ricorso
2. Per il ricorso presentato nell’interesse di Pellini Salvatore, a firma dell’avvocato Marco Bassetta, si deve osservare quanto segue.
2.1.1. Il primo motivo risulta infondato e va respinto.
Si lamenta la violazione di legge in relazione al ritenuto delitto di disastro ambientale aggravato ai sensi dell’art. 434 comma II cod. pen.. Si ritiene che, contrariamente a quanto aveva fatto il giudice di primo grado, la prova del disastro si fosse fondata su una semplificazione, utilizzando un criterio di mera presunzione e valorizzando elementi incerti che, al più, avrebbero ammesso la conclusione sulla sussistenza d’un pericolo di verificazione del disastro stesso, con conseguente possibilità di sussumere la condotta posta in essere nel paradigma di cui al primo comma della disposizione in esame.
L’assunto, come anticipato, è infondato.
In sede di legittimità non è ammessa una rivalutazione del risultato della prova, né si può richiedere alla Corte quale, tra due versioni alternative o in contrasto, sia da ritenere preferibile (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099).
Il giudizio di legittimità è proteso, piuttosto, a verificare in che misura il ragionamento probatorio risulti coerente e non presenti punti di manifesta illogicità contraddittorietà o difetto di motivazione. La scelta su un tipo di conclusione o sull’altra, a fronte di un percorso logico-giuridico coerente e non viziato, non è suscettibile di sindacato nella sede in esame.
Ciò premesso il nucleo centrale su cui si innesta la critica del ricorrente prende le mosse dal fatto che in sede di merito era stata omessa, in sostanza, un’attività di carattere tecnico che potesse documentare l’entità del danno prodotto all’ambiente e che potesse permettere di “quantificare” o “misurare” il livello di inquinamento che si era prodotto per effetto dell’attività posta in essere.
Il ragionamento a fondamento del ricorso prende le mosse da un presupposto erroneo e, cioè, che la forma aggravata del delitto ritenuto di disastro cd. innominato in ambito ambientale postuli necessariamente il compimento di indagini tecniche specifiche che ne documentino la consistenza o che permettano di misurare gli effetti della compromissione delle medesime matrici ambientali.
In realtà, la norma nella sua formulazione non richiede elemento siffatto, né pone l’indicata verifica come base dimostrativa necessaria del delitto nella sua descrizione tipica.
Se così fosse, invero, si introdurrebbe un elemento processuale-probatorio necessario – a carattere costitutivo della fattispecie – a fronte di un testo descrittivo che non lo prevede. Contrariamente la fattispecie è suscettibile di essere provata con ogni strumento, purché nella specie il giudice chiamato alla verifica possa dare spiegazione convincente sulla sussistenza del fatto nella sua dimensione materiale e psicologica.
Nel caso di specie, la prova del delitto è stata ritenuta su base logica.
Ciò non significa affatto, come si adombra nel primo motivo di ricorso, che esso si fondi su una presunzione o su una mera deduzione non supportata da elementi certi. Contrariamente la decisione di secondo grado che si richiama integralmente ai fatti storici già accertati in quella di primo grado, compone nella sequenza logica i diversi elementi ritratti dal dibattimento che vanno dalle deposizioni dei testi all’esame dei formulari dei rifiuti, ai codici di essi, alla quantità di sostanze cedute e ricevute, ai contenuti delle intercettazioni, per inferire dal tutto una attività che per dimensioni e spessore risultava conforme al criterio sostanziale che la stessa giurisprudenza di legittimità ha posto come nucleo centrale per ritenere sussistente il cd. disastro ambientale.
In questa logica, si è ritenuto essersi verificato l’evento di danno per l’ambiente e per i siti gestiti dai Pellini, evento straordinariamente grave e complesso. Pur in difetto della prova sull’immane eccezionalità, si è ritenuto sufficiente che vi fosse una diffusione tale del danno stesso idoneo a esporre a pericolo una collettività indistinta di persone con minaccia per la salute pubblica e la pubblica incolumità. La sentenza valorizza in questa ottica la diffusione e lo spandimento sul suolo di compost contaminato da idrocarburi in quantitativo di portata davvero elevata e, soprattutto, lo smaltimento illecito di migliaia di tonnellate di rifiuti pericolosi. A ben vedere da modalità siffatte sono state inferite le connotazioni di potenza espansiva del nocumento nella richiamata valenza quantitativa, di straordinaria gravità e complessità.
2.1.2. Il secondo motivo nell’interesse di Pellini Salvatore va egualmente disatteso.
Il ricorrente lamenta, infatti, il vizio di motivazione, assumendone l’inesistenza e afferma che la sentenza impugnata si era, in definitiva, limitata a richiamare la sola motivazione della decisione emessa dalla Corte di cassazione nella fase dell’incidente cautelare, senza confrontarsi con il risultato della prova dibattimentale e senza in sostanza tenere conto dei motivi d’appello. La sintesi, pertanto, era palmare e rendeva la decisione impugnata nulla per omessa motivazione.
Pur a fonte delle indicazioni e dei richiami ai motivi d’appello e alle memorie che il ricorrente afferma di aver prodotto al giudice del gravame il motivo di ricorso, risulta di estrema genericità e, soprattutto, non indica alcun punto delle deduzioni difensive che sarebbero valse, a suo giudizio, a disarticolare il ragionamento posto a fondamento della decisione da parte del giudice di secondo grado.
In questa logica si deve richiamare l’orientamento di questa Corte secondo cui il vizio di motivazione che denunci la carenza argomentativa della sentenza rispetto ad un tema contenuto nell’atto di impugnazione può essere utilmente dedotto in cassazione soltanto quando gli elementi trascurati o disattesi abbiano carattere di decisività (Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015 Ud. (dep. 27/01/2016) Rv. 267723; ancora, Sez. 2, n. 30918 del 07/05/2015 Ud. (dep. 16/07/2015), Falbo e altro, Rv. 264441) che ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino genericamente a lamentare l’omessa valutazione di una tesi alternativa a quella accolta dalla sentenza di condanna impugnata, senza indicare precise carenze od omissioni argomentative ovvero illogicità della motivazione di questa, idonee ad incidere negativamente sulla capacità dimostrativa del compendio indiziario posto a fondamento della decisione di merito.
D’altro canto, pur lamentando, in generale, l’assenza o l’apparenza della motivazione il ricorrente avrebbe dovuto riproporre alla Corte gli elementi e la tesi su cui intendeva ottenere lo scrutinio, che era stato omesso.
In questo senso si è, invero, ritenuto inammissibile il ricorso (Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014 Ud. (dep. 04/09/2015), B. e altri, Rv. 264879), i cui motivi si limitino a lamentare l’omessa valutazione, da parte del giudice dell’appello, delle censure articolate con il relativo atto di gravame, rinviando genericamente ad esse, senza indicarne il contenuto, al fine di consentire l’autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l’atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica.
2.1.3. Il terzo motivo va ritenuto inammissibile.
In particolare, il ricorrente deduce il vizio di motivazione sul disastro ambientale concretizzatosi nell’attività di immissione di percolato da discarica generica dei Regi Lagni. Si duole del richiamo alla deposizione del teste Luongo e dell’interpretazione che la Corte territoriale aveva offerto del video ripreso da un mezzo aereo, che documentava una immissione di percolato dal sito dei Pellini.
Le riprese erano state eseguite il 13/10/2015.
Il motivo di ricorso risulta, per un verso, privo di correlazione con la motivazione della sentenza e, per altro verso, non idoneo a disarticolarne la tenuta logica, oltre ad essere intrinsecamente privo del carattere di decisività.
In primo luogo, occorre annotare come la decisione di merito non abbia affatto ritenuto provato il disastro ambientale in via esclusiva sulla scorta della indicata ripresa video dall’alto.
Piuttosto, quel dato, anche valorizzato dal giudice a quo, è servito semplicemente a supportare altro tipo di ragionamento finalizzato a supportare, unitamente agli altri elementi, una valutazione quantitativa sull’evento “disastro” che si era ritenuto concretizzatosi. Esso risulta inserito in un percorso logico di più ampia portata e scrutinato non solo valutando le immissioni di liquidi nel canale dei Regi Lagni, ma prima ancora la gestione illecita di tutti gli altri rifiuti e la ingente quantità di materiale illecitamente sversato e diffuso sul territorio per migliaia di tonnellate. Le stesse fatture per operazioni inesistenti, di cui si dà atto anche nella sentenza di primo grado, documentano attività per diversi milioni di euro, in epoca relativa alla sola annualità 2004 e nella ricostruzione a carico danno conto di iniziative poste in essere per schermare la contabilizzazione di attività non altrimenti giustificabili. Si intende, allora, come il riferimento isolato alla ripresa video e alla interpretazione del risultato ritratto da essa non sia esaustivo, né idoneoa mettere in discussione il ragionamento articolato sul punto che ha ben altro fondamento e che si ricava, anche e soprattutto, da altri dati. Si comprende, pertanto, come non abbia significato né il richiamo alle deposizioni dei testi escussi, Gallo, Tucci e Russo, sui risultati degli esami eseguiti dall’Arpac il 2/11/2005, né il riferimento in generale alla regolarità dei risultati affermati. Si tratta, infatti, di prelievi relativi a epoca diversa da quella in cui era stata documentata l’immissione e, soprattutto, non rilevanti in funzione della disarticolazione del ragionamento interpretativo della prova e a sostegno della decisione.
Neppure il richiamo alla mancanza di analisi sul prodotto immesso in funzione della verifica della sua conformità alle disposizioni del decreto legislativo 152/1999 assume la valenza che si pretende nella prospettazione a discarico. Invero, nella specifica vicenda il dato conoscitivo è stato utilizzato, al fine di corroborare quanto dedotto attraverso gli altri elementi di prova e non per sostenere che il disastro stesso si fosse concretizzato ed attuato solo attraverso l’immissione del percolato nel canale dei Regi Lagni.
Le deduzioni residue, del resto, aprono a valutazioni di puro merito che non risultano neppure decisive, ai fini del decidere, per quanto si è in parte avuto modo già di esplicitare.
Da un lato, non ha rilevanza il riferimento alla produzione del rilievo fotografico all’udienza del 17/2/2012 – su cui si lamenta che la Corte territoriale non avrebbe motivato – e, dall’altro, risulta egualmente ininfluente il dato relativo alla presenza di altra conduttura che quel rilievo stesso ritrarrebbe.
Si deve osservare, quanto al primo profilo, di doglianza che si introducono questioni di puro merito sul tema, deduzioni inammissibili in sede di legittimità, oltre al particolare che lo stesso ricorrente non esplicita in quale epoca sarebbe stato eseguito il rilievo prodotto, rendendo così il motivo di critica al punto della decisione ancora una volta privo dei connotati di correlazione e decisività. Per altro verso, ferma la dimensione di mero fatto del dato introdotto con il ricorso, si deve osservare che egualmente la presenza di una conduttura ulteriore non è affatto determinante ai fini della disarticolazione del ragionamento. Ciò sia per il difetto di un’epoca certa in cui essa sarebbe stata installata, sia per la impossibilità di ritenere che l’immissione, ritratta nella ripresa video, provenisse da quel tubo di scarico. Tutto ciò, è appena il caso di ribadire, a fronte di una decisione che ha anche valorizzato, in una sequenza logica immune da vizi, altri elementi in fatto che avevano indotto la conclusione secondo cui l’immissione in esame provenisse dal sito gestito dai Pellini. Invero, si è osservato che attraverso la colorazione si era percepito come essa risultasse identica al tono cromatico che aveva l’accumulo di liquido allocato all’interno della vasca nel medesimo sito gestito dagli imputati. La comparazione visiva è, dunque, in assenza di altri elementi di segno contrario, anche un dato significativo, e privo di illogicità manifesta, che resiste alla critica sviluppata in ricorso e che non permette di enucleare affatto i vizi dedotti nel motivo di ricorso.
2.1.4. Non dissimili sono le conclusioni cui si perviene in relazione ai temi sviluppati con il quarto motivo di ricorso. Si tratta, infatti, di questioni di puro fatto che afferiscono la natura dei rifiuti e la qualità delle sostanze contenute nel compost, oltre che la gestione di essi con autorizzazioni che si assumono, contrariamente a quanto indicato in sentenza, regolari e legittimanti il tipo di attività.
Questi rilievi non risultano, ancora una volta, decisivi, né i riferimenti al tipo di rifiuto in quanto tale, né i richiami all’atto di appello, parzialmente trascritto nel motivo di ricorso, sono idonei a disarticolare il ragionamento, poiché si tratta della riproposizione integrale di temi di fatto su cui la Corte di legittimità incontra lo sbarramento della decisione di merito e la valutazione operata dai giudici territoriali, sia sull’esito delle verifiche, che sulle dichiarazioni rese dai testi e dal consulente.
In questa logica, sono richiamate, in particolare, le falsità accertate sia con riferimento ai provvedimenti legittimanti le autorizzazioni al trattamento dei rifiuti, sia con riferimento alla costante manipolazione dei codici identificativi dei rifiuti stessi, ricevuti, smaltiti e trattati. Da prodotti con codici da avviare allo smaltimento in discarica i materiali stessi venivano manipolati e resi destinatari di altri codici che ne legittimavano il recupero in difetto delle condizioni normative. Ciò è quanto si ricava dalla sentenza di primo grado, cui si opera rinvio nella decisione impugnata e sulle cui conclusioni non vi sono dubbi o confutazioni appaganti.
Da ciò si è inferita la natura di prodotto inquinante del compost stesso, perché formato da residui differenti da quelli prescritti (ed in particolare da idrocarburi, sostanze indiscutibilmente cancerogene, nonostante i rilievi in chiave difensiva del consulente Tigani, smentito dal teste Di Rosa, direttore dell’UOC -come indicato nella decisione di primo grado fl. 69-). La sentenza dà, ancora, conto delle miscelazioni di rifiuti e delle assegnazioni di codici CER di comodo. Anche le contestazioni sulle caratteristiche degli impianti sono state trattate dalla sentenza di merito richiamando la consulenza tecnica eseguita (Gerundo), tema su cui il ricorso chiama a valutazioni e verifiche in fatto precluse alla Corte di legittimità.
In realtà, la Corte territoriale ha evidenziato come ciò che risultava definito “compost” fosse ad ogni effetto costituito da un assemblaggio di rifiuti che non erano consentiti e come il tutto fosse dimostrato dagli accertamenti tecnici compiuti, dall’esame visivo del prodotto e dal materiale destinato al compostaggio rinvenuto.
2.1.5. Infondate risultano le deduzioni contenute nel quinto motivo di ricorso. Da un lato, risulta improprio il richiamo all’art. 2639 cod. civ. e allo statuto ivi contemplato per delineare le funzioni inerenti la gestione societaria di fatto e, dall’altro, le ulteriori critiche rimettono in discussione, in sede di legittimità, questioni di puro fatto.
Quanto al primo aspetto nella specifica vicenda che riguarda il ricorrente si è correttamente annotato che non si sarebbero dovute scrutinare le funzioni di fatto, attraverso il richiamo alla norma anzidetta rilevando, piuttosto, in funzione del concorso nel disastro ambientale, il ruolo in concreto rivestito all’interno della struttura associativa (pur dichiarata estinta per prescrizione). A ulteriore confutazione degli argomenti addotti in ricorso per il Pellini risultano richiamate le conversazioni intercettate e le competenze tecniche che gli derivavano dal ruolo istituzionale (trattandosi di un sottufficiale dell’Arma dei carabinieri), in funzione della gestione burocratica dell’attività.
In questa logica si è ritenuto di interpretare la preoccupazione del Pellini stesso sulla fresatura dei campi ove era scaricato il compost, il cui odore aveva allarmato i contadini e che derivava dalle illecite attività di trattamento e smaltimento dei rifiuti stessi, attività, si è annotato, che i collaboratori locali avevano attributo indistintamente ai tre fratelli, senza distinzioni. Né vale riproporre le critiche sul contenuto delle intercettazioni telefoniche le cui sintesi risultano riportate analiticamente nella sentenza di primo grado, trattandosi di testi che risultano correttamente interpretati dai giudici di merito e il cui significato non è diversamente leggibile in questa sede (cfr. Sez. U, n. 2.2741 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715).
In questa logica, la decisione di merito valorizza il testo della conversazione n. 426 durante la quale proprio Pellini Salvatore interloquisce sui crediti della società, dopo aver chiamato il fratello, aver discusso del “ricorso al Tar” e aver ricevuto indicazioni sull’interessamento, in relazione al protocollo d’intesa necessario per captare rifiuti “da fuori Regione”. Sullo stesso protocollo nella telefonata nr. 2877 il ricorrente contatta il fratello e lo informa che il documento è alla firma e interloquisce ancora su temi ulteriori (tel. 6767) che riguardano la gestione delle attività e i fanghi da betonaggio, affrontando temi inerenti il prezzo, la consistenza del rifiuto (che si presenta molle) e il codice CER. Questi dati, qui citati in via solo esemplificativa, valutati e considerati dal giudice a quo hanno indotto a ritenere prevalente sull’aspetto formale il ruolo del medesimo Pellini e a inferire un contributo causale e psicologico agli illeciti.
Al di là delle attività specificamente documentate dalle intercettazioni (è ininfluente il numero di esse, rilevando il contenuto) il ricorrente e si occupa dell’acquisto di altro impianto, svolge mansioni burocratiche e dà consigli tecnici al fratello Giovanni, aggiornandolo sulle offerte e svolgendo un ruolo portante e con vincolo di stabilità all’interno della struttura.
Non è, pertanto, correlato alle argomentazioni svolte il motivo di critica sviluppato che pretenderebbe di restringere il comportamento del Pettini ai soli consigli di natura giuridica, escludendo ogni forma d’esercizio di fatto e di gestione delle attività.
2.1.6. Inammissibili risultano, poi, le deduzioni contenute nel sesto motivo di ricorso.
Da un lato, si tratta ancora di affermazioni generiche che riprendono diverse valutazioni del contributo in fatto offerto dal ricorrente e, dall’altro, si assume la violazione dell’art. 238 bis cod. proc. pen. per aver il giudice a quo utilizzato la sentenza di questa Corte di cassazione resa in sede cautelare.
Il primo aspetto e la censura sulla assenza di elementi che in concreto potessero essere valorizzati per ritenere supportata la prova del concorso del Pellini Salvatore nei fatti è stata in parte già esaminata e va qui ribadito che la Corte territoriale proprio attraverso il richiamo alle intercettazioni e ai relativi contenuti ha correttamente ritenuto dimostrato che il ricorrente si occupasse della gestione dei rifiuti in maniera attiva e stabile, nonostante altra e diversa attività lavorativa, svolta in contesto, tra l’altro, istituzionale.
Quanto alla violazione dell’art. 238 bis cod. proc. pen. non risulta alcuna inutilizzabilità della decisione di questa Corte, trattandosi di sentenza che, pur resa nella fase cautelare, rileva come documento e risulta richiamata non in funzione del supporto in fatto degli elementi a fondamento della decisione -e in sostituzione dell’istruttoria svolta- ma di valorizzazione del principio di diritto in essa affermato, in funzione della lettura degli eventi oggetto d’accertamento processuale. I dati di prova su cui, invero, si fonda la decisione, sono quelli esposti nella sentenza di primo grado, elementi tutti richiamati e sulla scorta dei quali si è svolto il percorso decisorio. Non vi è alcuna trasposizione degli elementi investigativi a fondamento della decisione, né il ricorso indica specificamente elementi informativi, sottratti al contraddittorio, di genesi unilaterale, e che ciò nonostante sarebbero stati utilizzati e posti a fondamento della decisione stessa.
2.1. 7. L’ulteriore motivo di ricorso è inammissibile.
Si assume l’insussistenza della motivazione della decisione sulla struttura associativa. Contrariamente, la sentenza impugnata si richiama alle risultanze del dibattimento di primo grado e dà conto dell’esistenza del delitto in questione, fatto su cui la decisione di primo grado si era anche soffermata e aveva analizzato tutti gli elementi a disposizione, enucleando in maniera sintetica, ma essenziale, i contenuti delle captazioni telefoniche che davano, appunto, conto dell’esistenza di una struttura permanente e dei contatti stabilmente intrattenuti dagli imputati con i diversi soggetti legati alle ditte che conferivano i rifiuti e con i quali erano in collegamento per la gestione illecita. In questa logica, sono analiticamente richiamati i rapporti con la Nuova Esa, la Reciclyng, la Servizi Costieri ed altre società, oltre che con la Pozzolana e la Decoindustria. Si tratta di conversazioni che il giudice di merito ha ritenuto emblematiche che, da un lato, attestavano la stabilità di quei rapporti e, dall’altro, un’attività di oggettiva consistenza illecita.
Il motivo di ricorso sul punto si traduce, allora, in una generica affermazione di difetto di motivazione che non tiene conto di quanto era stato valorizzato e richiamato nella decisione di primo grado cui i giudici della Corte d’appello si sono richiamati, postulandone l’intero costrutto.
2.1.8. L’ottavo motivo dedicato alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è intrinsecamente contraddittorio. Si censura l’omessa motivazione sulla mancata concessione, là dove è lo stesso motivo a spiegare che il giudice a quo aveva in sostanza offerto una motivazione ed osservato che non ricorressero elementi positivi da valutare in funzione della concessione degli elementi circostanziali di specie. In questa logica si era richiamata la gravità dei fatti, elemento già di per sé sufficiente a escludere la concedibilità delle invocate circostanze e che era stato, al pari, richiamato sull’entità e la quantificazione del trattamento sanzionatorio, con una motivazione che risulta immune da censure sviluppandosi deduzioni di merito che non appartengono allo scrutinio della sede di legittimità.
2.1.9. Per l’ultimo motivo di ricorso è sufficiente fare riferimento a quanto s: e avuto modo di anticipare, nella prima parte della decisione, escludendo che esso possa presentare margini di fondatezza, dovendosi esaminare il materiale di prova alla luce della normativa precedente in ragione della clausola di riserva esistente nell’art. 452 quater cod. pen.
2.2. Venendo all’esame dei motivi di ricorso presentati dall’avvocato Stefano Maranella nell’interesse di Salvatore Pellini si deve aggiungere quanto segue.
2.2.1. Il primo motivo è infondato.
Si deduce la violazione dell’art. 416 cod. pen. e il vizio di motivazione, sia con riguardo alla manifesta illogicità, che con riferimento all’omessa motivazione.
Si assume che il giudice a quo avrebbe dovuto dare prevalenza alla formula assolutoria nel merito, rispetto alla ritenuta prescrizione della condotta di partecipazione all’associazione per delinquere.
A parte la deduzione promiscua di vizi, tra loro per più versi incompatibili, poiché se la motivazione si assume mancante non può indicarsi che essa sia in via coeva manifestamente illogica (aspetto che ne postula, contrariamente, l’esistenza) si deve osservare che alcuna delle censure formulate risulta fondata.
La Corte territoriale ha, invero, ritenuto esistente a carico del Pellini Salvatore la condotta di intraneità “direttiva”, annotando come costui avesse unitamente ai fratelli gestito l’attività illecita oggetto di ricostruzione, offrendo un contributo causale rilevante alla vita e alla sopravvivenza dell’ente. La conclusione fondata sui risultati delle intercettazioni trova, secondo il giudice territoriale un supporto adeguato nei risultati delle intercettazioni. Con il motivo di ricorso si tende, al contrario, a suggerire alla Corte di legittimità una diversa valutazione dei colloqui, annotando come il supporto offerto dal ricorrente fosse limitato al rapporto intrafamiliare e alle cognizioni tecniche che costui aveva, essendo laureato in giurisprudenza e tra l’altro appartenente all’Arma dei carabinieri. Il motivo risulta in parte già esaminato e si può operare rinvio a quanto detto. Basta solo aggiungere che i giudici territoriali sono giunti, tuttavia, a conclusione diversa, offrendo spiegazione logica e immune dalle censure rivolte.
In primo luogo, si è detto non risultano sindacabili i contenuti delle conversazioni richiamate e, per altro verso, la Corte di merito non ha ritenuto di condividere la tesi a discarico, in ragione del ruolo e della natura dell’apporto offerto dal medesimo Pellini alla struttura e all’attività che era integralmente condivisa con i fratelli Cuono e Giovanni. In questa logica sono state, infatti, richiamate le conversazioni che aveva sottoposto a scrutinio già il giudice di primo grado, per inferire che si trattasse non di consigli limitati al piano del rapporto fraterno, ma di una serie di indicazioni che avevano diretta incidenza e rilevanza sul piano della attività di gestione burocratica della società. In questa ottica si discuteva dei crediti da recuperare, della rilevazione di impianti, in una prospettiva di espansione della attività d’impresa e degli effetti legati allo spargimento della sostanza del tipo compost sui fondi. Si tratta di attività cui si faceva riferimento non in funzione di consigli astratti, ma di indicazioni dirette a conoscere le determinazioni specifiche dando indicazioni particolareggiate sulla condotta da tenere (fresatura) e intervenendo su temi centrali per la gestione d’impresa stessa. Si tratta di aspetti esaminati e che, condivisa o meno da parte del ricorrente, l’interpretazione offertane dalla Corte territoriale, non risultano ulteriormente sindacabili in questa sede, per difetto della dedotta manifesta illogicità.
D’altro canto, non inducono conclusione diversa i rilievi mossi in relazione alle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia. A parte la carenza di autosufficienza del ricorso sul punto, procedendo l’incedere al richiamo di dati e di stralci dichiarativi, senza allegare i testi integrali che potessero permettere alla Corte la cognizione delle relative dichiarazioni, anche sui temi indicati non si censura un travisamento del dato informativo, ma si tende, attraverso una interpretazione divergente, a dare una lettura distinta delle dichiarazioni medesime. Sul punto, non risultano decisivi i rilievi alle affermazioni del Frongillo, dichiarazioni parzialmente riportate nell’atto di ricorso e che, in ogni caso, non hanno affatto escluso la gestione dell’attività, il ruolo di Salvatore Pellini, né la conoscenza di costui. Contrariamente emerge il fermo contatto con il Buttane e lo spargimento dei rifiuti sui fondi. Né da quelle dichiarazioni si può affatto inferire la soluzione, anche adombrata, che il collaboratore avesse indotto o fosse incorso in confusione sulla esistenza di un cugino, omonimo del ricorrente, che era, al pari, attivo nella gestione delle attività, giacché i risultati delle captazioni, è fuori discussione, avevano, appunto, fissato l’eloquio di costui che discuteva direttamente e con i fratelli dei temi indicati, afferenti la gestione dell’attività d’impresa. Né vale il richiamo alla inattendibilità della fonte dichiarativa che si afferma essere stata ritenuta tale, in altri giudizi, epilogo non considerato dalla Corte territoriale, o il richiamo al periodo di detenzione del medesimo Frongillo, aspetto che, per un verso, non risulta assistito da autosufficienza e che, per altro verso, non si correla al tracciato logico della decisione.
Invero, il principio di frazionabilità delle dichiarazioni dei collaboratori ammette che stesse affermazioni del Froncillo ben potrebbero essere ritenute non riscontrate per taluni aspetti e su alcuni temi e potrebbero esserlo su altri. Questo dato supera ampiamente il relativo rilievo e non consente di ritenere decisiva la deduzione sul tema. Ancora e quanto all’epoca di restrizione di costui non si enuclea alcun elemento che supporti storicamente l’affermazione, oltre a non indicarsi in che termini esso possa incidere sulla logica decisoria, disarticolandone la struttura.
Né l’aspetto sulla conoscenza de relato di altri particolari è elemento dirimente, neppure alla luce dei richiami alle affermazioni dello stesso Di Giovanni.
Basta qui annotare che anche due dichiarazioni di consistenza siffatta possono trovare incrocio e supporto reciproco; ciò che va, piuttosto, sottolineato è che per quanto riguarda il tema specifico trattato il motivo di ricorso estrae singoli passi dichiarativi, senza offrire alcuna possibilità di rendersi conto e confrontarsi con l’intera dichiarazione resa dalla fonte, così non rispondendo al principio di autosufficienza.
Si omette, in ricorso e nella specie, di indicare come il medesimo Frongillo avesse anche affermato che della gestione dei rifiuti nella zona di Marcianise, area di riferimento del clan Belforte, si occupassero proprio il Buttane e il Di Giovanni. Sul conferimento di ruoli siffatti non vi è, d’altro canto, alcuna conoscenza de relato, ma diretta cognizione della fonte, avendo egli preso parte a una riunione a casa del Napolitano Felice. Si trattava di una attività che era decisamente lucrativa e che aveva appreso dallo stesso Di Giovanni e dal Buttane che era svolta unitamente ai Pellini, attraverso il versamento dei rifiuti sui terreni agricoli.
Questo tratto narrativo si era annotato già in primo grado registrava la convergenza delle dichiarazioni dell’altro collaboratore, Vassallo Gaetano e del Di Fiore Pasquale, creando sul tipo di attività posta in essere un supporto di prova orale con cui il ricorso, nonostante la critica affrontata, non risulta essersi confrontato in maniera convincete.
Infondate risultano, altresì, le deduzioni inerenti la mancata assoluzione nel merito e l’intervenuta dichiarazione di prescrizione. Il giudice a quo ha, contrariamente a quanto dedotto, indicato le ragioni che hanno indotto a ritenere esistente la condotta di partecipazione all’associazione con il ruolo direttivo e ha ritenuto non sussistenti le condizioni per giungere alla invocata assoluzione ritenendo prevalente l’obbligo di procedere alla declaratoria di estinzione per prescrizione assunta, con un ragionamento immune da ogni censura sul punto, secondo quanto si è avuto modo di esporre in precedenza.
2.2.2. Infondato risulta anche il secondo motivo di ricorso nella triplice doglianza che risulta in esso contenuta.
Il primo tema dedotto, in relazione alla violazione dell’art. 434 comma II cod. pen., non risulta fondato.
Si duole il ricorrente della particolarità che il presente procedimento sarebbe la duplicazione di altro giudizio già archiviato1 rielaborando i medesimi elementi già posti a carico di altri indagati anche dell’area veneta, rispetto ai quali, tuttavia, non era mai stata configurata la contestazione di disastro ambientale.
Il ricorso ripercorre integralmente e analiticamente il contenuto della sentenza di primo grado lamentando essenzialmente il difetto di analisi specialistiche e la valutazione della prova.
Gli accertamenti si sarebbero risolti nella rielaborazione di elementi, in fatto, già oggetto di scrutinio investigativo e che avevano indotto la richiesta e il provvedimento di archiviazione con dissequestro dei siti.
Si sarebbero, in particolare, valorizzati presunti accertamenti documentali inerenti le quantità di rifiuti, mere osservazioni oculari improvvisate e atecniche deduzioni, supposizioni e affermazioni de relato.
Si tratta di una critica di mero fatto che non prospetta vizi di legittimità in senso stretto e, piuttosto, provvede ad una rielaborazione del risultato di prova attraverso una sua interpretazione diversa da quella operata dal giudice di merito, interpretazione che il ricorrente stesso reputa non condivisibile, adombrandone altra e diversa che assumerebbe crismi di maggiore plausibilità. Ciò risulta riproposto, in ordine ai macrocapitoli della prova processuale, dalla sussistenza della struttura associativa e delle intercettazioni richiamate, alla figura del disastro ambientale, al caso della “pecora morta” e al sorvolo in elicottero.
Anche le deduzioni richiamate riproponendo il contenuto dell’atto d’appello non soddisfano l’indicato presupposto e, attraverso la generica critica indicata, si tende in sostanza a una rivalutazione dei fatti, elaborazione preclusa in sede di legittimità.
2.2.3. Il terzo motivo è inammissibile. Esso risulta relativo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla determinazione del trattamento sanzionatorio. Il Giudice a quo, contrariamente alle deduzioni, ha richiamato la motivazione della decisione di primo grado e ha evocato l’allarmante modalità esplicativa della condotta tenuta svolgendo un giudizio sintetico, ma adeguato sul punto e indicando le ragioni per le quali giungeva a negare le invocate circostanze attenuanti generiche e a determinare il trattamento sanzionatorio nei termini assunti.
Non risulta, pertanto, alcuna contraddittorietà né illogicità della decisione, specie nella parte in cui si era omesso di rivalutare a favore la condotta riparatoria.
A parte sul punto l’effettività di condotta siffatta e il difetto di autosufficienza del ricorso, si deve osservare che la Corte territoriale richiamando la gravità e l’allarme generato dalla condotta posta in essere ha, in definitiva, ritenuto non sussistenti elementi che potessero essere valutati positivamente sul trattamento sanzionatorio, così escludendosi che potesse in sede di legittimità in assenza di un vizio effettivamente censurabile rivedersi il giudizio eseguito e rinnovare una valutazione di puro ed esclusivo merito, sul tema delle circostanze attenuanti generiche.
2.2.4. L’ultimo motivo va, al pari, respinto. Ancora una volta si afferma un ravvedimento operoso non dimostrato e su cui il ricorso non risulta autosufficiente. Deve, in particolare, osservarsi che, ai fini della applicazione della norma sopravvenuta retroattivamente, si sarebbero dovute dimostrare sussistenti le condizioni sostanziali e processuali di applicabilità della norma, condizioni che non ricorrono nella specie, da un lato per la fase processuale e, dall’altro, per la mancata allegazione della prova che il ravvedimento e l’attività di bonifica siano state intergali e conformi all’entità del danno ambientale prodotto, per effetto della condotta.
Va, altresì, disatteso il dedotto vizio di motivazione, sul punto. Esso risulta, per un verso, genericamente articolato (con il quinto motivo di ricorso) e, per altro, non sussistente effettivamente, avendo il giudice territoriale spiegato le ragioni per le quali si era ritenuto di non disporre perizia, addivenendo alla conclusione di validità della prova logica, in funzione dell’accertamento del fatto ascritto.
2.3. I motivi aggiunti depositati nell’interesse di Pellini Salvatore.
2.3.1. La prima questione è relativa alla mancata rinnovazione dell’audizione del teste Luongo.
Sul punto vale quanto già detto in generale sulle condizioni alle quali si può ritenere sussistente l’obbligo di rinnovare l’esame del teste (che nella specie si assume non riesaminato sul tema della ripresa aerea eseguita e che attestava lo sversamento nei Regi Lagni) e quanto si avrà modo di dire, nell’esame del medesimo tema affrontato negli altri ricorsi, cui si rinvia.
2.3.2. Quanto ai motivi ulteriori contenuti nella memoria aggiuntiva e relativi alla duplicazione dei giudizi, oltre che alla violazione del giudicato, si osserva quanto segue.
Il divieto di bis in idem è sancito a livello convenzionale dall’art. 4, § 1, del Protocollo addizionale alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. La norma dispone: <<nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato>>.
L’art. 4, § 1, Prot. 7 ha costituito oggetto da ultimo di intervento della Corte EDU, ed in particolare di una recente decisione della Grande Chambre (sentenza 15 novembre 2016, rie. A. e B. c. Norvegia), che ha ripreso la sua precedente sentenza del 10 febbraio 2009, Serque] Zolotoukhine c. Russia: <<a partire da tale sentenza, è chiaro che la questione di stabilire se entrambi i procedimenti riguardassero lo stesso reato deve essere analizzata sulla base dei soli fatti (si vedano in particolare i paragrafi 82 e 84 della sentenza). I due procedimenti verteranno sullo stesso reato se traggono origine da «fatti identici o fatti che sono sostanzialmente gli stessi» (§ 82). È dunque necessario che «l’esame riguardi quei fatti che costituiscono un insieme di circostanze fattuali concrete che implicano la stessa persona e indissolubilmente legate tra loro dal punto di vista temporale e dello spazio»(§ 84)>>, ribadendo di dover far riferimento ai cc. dd. “criteri Engel” (così definiti in riferimento alla sentenza che per prima li enunciò: Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel c. Paesi Bassi) per qualificare la natura sostanziale delle sanzioni irrogabili per uno stesso fatto (che costituisce altro presupposto di operatività del divieto de quo), ed evitare che, per eludere il divieto, sanzioni sostanzialmente penali vengano qualificate come formalmente amministrative dagli ordinamenti interni.
Il divieto di bis in idem nel diritto interno è sancito dall’art. 649 cod. proc. pen.. La disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 117, comma 1, della Costituzione, in riferimento all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale (Corte cost., sentenza n. 200 del 31 maggio 2016).
La Corte costituzionale (sentenza n. 102 del 12 maggio 2016) ha evidenziato che, per la consolidata giurisprudenza europea, il divieto di bis in idem ha carattere processuale e non sostanziale: <<esso, in altre parole, permette agli Stati aderenti di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni, ma richiede che ciò avvenga in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è divenuta definitiva la pronuncia relativa all’altro>>.
Tale ultimo assunto trova ineludibile conferma in una più recente decisione della Corte EDU (Sez. IV, 13 giugno 2017, Simkus c. Lituania), con la quale la Corte EDU ha ravvisato la dedotta violazione dell’art. 4, Prot. 7, Conv. EDU, rilevando che le due procedure (una formalmente penale, l’altra formalmente amministrativa) alle quali il ricorrente era stato sottoposto avevano ad oggetto essenzialmente lo “stesso fatto” (ossia l’avere il ricorrente insultato e minacciato persone all’interno di un ospedale), e che priva di rilievo era la circostanza che il ricorrente non avesse riportato due condanne a sanzioni da ritenere sostanzialmente penali (alla stregua dei criteri Engel) per il medesimo fatto (poiché i reati ascrittigli erano stati dichiarati estinti per prescrizione), in quanto il divieto di bis in idem comporta, infatti, che non si possa essere processati (non che non si possa essere condannati) due volte per lo “stesso fatto”.
Ciò premesso in punto di principio si deve ritenere infondata la deduzione in punto di violazione del giudicato ex art. 649 cod. proc. pen. alla luce della decisione della Corte cost. 200/2016.
Invero, ai sensi dell’art. 649 c.p.p. per “medesimo fatto” secondo la giurisprudenza prevalente occorreva avere riguardo al “fatto giuridico”. Sarebbe stato, dunque, possibile celebrare un nuovo giudizio nei confronti dello stesso imputato allorché le norme incriminatrici fossero state diverse e suscettibili di concorso formale. Si riteneva che, in questi casi, non vi fosse violazione del ne bis in idem.
L’interpretazione del concetto di “medesimo fatto” offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con riferimento all’art. 4 Prot. 7 della Convenzione e i riferimenti al cd. “fatto storico”, ossia alla dimensione squisitamente naturalistica e materiale della fattispecie concreta, da determinarsi con riguardo al contesto spazio-temporale di riferimento (sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia) e senza prendere in considerazione la qualificazione giuridica datane dall’ordinamento, hanno indotto a rivedere l’orientamento.
Si erano, invero, confrontate sulla nozione di “medesimo fatto” il criterio dell’idem legale e quello dell’idem factum. Con la sentenza n. 200/2016 la Consulta si è allineata alla giurisprudenza di Strasburgo ed ha optato per la prevalenza interpretativa del cd. “fatto storico”, dichiarando “l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale”.
La Corte Costituzionale ha chiarito che alla definizione del concetto di “fatto storico” concorrono non solo la condotta dell’imputato, ma anche l’evento e il nesso causale (4-5 del considerato in diritto). La Corte Costituzionale ha affermato che: «sulla base della triade condotta-nesso causale-evento naturalistico, il giudice può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica, sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad esempio, sulla diversità dei fatti, qualora da un ‘unica condotta scaturisca la morte o la lesione dell’integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e dunque un nuovo evento in senso storico».
Ciò premesso, è di tutta evidenza che, nella specìe, c’è una progressione naturale: da microeventi di danno si giunge al disastro di portava ben più ampia. Il “fatto” diverge non solo nel modello legale, ma prima ancora in quello storico. Vi sono due considerazioni essenziali da svolgere.
La prima riguarda, ancora una volta, l’onere di autosufficienza del ricorso sul punto. In realtà la parte eccepisce la violazione del giudicato senza allegare alcun elemento che possa in concreto permettere con certezza uno scrutinio siffatto.
La seconda riguarda la circostanza che nella specifica vicenda anche il richiamo alla ricostruzione dei fatti che era stata operata nel “processo veneto” (e il seguito giudiziario che esso aveva avuto) non realizza alcuna duplicazione. Si tratta, invero, di fatti diversi anche nella dimensione storica e che ammessane la parziale coincidenza materiale (dato non dimostrato) con le iscrizioni precedenti a carico degli imputati, non ricorre alcuna violazione del giudicato poiché nella specie non si versa al cospetto né dell’idem legale, né di quello storico. Per il primo profilo non risulta essersi mai concretizzata a carico di alcuno dei ricorrenti una contestazione per disastro cd. ambientale (art. 434 comma II cod. pen.) constatazione che esclude una violazione del giudicato in punto di formale attribuzione di una fattispecie già giudicata in termini diversi.
Per quanto concerne il secondo aspetto, tema su cui insiste il motivo di doglianza, non ricorre il cd. idem storico. Va sul punto richiamata la considerazione svolta anche dalla Corte costituzionale, considerato che affinché il fatto sia identico a quello giudicato e in funzione dello sbarramento che dal giudizio stesso potrebbe derivare, occorre che l’identità si apprezzi sulla scorta degli elementi storico-materiali, che afferiscono sia all’azione delittuosa, sia all’evento e al nesso causale, senza prescindere dalla tipicità del “fatto” stesso descritta nel modello legale, tipicità che deve concorrere a definire nella dimensione empirica le coordinate storico-commissive della condotta (come azione o omissione) cui si legano i due profili ulteriori dell’evento e del nesso di causalità. Da un lato, dunque, si intende come lo scrutinio giuridico del tema dell’identità non possa limitarsi al concetto di condotta in senso ampio, riconoscendole una forza attrattiva dei risultati e delle conseguenze dirette e indirette e, dall’altro, come la selezione degli elementi che sono i referenti del confronto sulla esistenza o meno dello stesso “fatto storico” non possa prescindere dai criteri legali che valorizzano i singoli fatti tipici nella complessiva descrizione operatane dai paradigmi di incriminazione.
Da ciò discende che nesso di causalità e, soprattutto, evento naturalistico siano termini imprescindibili del confronto e debbano essere coincidenti, affinché si possa ipotizzare l’idem factum. Diversamente non ricorre ipotesi di fatto identico, risultando diversi i nuclei che caratterizzano storicamente il risultato della condotta stessa e il medesimo grado di aggressione progressivo al bene giuridico protetto.
Nella specie i termini del ragionamento non risultano diversi.
La ricezione e la gestione illegale dei rifiuti, attraverso spandimento su aree agricole, versamento incontrollato anche nei Lagni, ha prodotto un evento di danno diverso da quello che connota la mera condotta di gestione illecita e ha realizzato un risultato di “disastro” che, se risulta oggetto di specifica valutazione normativa nel modello tipico di cui all’art. 434 comma II cod. pen., integra anche una modificazione empirica e autonoma nel modo fenomenico. Da essa scaturisce non solo un evento diverso in termini di risultato della condotta stessa, ma un fatto nuovo e ulteriore che non subisce preclusione alcuna per effetto del principio bis de eadem re ne sit actio.
Ciò basta a escludere che in punto storico i fatti addotti in funzione della violazione del giudicato possano essere ritenuti identici.
3. I ricorsi presentati nell’interesse di Pellini Cuono, a firma sono egualmente rispettivamente degli avvocati Majorano e Bruno infondati.
3.1.1 Il primo ricorso investe l’affermazione di penale responsabilità per il delitto di cui all’art. 434 comma 2 cod. pen., la dichiarazione di estinzione del reato di cui all’art. 416 cod. pen., la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, il trattamento sanzionatorio e le statuizioni civilistiche.
Il motivo sulla ritenuta sussistenza del delitto di disastro ambientale è infondato.
Il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui, su appello della Pubblica Accusa, aveva ritenuto sussistente il disastro e, dunque, aveva ritenuto essersi concretizzato l’evento di danno che ne caratterizza la fattispecie, ai sensi del comma secondo della disposizione in esame. Nella specifica vicenda si è affermato che l’evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità deve essere provato e non può essere presunto attraverso l’astratto richiamo a criteri di verosimiglianza.
In realtà, con il motivo di ricorso si finisce per criticare il ragionamento di valutazione del risultato della prova, affermandosi che l’evento di danno, nonostante la ritenuta fattispecie di cui all’art. 434 comma 2 cod. proc. pen. sarebbe stato dedotto in via presuntiva e in difetto di una prova sulla sua materialità. Contrariamente, non ricorre alcuna nullità della sentenza, né una violazione delle regole di formazione della prova stessa o dell’art. 238 bis per l’affermato impiego della decisione di questa Corte di cassazione, resa in fase cautelare.
I temi sono stati, in parte, già esaminati nello scrutinio dei temi generali e del ricorso presentato nell’interesse di Pellini Salvatore. Si può operare rinvio a quanto già indicato, aggiungendo in questa sede poche notazioni ulteriori.
In primo luogo, la censura relativa alla mancanza di prova si traduce in una critica alla scelta operata da parte della Corte territoriale che a fondamento della decisione assunta ha ritenuto di porre criteri di prova logica elaborando in via di ragionamento deduttivo una serie di elementi che erano a disposizione e che il processo aveva offerto ai decidenti. Non è corretto, pertanto, il riferimento operato all’impiego di un generico criterio presuntivo per collegare la decisione di non procedere a perizia sullo stato dei luoghi e inferire la dedotta mancanza della prova sull’evento di danno nella sua materialità storica.
Il percorso ricostruttivo di un fatto può procedere anche sulla scorta di elementi logici passando da dati certi a quelli non noti e oggetto di verifica diretta.
Nella specie, l’iter logico-ricostruttivo della sentenza parte, appunto, dalla gestione illecita di quantitativi davvero rilevanti di rifiuti e dalla modifica dei codici identificati CER, al fine di permetterne la gestione e lo smaltimento, pur in difetto delle condizioni legali di attività siffatta. In questa ottica si è documentato come anche l’emissione e l’annotazione delle fatture per operazioni inesistenti fosse legata alla dissimulazione di operazioni illecite che, in apparenza erano recuperate a una gestione contabile, tra l’altro fraudolenta, al fine di permettere che determinate categorie di rifiuti potessero essere ricevute e gestite nei siti relativi. In questa prospettiva i risultati delle intercettazioni telefoniche avevano garantito conoscenze specifiche le verifiche operate presso i siti di provenienza dei rifiuti stessi (a titolo esemplificativo basta richiamare quelle eseguite presso la Nuova Esa e la Servizi Costieri) risultano poste come elementi certi di partenza del procedimento conoscitivo posto a fondamento del ragionamento di prova. A ben vedere, allora, sia pur attraverso una motivazione di sintesi e di richiamo ai risultati istruttori del primo giudizio, la Corte territoriale ha posto a fondamento della sua decisione questo tipo di incedere logico, partendo dai dati informativi indicati e valorizzandone le conseguenze dirette e necessitate dall’intervenuta ricezione di quei materiali, anche tossici, che per quantità e qualità erano stati gestiti illegalmente e con le modalità evidenziate. Alcun rilievo ha il riferimento alla autorizzazione anche al trattamento di rifiuti pericolosi. Ciò perché lo statuto relativo che segnava la genesi e il percorso che il rifiuto avrebbe dovuto seguire, anche e soprattutto presentando la caratteristica di pericolosità, era costantemente disatteso. Accadeva, invero, che dalla destinazione di esso allo smaltimento in discarica specifica, con attribuzione della causale indicata se ne modificasse la destinazione, avviandolo a un recupero non conforme a legge e contrario alla stessa natura del prodotto conferito, attraverso aziende coinvolte nell’intermediazione e operazioni dirette di miscelazione e camuffamento dei rifiuti stessi.
Il metodo ricostruttivo della prova, dunque, non risulta censurabile, fondandosi sulla dimensione logica egualmente valida rispetto a quella rappresentativa.
Né vale l’indicato richiamo alla mancata esecuzione di una perizia, decisione che è riservata alla cognizione del giudice di merito, cui compete la valutazione sull’assoluta indispensabilità dell’approfondimento, ai fini del decidere e che afferisce direttamente al merito dei dati a disposizione, profilo non censurabile in sede di legittimità. Basta qui solo aggiungere che un accertamento peritale a distanza di diversi anni (era stato, infatti, richiesto nell’anno 2002) non si sarebbe comunque, rivelato in ogni caso decisivo, in ragione del difetto di attualità tra le eventuali acquisizioni e i temi di prova, utili alla conoscenza giudiziale, in netto e stridente contrasto con il principio di pertinenzialità prescritto dall’art. 187 cod. proc. pen. Né la mancata esecuzione della perizia può essere intesa come mancanza di prova su un tema essenziale, ben potendo la cognizione giurisdizionale realizzarsi attraverso canali diversi e una valutazione egualmente empirica e logica del materiale disponibile.
Infondate risultano le deduzioni sulla violazione dell’art. 238-bis cod. proc. pen. e i richiami, ritenuti impropri, alla decisione della Corte di cassazione resa in fase cautelare. Occorre qui ribadire quanto già si è avuto modo di annotare e, in particolare, che anche una sentenza resa in fase cautelare possa essere legittimamente richiamata valorizzandone, appunto, la struttura logico-giuridica seguita e i principi di diritto che in essa la Corte di legittimità abbia affermato, secondo quanto è, appunto, accaduto nel caso di specie. La Corte territoriale non ha infatti sostituito la valutazione del quadro di gravità indiziaria alla prova formata in contraddittorio, ma, valorizzando i principi giuridici ritraibili dalla decisione indicata, ha richiamato e letto il quadro istruttorio che contrariamente si era formato in dibattimento, ponendolo a fondamento della decisione.
3.1.2. Egualmente infondato è il secondo motivo di ricorso afferente lo ius superveniens di cui alla legge 22/5/2015 n. 68.
Basta sul punto rinviare a quanto già si è avuto modo di esplicitare sul rapporto tra fattispecie e ribadire che la lettura della clausola di riserva – che si riferisce ad entrambe le figure contenute nell’art. 434 cod. pen. (sia quella di pericolo che quella di danno di cui al comma 2 della medesima disposizione) esclude la possibilità di condividere la lettura sostenuta dalla difesa. Invero, non risulta possibile, alla luce della ratio individuata che si sovrappone alla necessità di salvaguardare la prosecuzione dei processi in corso da celebrare e riscontrare alla luce del disposto dell’art. 434 cod. pen., ritenere che il pericolo del danno risulterebbe ancora punibile ai sensi dell’art. 434 comma 1 cod. pen. (vecchio regime) mentre l’evento di disastro sarebbe ipso iure attratto alla disposizione di cui all’art. 452-quater cod. pen. e alla tipicità della norma di nuova introduzione con conseguente abrogazione dell’omologo fatto di evento, già descritto dall’art. 434 comma 2 cod. pen. non più applicabile in ragione dello ius superveniens. Contrariamente, la norma indicata introdotta dalla legge nr. 68/2015 ha carattere innovativo ed è caratterizzata dalla presenza di una clausola di riserva che trova applicazione sia per le ipotesi di cd. pericolo che per quelle di danno essendo finalizzata a regolamentare il rapporto tra fattispecie relativo ai processi in corso al fine di evitare che si possa generare confusione tra gli statuti e le fattispecie applicabili che ovviamente finivano per differire in punto di sanzione e di tipicità. La conseguenza che si trae da questa lettura è, pertanto, quella secondo cui i giudizi relativi a condotte poste in essere nel vigore della disposizione anzidetta (art. 434 cod. pen.) seguono la fattispecie richiamata e si conformano al modello tipico descritto dall’incriminazione evocata, non potendosi recuperare allo ius superveniens, proprio per la chiara formula della clausola di riserva che non distingue nel testo letterale tra delitto di pericolo di cui al primo comma dell’art. 434 cod. pen. e di cui al secondo comma.
3.1.3. Il terzo motivo di ricorso va egualmente disatteso.
Nella prima parte si censura, ancora, la mancanza di motivazione e la contraddittorietà di essa in relazione all’aver impiegato la sentenza della Corte di cassazione resa nell’incidente cautelare e nell’aver assunto determinazione di assoluzione sui rifiuti conferiti nei siti della Pozzolana Flegrea, trattandosi di rifiuti non pericolosi, in contrasto con l’anzidetta decisione della Corte di legittimità.
L’assunto è infondato oltre a presentare un profilo di intrinseca contraddittorietà.
Occorre qui ribadire che è legittimo il richiamo alla decisione della Corte di cassazione per valorizzare la sequenza logica e giuridica seguita e i principi di diritto affermati e nella specie non risulta oggetto di valorizzazione il dato informativo che fondava la gravità indiziaria ritenuta al contrario. Quanto alla deduzione del contrasto con i contenuti di essa, in relazione ai rifiuti conferiti nei siti della Pozzolana, condotta per la quale vi era stata assoluzione in appello, è di evidenza come lo stesso motivo di ricorso postuli un confronto di merito tra le statuizioni, pur avendo premesso che la decisione della Suprema Corte non risulterebbe utilizzabile per il profilo di merito.
Si intende, allora, come l’anzidetta censura di contraddittorietà non abbia fondamento proprio in ragione della forma di ricostruzione seguita nella critica. Essa invero si inferisce attraverso il confronto con le statuizioni della decisione della Corte di legittimità che al pari si era indicato come non utilizzabile nel merito. Le deduzioni sulla seconda parte della decisione e la affermata mancanza di confronto con i temi sviluppati dalla difesa risultano genericamente sviluppate e la doglianza è inammissibile.
3.1.4. Il quarto motivo di ricorso risulta parimenti infondato. Nella prima parte relativamente alla caratteristica della immissione riscontrata attraverso la ripresa aerea si rimettono alla Corte di legittimità valutazioni di puro merito. Nella vicenda in esame si deve annotare, al contrario, che i giudici di merito hanno indicato le ragioni per le quali si era ritenuto che lo scarico riscontrato in atto derivasse dalla struttura dei Pellini. In particolare è stato operato espresso richiamo al colore dell’immissione e alla similitudine con quanto era contenuto nelle vasche all’interno del sito. In secondo luogo e relativamente alla mancanza di prova certa sul contenuto dello scarico si è dedotto che l’assenza di analisi e di elementi che potessero supportare la natura della sostanza sversata nei Lagni è egualmente infondato. Anche sul punto la prova logica sostiene la conclusione essendosi premesso che nella specifica vicenda processuale i rifiuti che erano trattati risultavano caratterizzati da manipolazioni e da alterazioni dei codici identificativi che non davano affatto certezza della effettiva rispondenza di essi a quelli che formalmente risultavano trattabili nei siti gestiti. Si intende, allora e si è già indicato, come risultino contrariamente congetturali le affermazioni che darebbero per certa, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello, la natura del rifiuto come non pericoloso, perché concretizzatosi in percolato da discarica. Si tratta di conclusione non supportata da alcunché e piuttosto smentita dal ragionamento della Corte territoriale medesima che ha evidenziato come all’interno della struttura si ricevessero anche rifiuti non autorizzati e pericolosi e erano gestiti attraverso falsificazioni di codici e manipolazioni di essi con conseguente alterazione del ciclo genetico e della stessa gestione, trasformazione e fase di smaltimento.
Il ragionamento svolto vale e resiste anche per le critiche sviluppate in relazione alla natura del compost che si assume in ricorso essere stato esaminato in una fase in cui il prodotto non era ancora ultimato. La Corte territoriale ha valorizzato anche sul punto il dato essenziale, insindacabile in questa sede, che si trattava di rifiuti i cui codici identificativi erano, appunto, manipolati con la conseguenza che le stesse verifiche eseguite avevano dimostrato che si trattava di prodotti inquinanti e non di un fertilizzante, idoneo all’impiego in agricoltura.
3.1.5. Infondato è il quinto motivo di ricorso relativo alla ritenuta sussistenza della struttura associativa e alla intervenuta declaratoria di prescrizione.
Contrariamente a quanto dedotto nel ricorso il rinvio alla decisione di primo grado e al materiale di prova in esso contenuto dà esattamente conto degli elementi caratterizzanti la struttura in questione, delle ragioni che hanno indotto a ritenere non sussistenti le condizioni per addivenire alla invocata assoluzione nel merito con decisione prevalente su quella di estinzione e che hanno fondato la conclusione secondo cui l’attività stabilmente posta in essere dai fratelli Pellini si fosse compenetrata in una struttura che gestiva illegalmente e in via permanente la attività di gestione illecita dei rifiuti oggetto di contestazione.
Risultano, invero, richiamati i delitti fine e i contenuti delle conversazioni telefoniche, oltre agli accertamenti eseguiti per fondare la conclusione indicata.
Anche il motivo relativo atta mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche risulta inammissibile.
Si deve osservare che ta Corte territoriale ha esaminato la richiesta avanzata e ha ritenuto di confermare il giudizio che era stato svolto già in primo grado negando le invocate circostanze attenuanti generiche. Ciò in ragione della gravità della condotta delle sue modalità commissive e dell’allarme sociale destato da essa, in assenza di elementi positivi di valutazione che potessero far ritenere superabili le conclusioni anzidette. Il ricorso propone una diversa valutazione di elementi di fatto, con un ragionamento che non risulta ammissibile in sede di legittimità rimettendo alla Corte di cassazione verifiche e valutazioni che competono esclusivamente al giudice di merito e che non sono sindacabili a fronte di una motivazione immune dai vizi denunciati. In questa logica, pertanto, non rileva, né lo stato di incensuratezza dell’imputato, né la condotta processuale, elementi ritenuti sub-valenti dal giudice di merito e non rivalutabili favorevolmente in questa sede a fronte della spiegazione data, che ha ritenuto pregnante la gravità dei fatti per te modalità della condotta, come testé spiegato.
Ragionamento non dissimile vale per la determinazione del trattamento sanzionatorio e per la affermata violazione dell’art. 133 cod. pen. che al contrario e per le anzidette ragioni non ricorre nella specifica vicenda, apparendo adeguata la decisione assunta dalla Corte di merito.
3.1.6. Va, infine, respinto il motivo di ricorso sulle statuizioni civili.
La motivazione resa dalla Corte territoriale risulta congruente e l’affermazione della responsabilità civile sull’an della responsabilità lascia impregiudicata la determinazione del quantum su cui si dovrà offrire prova piena al giudice naturalmente competente. Né valgono i riferimenti operati in ricorso al rapporto eziologico tra condotta e danno, avendo la Corte territoriale spiegato che la salubrità ambientale risultava compromessa nella specie alla luce della continuativa e sistematica attività di illecito sversamento di rifiuti direttamente sui terreni con contaminazione dei siti e delle aree a destinazione agricola anche con sostanze pericolose. E’ stato valorizzato in questa logica proprio il carattere massivo e sistematico delle attività connesse al traffico illecito di rifiuti supportato dalle stesse analisi dell’Arpac che la sentenza di merito ha richiamato.
La decisione impugnata, ancora, si sofferma anche sulla vicenda del gregge e della pecora deceduta dei Cannavacciuolo, tema su cui la prima decisione aveva ritenuto che non vi fosse prova del nesso causale tra la morte e il delitto di disastro ambientale. Contrariamente il giudice d’appello ha spiegato e valorizzato la circostanza pacifica che il gregge esercitasse il libero pascolo nella contrada Lenza Schiavone ove insistevano gli impianti di trattamento dei rifiuti e in questa prospettiva ha richiamato il principio che governa la prova del nesso causale dell’incidenza maggiormente probabilistica (S.U. civ. 582 dell’ll/1/2008), nesso sussistente sulla scorta non solo del giudizio logico indicato ma dell’esclusione che ha operato il giudice di merito di altri possibili fattori alternativi disponibili. La Corte territoriale ha, invero, ritenuto inverosimile e scarsamente supportata l’ipotesi del decesso dei capi di bestiame da ricondurre come affermato dall’imputato a scarso management degli allevatori, a ipoalimentazioni o a infezioni, ipotesi astratte e, in concreto, non documentate.
Generiche e infondate, infine, sono state ritenute le deduzioni sull’avvenuta statuizione risarcitoria e suita domanda di tutte le parti civili.
Va ribadito sul punto il principio di immanenza della costituzione a fronte dell’impugnazione della sentenza di assoluzione da parte del Pubblico Ministero, (S.U. nr. 30327 del 2002).
3.1.6. Vanno, ancora, respinti i motivi nuovi depositati nell’interesse del Pellini Cuono a firma dell’avvocato Lucio Majorano il 27/4/2017 e finalizzati a ottenere l’annullamento della decisione di condanna avendo la Corte territoriale ribaltato quella di primo grado senza procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e, in particolare, senza procedere all’esame dei testi Luongo Ciro, Auriemma e del collaboratore di giustizia Di Fiore.
Nella specie si assume che si trattava di deposizioni decisive e che risultavano diversamente valutate dal Giudice a quo con la conseguenza che si sarebbe dovuto procedere alla rinnovazione.
Ebbene al di là di quanto già premesso sul tema generale della rinnovazione istruttoria in appello per procedere al ribaltamento di una decisione di assoluzione si deve osservare quanto segue.
Nel caso in esame, a prescindere dalla circostanza che non ci si muova al cospetto di una specifica decisione che avrebbe operato condanna degli imputati a fronte di una decisione assolutoria di primo grado (contrariamente, il giudice di primo grado aveva, a fronte della contestazione, del delitto di disastro ambientale, aggravato ai sensi dell’art. 434 comma 2 cod. pen., ritenuto sussistente il delitto nella forma di cui al comma 1 dell’art. 434 cod. pen. come fattispecie di pericolo e aveva dichiarato la prescrizione della fattispecie) la questione centrale e decisiva è altra. Si era, infatti, nel processo di primo grado ampiamente discusso della questione e ciò in ragione della natura della contestazione e della descrizione che figurava in imputazione, che il P.M. aveva contestato come condotta da recuperare al comma secondo della disposizione anzidetta. La prevedibilità, dunque, di una decisione di riforma a seguito dell’impugnazione del P.M. era dato appartenente alla fisiologica evoluzione del giudizio e alla natura della stessa impugnazione che era stata proposta. Prevedibilità, del resto, è concetto che implica, nel’accezione in esame, l’astratta verificabilità di un certo epilogo e non un giudizio di valore che si fonda sull’alta probabilità della sua verificazione.
I temi di decisività e di rivalutazione necessaria che avrebbero dovuto indurre alla rinnovazione della istruttoria non risultano fondati.
Le Sezioni Unite di questa Corte (S.U. Dasgupta e S.U. Patalano che estendono i principi della prima decisione alla ipotesi in cui il giudizio di primo grado si sia celebrato nella forma del rito abbreviato non condizionato) hanno avuto modo di delineare le condizioni alle quali si debba procedere in ossequio, tra l’altro, a quanto affermato dalla Corte EDU (Dan contro Moldavia) alla rinnovazione dell’esame dei testi.
Deve in particolare trattarsi di elementi dichiarativi in primo luogo essenziali e, cioè, di elementi la cui diversa interpretazione data dalla decisione di secondo grado sia decisiva sull’esito decisorio.
La decisività, pertanto, si lega direttamente al contenuto della dichiarazione e al significato che sia stato dato ad essa da parte dei due giudici.
Là dove, al contrario, il punto non afferisca la dichiarazione in sé rappresentativa di un dato che viene ripreso nella sua obiettiva consistenza e che non risulta oggetto di diversa conclusione né sul punto della attendibilità, né su quello della sua interpretazione. Non ha rilievo la rinnovazione istruttoria. Ciò perché lo scopo di essa è quello di assicurare realmente alla parte che risulta imputata di permettere interrogatorio e controinterrogatorio della fonte a carico diversamente valutabile da parte del giudice. In questa logica, in caso di giudizio definitivo in primo grado con il rito abbreviato, questa Corte ha avuto modo di spiegare che non ricorre la necessità di procedere alla rinnovazione istruttoria allorquando si tratti di cd errore revocatorio in cui il dato dichiarativo risulti, appunto, travisato dal giudice decidente per omissione falsificazione o invenzione. In queste eventualità appare chiaro che non avrebbe rilievo riassumere la dichiarazione non potendo profilarsi alcuna utilità non potendo essa rinnovarsi anche nei medesimi termini in cui è stata resa in via primigenia e in cui essa viene al pari interpretata dal giudice a quo.
Ebbene, nel caso in esame e a ben vedere non ricorreva alcuna necessità di procedere a rinnovazione dell’istruttoria.
In primo luogo, fanno difetto i presupposti strutturali del rapporto tra le due decisioni, l’una di assoluzione e l’altra di condanna. Il ribaltamento è, invero, relativo ad una diversa statuizione che passa dalla decisione estintiva di prescrizione – e che, pertanto e nella vicenda processuale, ha postulato l’accertamento suita sussistenza del fatto – a quella di condanna per il delitto di cui all’art. 434 comma 2 cod. pen., in luogo della fattispecie originariamente ritenuta, di cui all’art. 434 comma 1 cod. pen.
In secondo luogo, si tratta di una decisione che si fonda sui medesimi elementi e che non provvede a una diversa valutazione dell’attendibilità del dichiarante.
La dichiarazione resa dalle fonti è, d’altro canto, unica e tale resta anche nella valutazione del giudice d’appello. Ciò vate, innanzitutto, per le dichiarazioni rese dal consulente Auriemma, che pacificamente aveva negato che fossero stati eseguiti rilievi specifici (dato non discusso né in primo né in secondo grado). La rinnovazione della sua dichiarazione, pertanto, sarebbe risultata inconferente rispetto al dato obiettivamente conoscibile attraverso l’esame diretto della fonte e allo scopo “funzionale” delle decisioni richiamate.
Quanto alle dichiarazioni rese dal teste Luongo, al pari, non ricorre una ipotesi di diversa valutazione. A parte la circostanza che costui risulta essersi limitato a riferire sul contenuto di una ripresa aerea con la conseguenza che, a prescindere dall’apporto dichiarativo, la prova è nella specie costituita dal rilievo documentale, si deve osservare che le decisioni di primo e secondo grado, tuttavia, non apprezzano diversamente l’attendibilità del dichiarante o il contenuto della sua dichiarazione. Entrambe le decisioni richiamano un oggetto narrativo identico. Il nodo della variante tra le due decisioni insiste su altro aspetto e, cioè, sul tema essenzialmente giuridico-fattuale relativo allo spessore probatorio in forza del quale si sarebbe potuta ritenere raggiunta la prova del cd. disastro ambientale. Si tratta di un tema che per il primo giudice avrebbe richiesto necessariamente una prova scientifica e che, per il secondo giudice, alla luce degli altri elementi e, soprattutto, dei dati documentali informativi disponibili nel processo, ha ammesso una ricostruzione di valenza essenzialmente logica come spiegato.
Alla luce di quanto premesso, dunque, la dichiarazione dei due soggetti indicati non risulta affatto determinante per la modifica del quadro disponibile e non occorreva procedere alla invocata rinnovazione delle fonti orali che non avrebbero avuto modo né di chiarire aspetti narrativi, non essendovi punti d’ombra o di contrasto valutativo, né di offrire elementi integrativi risultando chiaro e ben delimitato l’oggetto delle deposizioni.
Quanto al collaboratore Di Fiore Pasquale risultano esattamente richiamate le dichiarazioni indicate in primo grado e, ancora una volta, non v’è alcuna “differente valutazione” operata dalla Corte di secondo grado rispetto a quanto ritenuto in primo grado (fil. 97 e 98 sentenza di primo grado) restando immutato sia l’oggetto della valutazione, che il contenuto della prova ritenuto.
3.2. Infondato è, altresì, il ricorso nell’interesse di Pellini Cuono a firma dell’avvocato Pierfrancesco Bruno.
3.2.1. Non fondata risulta, in primo luogo, la censura relativa alla violazione dell’art. 434 cod. pen. per avere la Corte territoriale ritenuto esistente il disastro ambientale, senza tenere in considerazione la collocazione sistematica del delitto stesso, posto tra i fatti contro la pubblica incolumità mediante violenza.
L’argomento sviluppato non risulta condivisibile, né ritiene questo Collegio che dalla collocazione sistematica sia inferibile un elemento strutturale necessario della fattispecie, che farebbe contrariamente difetto nel paradigma della norma e che attiene alla cd violenza-mezzo. Né, e per altro verso, l’evocato concetto di violenza può ritenersi che si sovrapponga, in fatto, al suo risultato e che derivi dalla immutatio foci, in una prospettiva che finisce per dilatarne l’ambito applicativo stesso e la naturale sua consistenza come impiego di energia fisica, con equiparazione alla cd. violenza-effetto. Sul punto si deve annotare che il requisito della violenza, impiegato in funzione della semplice attribuzione d’un ordine sistematico alle fattispecie non assurge a elemento costitutivo necessario di tutte le figure inserite nel capo specifico del titolo VI in esame del codice penale.
Non sono, infatti, mancate le voci di coloro i quali, proprio a sottolineare l’improprietà della catalogazione e della distinzione sistematica, hanno preferito operare, in realtà, una diversa suddivisione tra i fatti, impostazione che ha separato i delitti di comune pericolo mediante violenza e frode, da quelli di pericolo contro l’incolumità pubblica, in generale, oltre a quelli di pericolo contro la salute pubblica in particolare. Si comprende, allora, come non possa risultare nella distinzione indicata il profilo della violenza (come mezzo commissivo necessario o come effetto della condotta), l’elemento in base al quale selezionare le ipotesi di disastro riconducibili alla fattispecie in esame.
Si tratta, piuttosto, di un mero criterio di generale classificazione in funzione della ricerca di puri ordini classificatori tra fattispecie, che non caratterizzano la tipicità del fatto sul piano descrittivo e normativo.
Né risultano condivisibili le considerazioni svolte sulla mancanza di un evento di danno da recuperare al concetto di disastro o quelle che avrebbero sostituito detto evento con una sorta di sommatoria tra microeventi lesivi in cui non sono affatto presenti le caratteristiche del disastro stesso. Né in questa prospettiva vale richiamare quanto argomentato in funzione della sovrapposizione della tutela dell’ambiente a quella della pubblica incolumità, con relativa trasformazione della fattispecie delittuosa in una norma a carattere plurioffensivo, nonostante l’assenza di indicazioni normative in questo senso.
Si tratta, invero, di argomenti a prevalente carattere dogmatico, non decisivi nella vicenda in esame, rispetto ai quali la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di chiarire le coordinate applicative della disposizione in esame (art. 434 cod. pen. ), spiegando che essa trovi pacificamente applicazione anche nei casi di cd. disastro ambientale (Sez. 3, n. 46189 del 14/07/2011 Ud. (dep. 13/12/2011) Rv. 251592; Sez. 4, n. 36626 del 05/05/2011, Rv. 251428; Sez. 3, n. 9418 del 16/01/2008 Cc. (dep. 29/02/2008) Rv. 239160; Sez. 5, n 40330 del 11/10/2006 Cc. (dep. 07/12/2006) Rv. 236295).
Quanto alla affermata mancanza, nella specie, di un evento di danno assimilabile al concetto di disastro si deve, poi, osservare che contrariamente la sentenza dà conto della caratteristica di esso e spiega come sia non una risultante della sommatoria di più microeventi, che non avrebbero in sé la forza del risultato assimilabile al disastro stesso, quanto un dato logicamente apprezzabile e definibile in ragione della mole rilevante di rifiuti gestiti contra legem, attraverso uno smaltimento illegale e uno sversamento di essi sulle aree e le zone a destinazione agricola. Dal risultato di condotta siffatta si è inferita la complessiva portata dell’evento di danno e si è ritenuto che esso si conformasse alla nozione che ne aveva delineato la giurisprudenza, nelle decisioni sopra indicate. I riferimenti alla trasformazione della fattispecie in delitto cd. plurioffensivo in cui si era in sostanza affiancata la tutela della pubblica incolumità a quella dell’ambiente in difetto di indicazioni normative, così operando una interpretazione e applicazione analogica della disposizione è costrutto che non convince. La tutela della incolumità pubblica, in generale nei reati cd. vaganti, con soggetto passivo indeterminato (e che tutelano, appunto, collettività indistinte di soggetti, definite con maggiore o minore precisione) è, da un lato, caratterizzata da una forza espansiva del danno e, dall’altro, dalla stessa caratteristica della condotta, che può indurre pericolo per la collettività medesima attraverso lesioni e compressioni anche di altri beni giuridici, lesioni che vanno dalla messa in pericolo alla vera e propria compromissione di essi. In realtà la tutela dell’incolumità pubblica realizza una protezione dell’oggettività giuridica in termini anticipati rispetto a una serie di ulteriori beni, rilevanti anche penalmente (vita, integrità fisica, ambiente) la cui compromissione, lesione o minaccia finisce per mettere in pericolo anche l’indicata incolumità. Si comprende, allora, come risulti spiegata, la ragione per la quale, da un lato, al cospetto dell’incidente di costituzionalità della disposizione di cui all’art. 434 la Corte costituzionale abbia ritenuto conforme la norma nella sua particolare strutturazione alla Carta fondamentale e, dall’altro, come non si versi al cospetto di alcuna applicazione analogica del dato normativo, trovando per costante e fermo orientamento giurisprudenziale esso stesso applicazione anche al cospetto del disastro ambientale.
Si comprende, allora, come sul piano materiale non sia richiesto un evento di morte o lesioni collettive come risultato della condotta, ma una incidenza del fatto anche sulle cose che si riveli in potenziale collegamento con i primi eventi e, dunque, in nesso di relazione con essi, realizzandone in concreto il serio pericolo di verificazione. Danno e pericolo alle cose e nella specie al bene ambiente assumono valenza e rilevanza nella fattispecie in esame, là dove siano suscettibili di recare lesioni alla vita o all’incolumità della collettività indifferenziata, producendo un evento distruttivo di “gravità straordinaria” e con connotati “complessi”, senza che occorrano, in funzione della prova del disastro stesso, né l’evento morte, né quello lesivo, risultati indiretti, eventuali e di valenza solo potenziale, anche al cospetto della verificazione sul piano empirico del disastro stesso, con i connotati anzidetti.
Da ciò discende che morte o lesioni non sono elementi necessari per apprezzare lo spessore dell’evento di “disastro”, ma possibili indicatori, sia pur non necessari (potendo non sussistere disastro, in senso stretto, pur nel ricorrere di essi nella realtà storico-fenomenica). Per altro verso, deriva da quanto detto che la definizione del disastro assume contenuti materiali in cui i risultati lesivi si connotano per intrinseca e straordinaria gravità, che ne segnano il distinguo da un evento di danno ordinario che, pur importante, non assume, tuttavia, crismi di valenza extra ordinem.
Il giudizio in cui si risolve l’apprezzamento ha carattere di merito, attraverso una ponderazione in fatto del fenomeno e lo scrutinio operato non risulta sindacabile sic et simpliciter in sede di legittimità.
Nella specie, il richiamo alla contaminazione di siti agricoli, realizzata con regressivo accumulo di sostanze anche pericolose nell’ambiente e in violazione delle disposizioni di settore, attraverso la reiterazione di condotte che, per durata e gravità, hanno indotto la compromissione dei beni protetti, non lascia dubbi sulla coerenza del ragionamento svolto e sulla legittimità del criterio logico richiamato. Il ragionamento si è, infatti, (e sul punto si rinvia a quanto si avrà modo di annotare esaminando il tema analogo proposto nel ricorso di Pellini Giovanni) incentrato sulla quantità (migliaia di tonnellate), sulla natura e sulla durata dell’illecita attività di gestione dei rifiuti, per inferire da quel tipo di indicatori la sussistenza del disastro sul piano naturalistico.
3.2.2. Infondato è il secondo motivo di ricorso.
Con esso si censura, ancora una volta, la interpretazione della fattispecie da parte della Corte territoriale e si annota come i giudici di merito avrebbero, in definitiva, confuso il concetto di danno ambientale con quello di disastro, trasformando la figura criminis esistente in concreto e ritenuta dal primo giudice da delitto di pericolo a fatto di danno così superando il problema della prescrizione che, contrariamente, aveva caratterizzato la prima interpretazione.
Contrariamente a quanto dedotto la sentenza di merito risulta immune dal vizio denunciato. A parte la genericità del ricorso sul distinguo concettuale tra danno e disastro, contrapposizione che avrebbe un fondamento interpretativo in una logica afferente la pura consistenza empirico-materiale, non vi è, comunque, alcuna sovrapposizione, né commistione che confonda le due categorie. I temi sono esattamente inquadrati dalla decisione impugnata e si osserva, in definitiva, come il disastro ambientale nella specifica vicenda processuale risulta supportato logicamente proprio attraverso l’entità delle attività di illecita gestione e sversamento in ambiente dei rifiuti illegalmente trattati. Alla luce dei quantitativi di prodotti trattati illegalmente e delle attività compiute si è ritenuto che l’ambiente stesso avesse subito con la relativa dispersione incontrollata un danno di proporzioni e di entità tali da essere conforme pienamente al concetto di disastro. Né vale richiamare l’istantaneità o l’unitarietà del disastro stesso per inferirne l’inesistenza nella specifica vicenda processuale e per ritenere che non ricorra l’ipotesi indicata.
Il profilo della unitarietà del fatto-disastro non risulta, invero, discutibile alla luce della convergenza materiale delle condotte tenute che si sono eziologicamente orientate e stabilmente ripetute, sovrapponendosi e determinando una compromissione che in ragione dei quantitativi di rifiuti immessi sui fondi hanno determinato la indicata compromissione dell’equilibrio naturale delle aree con connotazioni di ampiezza, qualità e intensità della lesione tale da ledere il bene dell’incolumità pubblica, esponendo a rischio una pluralità indeterminata di persone. Sul punto questa Corte ha avuto modo di spiegare (Sez. 4, n. 36626 del 05/05/2011 Cc. (dep. 11/10/2011 ) Rv. 251428) che il disastro innominato (art. 434 cod. pen. ), reato di pericolo a consumazione anticipata, si perfeziona anche nel caso di contaminazione di siti a seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale (Sez. 3, n. 46189 del 14/07 /2011 Ud. (dep, 13/12/2011 ) Passariello e altri, Rv. 251592). E’, cioè, l”‘immutatio loci”, che produce un danno ambientale di eccezionale gravità a integrare la fattispecie ed essa prescinde dalla unitarietà o istantaneità dell’evento di disastro, che può consolidarsi nel tempo proprio attraverso e all’esito della ripetuta e sistematica diffusione incontrollata di rifiuti inquinanti nell’ambiente. Deriva che i connotati di unitarietà e di istantaneità, inteso quest’ultimo come giudizio di relazione temporale tra risultato di danno e condotta, non sono elementi strutturali necessari della fattispecie. D’altro canto non può esservi dubbio sulla circostanza che l’unitarietà sia solo un parametro descrittivo delle possibili forme di manifestazione che il disastro può avere, attenendo esso alla dimensione definitoria dell’evento. Il disastro non deve essere necessariamente evento unitario nella sua consistenza empirico materiale, ma può connotarsi di profili plurimi, riguardando le diverse matrici ambientali compromesse e gli ambiti territoriali dell’ecosistema interessati dalla trasformazione e dall’alterazione prodotta.
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito più volte le condizioni minime ed essenziali per ritenere che nel cd. disastro innominato si potesse comprendere in particolare quello di carattere ambientale, anche prima della novella legislativa attuata con la legge sopra citata (Sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Rv. 235669). Quelli sviluppati in ricorso sono argomenti, d’altro canto, anche indirettamente sottoposti allo scrutinio della Corte costituzionale che ha ritenuto come la disposizione non fosse affatto contraria a Costituzione in punto di determinatezza della fattispecie e ha chiarito, come visto, che la descrittività minima della figura delittuosa si inferisse attraverso il richiamo semantico al concetto di disastro, volto a sottolineare, appunto, la portata di un fatto che avesse caratteristiche specifiche e offensive anche e, soprattutto, dimensionali.
Nella fattispecie la Corte d’appello affronta il problema con un giudizio che coordinato alle risultanze istruttorie e a quanto anche indicato nella sentenza di primo grado, in punto di fatto, ha indotto i giudici territoriali a ritenere che si trattasse di evento-danno idoneo a integrare il capoverso di cui all’art. 434 cod. pen., secondo un giudizio che si è avuto modo di spiegare, ha valorizzato anche i dati ritratti dagli altri delitti, pur estinti per prescrizione. In questa logica l’annotazione di documenti contabili per operazioni inesistenti che per il solo anno 2004 erano stati pari e superiori a circa tre milioni di euro, in funzione di occultare operazioni non fatturabili nella reale consistenza ha offerto altro ed importante elemento di valutazione quantitativa della portata lesiva della condotta assunta.
Si tratta di valutazioni coerenti in punto di logica formale e che non risultano sindacabili ulteriormente in sede di legittimità.
3.2.3. Il terzo motivo di ricorso ripropone temi in buona parte già esaminati di critica alla prova logica e all’impiego di essa per fondare la ricostruzione del fatto e l’affermazione della colpevolezza degli imputati.
Né in questa logica vale richiamare diverse conclusioni o interpretazioni degli apporti narrativi o elementi di prova solo citati e rispetto ai quali il ricorso proposto non risulta affatto conforme al principio di autosufficienza (ciò vale per i riferimenti allo studio dell’Istituto superiore di sanità, pubblicato sul sito Arpac o alle deposizioni dei testi Gallo e Tucci, che avrebbero escluso pericoli per l’ambiente e l’uomo ovvero, ancora, alla deposizione del Luongo stesso già esaminata con rilievi sostanzialmente sovrapponibili).
Generica risulta, poi, la critica mossa alla decisione impugnata nella parte in cui si è dedotto un profilo di contraddittorietà rispetto agli impianti Igemar e Pozzolana Flegrea, non evidenziandosi i nuclei del ragionamento in cui si anniderebbe l’anzidetta contraddizione, rispetto all’iter logico seguito per l’affermazione di penale responsabilità in ordine agli impianti gestiti dai fratelli Pellini.
Infondata e immune dalle censure rivolte risulta anche la dedotta violazione del principio della cd. motivazione rafforzata. Lamenta il ricorrente che il giudice d’appello avrebbe omesso di confrontarsi compiutamente con il materiale istruttorio elaborato in primo grado e con la decisione assunta nel primo giudizio per addivenire ad un ribaltamento in peius della decisione stessa senza con ciò dare conto delle ragioni a sostegno della soluzione adottata e senza, soprattutto, confutare l’iter seguito dai primi giudici che avevano ritenuto non provata la sussistenza del disastro nella forma di cui al secondo comma dell’art. 434 cod. pen. In realtà il motivo di ricorso, a parte un aspetto di complessiva genericità, tende a comparare le due distinte ricostruzioni senza confrontarsi con il nucleo centrale della questione valorizzato dalla Corte d’appello. Il richiamo al principio dell’obbligo di motivazione rafforzata, principio che va ribadito e confermato, risulta non correlato alla ratio decidendi, giacché nella specifica vicenda l’aspetto che ha rappresentato il volano della decisione non è incentrato su una diversa valutazione del risultato di prova o su una ponderazione dimostrativa differente degli elementi informativi rispettivamente posti a fondamento della prima decisione o della seconda ricostruzione. In realtà, la Corte d’appello e il giudice di primo grado valutano identico materiale probatorio e giungono a soluzioni differenti non in ragione di interpretazioni soggettive che si diversificano, ma applicando un metodo di conoscenza distinto.
Da un lato, si ritiene di recuperare il risultato della prova al pericolo di disastro e, dunque, all’ipotesi di cui all’art. 434 comma 1 cod. pen. in funzione della mancanza di una dimostrazione in senso “scientifico” di esso e attraverso il richiamo alla mancanza di misurazioni specifiche e, dall’altro, si predilige una lettura distinta che tende a valorizzare un meccanismo euristico e di conoscenza strutturalmente diverso e che valorizza il profilo logico.
A ben vedere, allora, non vi è un problema di motivazione rafforzata che confuti i dati conoscitivi e le conclusioni cui è addivenuto il Giudice di primo grado, quanto l’obbligo di spiegare la ragione per la quale si sia ritenuto il metodo di lettura, adottato in primo grado, non corretto. A compito siffatto la Corte territoriale, a giudizio di questo collegio, ha assolto adeguatamente e con una motivazione immune dalle censure rivolte, avendo concentrato l’attenzione su una verifica dei dati ispirata al criterio di razionalità.
Ha, in altri termini, la Corte d’appello disatteso il principio della cd. prova scientifica, non con lo scopo di abdicare a una regola certa che governerebbe analisi specifiche, ma in difetto della possibilità di acquisire dati con quelle caratteristiche e con quella funzione. Anche un approfondimento peritale, per la distanza temporale dagli eventi avrebbe offerto elementi spuri e privi, soprattutto, di connotazioni scientifiche che si potessero rivelare decisive. In ragione di ciò, pertanto, la Corte territoriale ha concentrato l’attenzione su un più ampio spettro di elementi che, al pari, risultavano di evidenza immediata e che si sarebbe, comunque, dovuto valutare. L’aver, pertanto, nella scala dei canali di conoscenza del fenomeno oggetto di ricostruzione processuale, ristretto il valore dimostrativo di eventuali “misurazioni” mantiene uno spessore razionale alla luce dell’intero quadro istruttorio che si è ritenuto, contrariamente, di porre al centro della relativa ricostruzione. Infatti, la discussione in sé sulla verifica in funzione delle “misurazioni”, nella specie omessa, non era discussa né dai consulenti, né dai giudici di primo gado, né da quelli di secondo grado. La Corte d’appello, piuttosto, non ha condiviso1 per quanto dettoi la richiesta di rinnovazione peritale, proprio facendo leva sugli elementi logici evocati nella stessa decisione. Da un lato, infatti, si era ritenuto di richiamare criteri e valori da ricercare attraverso misurazioni che sarebbero, tuttavia, rimasti oscuri nella quantificazione e, dall’altro, non si era valutato che ogni rinnovazione istruttoria, scontando uno scarto temporale non marginale con conseguente modifica della situazione di fatto, si sarebbe confrontata, come anticipato, con una realtà oggetto di ricognizione strutturalmente e obiettivamente diversa da quella in essere al momento della commissione della condotta e oggetto di verifica nel processo. Da ciò è chiaro che ogni tipo di risultato non sarebbe stato improntato, secondo uno statuto di causalità, a metodo di certezza eziologica, conducibile alle condotte per le quali era giudizio.
Ciò esclude in nuce il requisito di decisività nell’accertamento invocato dalla Procura in sede dibattimentale e più volte richiamato dai motivi di ricorso e, per altro verso, fa intendere come eventuali “risultati” su base scientifica attraverso misurazioni (non si comprende di cosa, né è esplicitato altrimenti) non fossero passaggi di conoscenza necessari per la prova del disastro ambientale, non essendo essi richiesti dalla tipicità descrittiva della norma sostanziale, soprattutto alla luce di quanto era già emerso.
La sentenza impugnata coglie, pertanto, questo aspetto nella decisione di primo grado e ritiene erronea la conclusione nel suo presupposto logico. L’aver postulato, infatti, la necessità delle più volte indicate “misurazioni” determinava secondo i giudici della Corte d’appello l’istituzione di un meccanismo privo di supporto normativo, ergendo l’accertamento scientifico a mezzo di prova necessario dell’accertamento del disastro ambientale. Così, tuttavia, non è; l’integrazione tra fattispecie sostanziale di reato e mezzo di conoscenza processuale, in funzione della prova di esso non significa che il fatto debba passare necessariamente attraverso una prova di spessore scientifico o che se ne debba dare conto attraverso necessarie misurazioni.
Ciò posto si comprende il ragionamento posto a fondamento della decisione impugnata.
La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto che le diverse tonnellate di rifiuti pericolosi smaltite con lo spargimento sui terreni e attraverso la violazione delle disposizioni di settore incidesse irreparabilmente sulle matrici ambientali e inducesse l’evento di danno (disastro di cui all’art. 434 comma 2 cod. proc. pen.), alla luce di criteri di logica e di verosimiglianza che non si fondavano affatto su dati incerti, ma partivano da elementi certi. In questa prospettiva si è avuto modo di indicare che erano state richiamate le tonnellate di prodotti ‘trasferiti nei siti; le modifiche ai codici di identificazione dei rifiuti e i risultati delle analisi e delle conversazioni intercettate che davano conto della reiterata e prolungata modalità di gestione del trattamento.
3.3.4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ex artt. 517 e ss. cod. proc. pen., il vizio di motivazione e la nullità della decisione. Si annota come si verserebbe al cospetto di un fatto nuovo o diverso non enunciato nell’imputazione, che avrebbe generato oltre alla nullità della decisione anche la violazione dell’art. 6 Cedu par 1 e 3 lett. a) e b).
Si assume che la contestazione del disastro ambientale si sarebbe concretizzata attraverso lo sversamento dei rifiuti analiticamente indicati nell’imputazione. Contrariamente si afferma che, a differenza di quanto contestato, il ricorrente sarebbe stato ritenuto responsabile del delitto di disastro ambientale commesso attraverso lo sversamento del compost e di una significativa immissione di percolato da discarica nei regi lagni, sostanze diverse da quelle indicate nella contestazione e non assimilabili a esse.
Il motivo di ricorso, pur alla luce degli argomenti sviluppati, è infondato.
In primo luogo la contestazione fa espresso riferimento al continuo e ripetuto versamento di rifiuti di origine industriale. Essa, come si è avuto modo di anticipare nell’esame del tema dedotto negli altri ricorsi, contiene un’elencazione esemplificativa per enumerazione, ma non si tratta di una indicazione esaustiva del “fatto” penalmente rilevante e oggetto della contestazione. La descrizione, infatti, opera riferimento al versamento sui terreni a destinazione agricola e anche nei lagni (regi) (antico idronimo del reticolo di canali campano).
Ciò detto deve osservarsi che per “fatto”, da un punto di vista sostanziale, non può che intendersi il fatto descritto dalla fattispecie legale (cd. tatbestand) che ha una valenza astratta o cd. tipica. Esso risulta identico in ogni fattispecie legale, nonostante le modalità diversificate che afferiscono la sua realizzazione concreta e che attengono alle varianti commissive, interagendo sul piano dell’azione individuale. Né alcuno avrebbe dubbio nel ritenere che, a fronte di un fatto legale (o tipico) unitario, possano esistere varianti esecutive non numerabili. Gli aspetti concreti commissivi e le modalità di estrinsecazione costituiscono l’oggetto del giudizio in funzione della recuperabilità dell’accadimento storico al modello tipico legale. Una distinzione di tal fatta, tuttavia, non involge la conclusione che ogni variante materiale nella commissione del fatto astratto possa incidere sul giudizio di “conformità” cui è chiamato il giudice. Avranno incidenza solo quei profili che nella struttura dell’incriminazione svolgano il ruolo determinante in funzione della sussumibilità del fatto tipico, descrivendo elementi accessori (circostanziali) o strutturali (essentialia) che danno luogo a un fatto nuovo distinto, cioè, per modello legale.
Il diritto sostanziale non contiene espressamente in punto dogmatico approfondimenti sul fatto cd. “diverso”, tema che al contrario rileva per il sistema processuale e di cui, tra le altre norme, si occupa l’art. 521 cod. proc. pen. comma 2, imponendo restituzione degli atti al P.M. in difetto di modifica della contestazione ex art. 516 cod. proc. pen.
La diversità del fatto è considerata dal legislatore processuale in termini sensibilmente diversi dal profilo che caratterizza le categorie dogmatiche del diritto sostanziale e, soprattutto, in una valenza essenzialmente distinta dal piano della tipicità formale del modello legale descrittivo.
La diversità è, invero, ancorata alla descrizione che della condotta risulti nell’imputazione e, dunque, alla valenza descrittiva che sia stata riservata ad essa nella condotta che integra il nucleo centrale della imputazione.
Il richiamo, da parte della norma processuale, alla modalità in cui il fatto risulta descritto nell’imputazione e alla possibile diversità evoca ex se un riferimento non alla tipicità sostanziale (tema cui sono ispirate le disposizioni di cui agli artt. 517 e 518 cod. proc. pen.) ma all’oggetto dei segmenti materiali che definiscono il fatto tipico nell’accadimento concreto. Esso finisce per rappresentare la misura o lo strumento attraverso il quale se ne giudica la conformità alla fattispecie legale, attraverso un procedimento formale, che si risolve in definitiva in un giudizio di valore. La diversità del fatto di cui è fatta menzione negli artt. 516 e 521 cod. proc. pen. è, pertanto, una diversità che attiene al piano squisitamente processuale. Non riguarda il solo fatto tipico, nella sua dimensione normativa, ma l’imputazione di esso nel profilo empirico-descrittivo nella contestazione che risulta ascritta all’imputato. Su di essa, invero, si misurano i diritti e le facoltà delle parti (dal diritto di difesa a quello alla prova).
Perché sussista obbligo di modifica della contestazione e dovere simmetrico del giudice, in caso di violazione di obbligo siffatto, di emettere ordinanza ex art. 521 cod. proc. pen., occorre che la diversità abbia una forza espansiva di tale natura sul fatto descritto nell’imputazione da renderlo strutturalmente diverso da quello descritto. Ciò accade allorquando la diversità non afferisca ad elementi marginali o secondari o di valenza aggiuntiva che non risultano affatto decisivi per la struttura della contestazione e per il tema della prova. Occorre, cioè, un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità d’effettiva difesa (Sez. 6, n. 17799 del 06/02/2014, Rv. 260156; Sez. 6, n. 899 del 11/11/2014 Ud. (dep. 12/01/2015) Rv. 261925).
Nel caso di specie non si versa in primo luogo e per quanto detto al cospetto di un fatto nuovo in senso stretto.
La tipicità è inalterata e ricorre la contestazione del cd. disastro innominato nella sua forma aggravata di cui all’art. 434 comma 2 cod. pen.. Non si versa al cospetto di elementi di novità che attengono a delitti concorrenti connessi o meno a elementi che integrino fattori circostanziali non contestati nell’editto originario. Anche l’aggravante del disastro verificatosi risulta, infatti, descritta e ascritta nel tema d’imputazione.
Il fatto si assume in ricorso diverso da quello contestato in relazione allo spargimento del compost sui terreni agricoli e allo sversamento del percolato da discarica nei lagni.
Aspetti siffatti non trovano, tuttavia, supporto nei dati processuali.
La contestazione in primo luogo fa riferimento espresso allo spargimento dei rifiuti sui terreni agricoli. La circostanza che non menzioni direttamente il compost non assume rilevanza, ciò perché esso alla luce del tipo di condotte descritte e accertate nel processo e del tipo di contestazione rientrava nella generale categoria dei rifiuti illecitamente smaltiti con le modalità stesse indicate e la diffusione sui terreni a destinazione agricola.
La sentenza dà, infatti, conto delle modifiche dei codici Cer del rifiuto e della alterazione della natura stessa di essi in funzione dell’illecito smaltimento, oltre che delle false fatturazioni per coprire provenienza dei rifiuti stessi e relativa natura.
Si comprende allora come non sussista alcuna diversità del fatto in parte qua. Discorso non dissimile vale per la immersione del percolato nei lagni. Le immissioni di rifiuti nei lagni risultano, egualmente, oggetto di contestazione. Non occorreva affatto identificare il codice Cer del rifiuto stesso e indicarlo nella stessa imputazione. Il riferimento alla immissione nei canali è tema descrittivo sufficiente e, soprattutto, è argomento rispetto al quale si è ampiamente modulato e confrontato il diritto alla prova e quello di difesa.
Ciò posto si deve escludere la sussistenza delle dedotte nullità e la violazione della Convenzione edu nei termini prospettati.
4. Nell’interesse di Pellini Giovanni risultano presentati due distinti atti di impugnazione. L’uno a firma dell’avvocato Preziosi e l’altro a firma dell’avvocato Riccardi.
Entrambi sono infondati e devono essere respinti.
4.1. Il ricorso a firma dell’avvocato Preziosi lamenta con un primo motivo il vizio di contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il delitto di cui all’art. 434 comma II cod. pen.
4.1.1. Il motivo è infondato e la Corte territoriale, contrariamente a quanto dedotto, non è incorsa nella lamentata contraddittorietà della motivazione, con riferimento alla decisione assunta nei confronti del ricorrente delle società Pozzolana Flegrea e Igemar. Si è, invero, spiegata la ragione per la quale si era inteso giungere a distinte conclusioni sui siti gestiti dai Pellini e su quelli gestiti dalle anzidette società. La decisione impugnata non tratta la questione al solo fl. 52, come indicato in ricorso, ma si occupa del tema anche al fl. 63 chiarendo espressamente che per la Pozzolana gli argomenti spesi dall’impugnante non erano validi. In questa logica si sono confutate le argomentazioni e le deduzioni che si era preteso di inferire dall’attività di bonifica dell’anno 2011, osservando come si dovesse escludere che da circostanze siffatte si potesse inferire la prova del disastro ambientale. Ancora, la Corte si confronta con la natura dei rifiuti gestiti dalla Pozzolana (rifiuti si legge essenzialmente non pericolosi). D’altro canto, la decisione fonda la propria conclusione in fatto sulla esclusione, anche per la Igemar, della sussistenza del danno che caratterizzava l’evento-disastro, nel suo profilo di merito, non suscettibile di valutazione da parte della Corte di cassazione.
4.1.2. Il secondo motivo di ricorso risulta inammissibile.
A parte la sua genericità, contrariamente a quanto dedotto, l’atto di impugnazione risulta aver devoluto alla Corte d’appello anche la posizione specifica sul delitto di disastro ambientale dei fratelli Pellini, con la conseguenza che non vi sarebbe stata alcuna inammissibilità da dichiarare da parte del giudice del gravame.
4.1.3. Infondato è il terzo motivo di ricorso. Con esso si deduce la nullità della decisione avendo il giudice d’appello violato il principio di correlazione tra accusa e decisione. Sul terna, in punto di dlritto, basta rinviare a quanto si è avuto modo di dire sulla analoga questione già trattata in via generale e per la posizione del Pellini Cuono. Quanto agli ulteriori rilievi, comunque, esposti nel motivo di ricorso, a parte la circostanza che si tratta di osservazioni critiche in fatto che i giudici di merito hanno affrontato e disatteso, si deve osservare che attraverso la censura si mira a rimettere a questa Corte di legittimità una rivalutazione del risultato di prova, inammissibile in questa sede.
Non correlata alla decisione è la critica sviluppata sul tema del percolato da discarica. Si assume, in proposito, che la condanna avrebbe riguardato un rifiuto non contenuto nel capo di imputazione. Si trattava di un rifiuto non pericoloso speciale e sulla specifica vicenda vi sarebbe stato un evidente travisamento del dato istruttorio. In realtà, non ricorre l’affermato travisamento. La decisione di condanna ha richiamato la ripresa aerea non come unico elemento su cui fondare l’affermazione di penale responsabilità, ma come uno dei dati informativi che, letto congiuntamente agli elementi emersi in sede di istruttoria dibattimentale e che anche i giudici di primo grado avevano valorizzato, permetteva di ritenere che nella lettura complessiva e razionale si dovesse giungere a una conclusione diversa da quella cui erano pervenuti i primi decidenti, sulla sussistenza della verificazione del disastro.
In questa logica, dunque, è stata ripresa la deposizione del teste Luongo ed è stata richiamata la videoripresa eseguita, cui si è fatto riferimento, non per indicare la località in cui si produceva il percolato (come indicato in ricorso) ma per enucleare uno dei diversi elementi che indirizzavano nella interpretazione del quadro di prova disponibile. Il ricorso offre, in realtà, una valutazione diversa del risultato della prova, giungendo ad asserire che dal sito di via Tappia non potesse derivare percolato, sostanza prodotta, contrariamente, in Lenza Schiavone, ove era stato prelevato ed esaminato nelle analisi Arpac.
Si tratta di una conclusione assertiva e non fondata sui dati istruttori, che soprattutto non tiene conto della deposizione del teste sul cui contenuto non è nato alcun dubbio, né nella lettura dei giudici di primo grado, né in quella operata dai decidenti della Corte d’appello. Piuttosto) la differenza si è registrata sulla valenza di quella condotta ripresa dall’alto e sulle conseguenze informative che da essa se ne potevano trarre, avendo ritenuto, da un lato, i primi decidenti che la mancanza di analisi e di verifiche escludesse la possibilità di operare inferenze sulla dedotta condotta di inquinamento e, dall’altro, i giudici della Corte d’appello che quell’elemento, alla luce della deposizione dell’Auriemma e delle analisi Arpac, eseguite anche in altre circostanze, desse conto di un modus operandi che si sarebbe ripetuto anche a contrada Tappia. Non valgono in questa direzione a confutare quelle conclusioni, né le affermazioni dedotte in sede di legittimità sulla possibilità che le immissioni derivassero da altri scarichi abusivi, né quelle tese a supportare la tesi con rilievi fotografici che ne documentavano l’esistenza, ritraendo almeno un altro tubo con quella funzione. Con questi dati si rimette, invero, alla Corte di legittimità una vera nuova e ulteriore ricostruzione in fatto degli eventi, in difetto dei presupposti legittimanti.
In primo luogo la critica e l’articolazione a confutazione della motivazione assunta è di valenza puramente congetturale. Non si dimostra, infatti, con la produzione del richiamato rilievo fotografico, né la provenienza dello scarico né l’epoca di realizzazione del rilievo stesso, con oggettiva impossibilità di collocarne la consistenza e l’epoca di realizzazione.
A fronte di dati siffatti la Corte territoriale ha contrariamente valorizzato il portato logico di una deposizione del teste Luongo e ha chiarito come il colore della sostanza versata all’interno del canale fosse identico a quello contenuto nelle vasche presso il sito. Alla luce di queste indicazioni la dedotta censura di travisamento si rivela inconsistente.
Né colgono nel segno le ulteriori affermazioni, relative alla omessa considerazione delle affermazioni rese dal consulente a discarico Tigani, che avrebbe smentito nella prospettazione della difesa la tesi a carico, chiarendo come in ogni caso i rilievi Arpac non documentassero la consistenza specifica del rifiuto.
La critica articolata si scontra con un duplice rilievo che ha carattere insuperabile.
Il primo concerne l’autosufficienza del ricorso sul punto. Si pretende, cioè, di superare l’affermazione e la conclusione della sentenza -che aveva richiamato i risultati Arpac- allegando solo parzialmente i rilievi eseguiti dall’azienda pubblica e non unendo le dichiarazioni integrali del teste a carico Auriemma consulente del P.M. e quelle dello stesso consulente di parte. Si opera riportando la sola trascrizione del controesame della difesa per confutare la tesi a carico secondo una metodica che non risulta conforme ai principi affermati da questa Corte.
Per altro verso, attraverso quella allegazione in fatto, si assume la valutazione erronea della realtà istruttoria, conclusione, di converso, smentita dai verbali dei prelievi e dalla conclusione dell’Arpac stessa. Il consulente della difesa è, invero, giunto a ritenere che gli accertamenti e le conclusioni operate non fossero esaustivi per mancata caratterizzazione del tipo di idrocarburo e delle sostanze rinvenute nei distinti rifiuti. A ben vedere, il verbale in atti dà conto di dette sostanze, classificandole e chiarendo che si tratta di rifiuti con caratteristiche peculiari. Ciò vale per quelli provenienti da impianti di depurazione che risultano speciali pericolosi (all’interno dei quali sono presenti idrocarburi) e distingue tra compost in maturazione e stabilizzato, non operando alcuna confusione come adombrato in ricorso, ribadendo la natura di rifiuti privi di caratteristiche agronomiche, da smaltire in discarica di II categoria. Nella selezione degli elementi chimici, per la parzialità e non autosufficienza del verbale allegato al ricorso, si ignora se sia stato chiesto allo stesso consulente di parte di confrontarsi con la catalogazione degli idrocarburi stessi, ad alto peso molecolare (classificati risulta dal prelievo Arpac come C-10- e C40) e se detta classificazione potesse prescindere dal metodo di analisi DSMO cui il consulente ha fatto riferimento e ha indicato come omesso nella specifica vicenda di riscontro investigativo.
A ben vedere, tuttavia, il motivo di ricorso è anche infondato per altro profilo e non si confronta affatto con quanto a confutazione delle affermazioni del Tigani era emerso nel dibattimento. Il tecnico aveva affermato che per definire il profilo cancerogeno di un idrocarburo si dovesse porre in essere un’analisi specifica che desse conto della presenza di sostanze policicliche aromatiche. Sul tema, infatti, dà conto chiaramente la sentenza di primo grado, da ritenersi richiamata, il teste De Rosa, direttore dell’Uoc, aveva esposto che tutti gli idrocarburi vanno definiti, per cautela, come sostanze cancerogene, poiché dei 703 derivati dal petrolio e dal carbone, almeno 664 sono classificati come tali in prima e seconda categoria, sette sono di terza categoria e trentuno risultano nocivi (fil. 69 e 70 sentenza di primo grado).
Si comprende allora come i rilievi dedotti a fondamento del motivo di ricorso e i richiami alla stessa deposizione del consulente Tigani, perché privi di correlazione e decisività, risultino infondati.
Il quarto e il quinto motivo di ricorso sono egualmente infondati.
Si afferma la violazione dei principi stabiliti dalla Corte edu in ordine alla omessa rinnovazione degli atti dibattimentali essendo i giudici di secondo grado giunti a ribaltare la decisione precedente senza procedere ad un riesame dei testi e in ogni caso si assume la violazione del principio di motivazione rafforzata.
Il tema è stato già trattato nell’esaminare la posizione del Pellini Cuono e si può operare rinvio a quanto già affermato. Qui basta ribadire che il motivo di ricorso sul punto è anche privo di decisività. Non si spiega in che termini le dichiarazioni utilizzate potessero indurre un esito decisorio diverso. Il contenuto dichiarativo risulta, invero, identico nelle due sentenze. Varia, piuttosto, l’insieme valutativo e la scelta del metodo di conoscenza e di lettura della prova in questione.
Non vi è, pertanto, un problema di attendibilità delle fonti o di credibilità delle dichiarazioni da riscontrare attraverso il contraddittorio processuale. Ciò che rileva nella specie è la diversità del metodo probatorio seguito per l’accertamento del fatto e il criterio logico che ha indotto a fondare l’affermazione della penale responsabilità. In ciò risiede la ragione per la quale, a giudizio di questo Collegio, non sussisteva obbligo di procedere alla rinnovazione delle fonti orali, fonti sul cui contributo narrativo non v’è dubbio alcuno e sulle quali convergono le valutazioni del primo e del secondo giudice. Del resto. la divergenza afferente la complessiva, valutazione del materiale probatorio nel suo insieme e in una lettura logico-razionale ha spinto la Corte d’appello a ritenere ampiamente dimostrata la sussistenza dell’evento di danno legato appunto al disastro. A ben riflettere, allora, si comprende come, da un lato, non vi sia alcuna violazione della regola del contraddittorio, né dell’oralità e, dall’altro, come non ricorresse la necessità di procedere ad alcuna rinnovazione nell’assunzione di fonti già sentite, che erano interpretate in termini identici a quanto aveva già fatto il giudice di primo grado. La variante decisoria era, contrariamente, indotta dalla ponderazione del complessivo compendio probatorio, orale e documentale, secondo quanto si è avuto modo già di dire.
4.1.4. Sulla scorta di queste premesse si rivelano infondati il quinto e il sesto motivo di ricorso e la doglianza relativa alla omessa integrazione dell’istruttoria attraverso una perizia (tema egualmente esaminato e cui si può operare rinvio).
4.1. 5. Il settimo motivo è infondato. Si può operare richiamo a quanto già evidenziato relativamente al significato della clausola di riserva contenuta nell’art. 452 quater cod. pen.. Si devono, pertanto, escludere le due possibili interpretazioni proposte in ricorso: sia quella relativa alla abrogazione dell’art. 434 cod. pen. in relazione alla persistenza di una ipotesi di disastro applicabile in materia ambientale a prescindere dalle nuove disposizioni sia in relazione alla persistenza di una forma di disastro ambientale minore che troverebbe applicazione nei casi non recuperabili all’ipotesi di cui all’art. 452-quater o di mero inquinamento ambientale.
4.1.6. L’ottavo motivo di ricorso risulta egualmente infondato.
Si duole il ricorrente della intervenuta liquidazione nei confronti delle parti civili non impugnanti la sentenza, a fronte dell’impugnazione del P.M. e dell’accoglimento del suo appello. La questione è stata già esaminata da questa Corte che ha, appunto, ritenuto che il giudice di merito dovesse provvedere sulle domande delle parti civili stesse (SS. UU. nr. 30327 /2002).
Nella specie osserva il ricorrente che il tribunale di primo grado aveva anche escluso il nesso di causalità tra la morte del gregge e la condotta ascritta, elemento questo che avrebbe precluso in difetto di impugnazione da parte delle costituite parti civili la pronuncia sulle relative domande al cospetto dell’impugnazione del solo P.M..
Contrariamente, questa Corte ha avuto modo di evidenziare che il giudice di appello che, a seguito dell’impugnazione del solo pubblico ministero, condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, deve provvedere anche sulla domanda della parte civile che non abbia impugnato la decisione assolutoria (Sez. 3, n. 15902 del 03/03/2016 Ud. (dep. 18/04/2016) Rv. 266637; Sez. 5, n. 20343 del 29/01/2015 Ud. (dep. 15/05/2015), Trotta, Rv. 264076).
Sul tema di merito si deve, poi, annotare come la stessa deposizione del consulente della difesa, Castaldo, avesse evidenziato che vi fosse il problema della tossicità indotta dalla diossina e come avesse il medesimo consulente elaborato la propria posizione senza procedere ad alcun accertamento sugli ovini o sui luoghi spiegando di essersi avvalso di studi e accertamenti operati in astratto. Aveva, infatti, spiegato che una forma chiara di tossicosi era stata rilevata dal dirigente del rispettivo servizio, tossicosi che interessava i mangimi e le erbe infette (cfr. fl. 16 della deposizione).
Si intende, dunque, come le ipotesi alternative astrattamente adombrate come ipotesi egualmente possibili si riducessero sensibilmente e come nell’incidenza probabilistica lasciassero spazio minimo razionalmente ipotizzabile alla verificazione dell’evento secondo iter causali diversi da quello indotto dall’ambiente inquinato in cui gli animali, appunto, pascolavano.
4.2. Infondato è ancora il ricorso nell’interesse di Pellini Giovanni a firma dell’avvocato Riccardi.
4.2.1. In primo luogo, la parte introduttiva di critica in generale alla sentenza si fonda su temi non rilevanti ai fini dell’odierno decidere.
A parte la generica censura sull’impiego della prova logica e delle massime di esperienza che secondo il ricorrente non sarebbero state neppure enucleate dal giudice d’appello, si deve osservare che in termini specifici non risultano pertinenti i richiami alla ricezione dei rifiuti della Nuova Esa e della Servizi Costieri, né quelli che riguardano l’esito decisorio del troncone veneto del processo in cui i Pellini non sarebbero stati coinvolti o il trasferimento dei rifiuti in altre regioni come il Lazio e la Toscana. I riferimenti territoriali ai rifiuti trasferiti nelle due località da ultimo indicate e la particolarità che non siano state eseguite contestazioni per disastro ambientale è un dato ininfluente ai fini della decisione, giacché non è dimostrato in primo luogo che in quelle aree siano stati trasferiti i rifiuti che erano, al contrario, rimessi ai siti campani e dall’altro si tratta di elementi di fatto che non hanno alcun nesso di connessione con quelli oggetto di processo. Né risulta dimostrato che la stessa qualità e quantità di rifiuti ivi rimessa fosse pari o assimilabile a quella dirottata presso i siti gestiti dai Pellini odierni imputati.
Sulla scorta di quanto premesso si intende la non pertinenza della considerazione e l’infondatezza della critica sviluppata in relazione alla mancata contestazione per quelle condotte del disastro cd. ambientale.
A soluzione non dissimile si deve giungere in relazione ai punti critici comparativi articolati in ricorso, in relazione alla posizione del Marrone, per la società Igemar, posizione per la quale la Corte d’appello aveva ritenuto non sussistente la prova del disastro ambientale, addivenendo a conclusioni diverse sulla scorta di medesimi presupposti di prova e di spessore logico.
Il ragionamento della Corte d’appello, annota il ricorrente, non sarebbe stato condivisibile poiché erroneamente e in maniera scarna si era valorizzata la situazione idrogeologica e l’altezza della falda, oltre all’elevato contenuto di idrocarburi nel compost e il percolato immesso direttamente nei canali, con il cambio di colore del corso d’acqua.
I temi affrontati in ricorso, in buona parte sono stati già esaminati e si opera rinvio a quanto già detto. Risultano, tuttavia, infondati anche nei profili specifici secondo quanto si passa a esporre.
In primo luogo, una parte non marginale delle questioni poste attiene a profili di merito, che di per sé risultano inammissibili in sede di legittimità.
La critica mossa alla decisione impugnata, secondo cui le tipologie di rifiuti (compost e percolato) in relazione alle quali era stato ritenuto esistente il delitto di disastro ambientale risultano estranee alla contestazione, non è convincente e va respinta, riponendo gli argomenti già affrontati sui motivi di ricorso analoghi sviluppati nell’interesse di Pellini Salvatore e Pellini Cuono. In ogni caso il delitto è stato ritenuto in via logica dalla Corte territoriale, non solo valorizzando i due tipi di rifiuti indicati, ma elaborando in chiave razionale i dati informativi che l’intero processo aveva evidenziato.
L’esame specifico delle singole categorie di rifiuti, ancora, che figurano nell’imputazione di cui al capo B) della rubrica, che va intesa in termini di esemplificazione, si incentra su una serie di elementi di fatto elaborati innanzi questa Corte senza che sia possibile nella sede di legittimità rielaborarne i risultati della prova su cui si è espresso il giudice di merito, non disponendo la Corte stessa dell’accesso diretto agli atti integrali del processo. A parte, infatti, la mancanza di autosufficienza su taluni dei temi dedotti, va evidenziato che spesso si giunge a riferimenti e richiami di deposizioni o affermazioni dei consulenti, utilizzate solo per estratto e senza dare la possibilità a questo Collegio di verificare in che termini quelle affermazioni siano o meno smentite da altri dati istruttori. I richiami ai singoli rifiuti e la ricostruzione del trattamento nella gestione di essi seguono, invero, l’iter evidenziato.
Non si considera, infatti, in ricorso quanto aveva valorizzato già il primo giudice e che la Corte territoriale ha dato per presupposto e pacificamente acquisito al processo.
Si è, infatti, appurato che i rifiuti provenienti dalla Nuova Esa e dalla Servizi costieri confluivano tra l’altro in Campania ed erano conferiti alla ditta Pellini. Il processo ha permesso, contrariamente a quanto dedotto, di accertare che i produttori dei rifiuti (reclutati dalla Nuova Esa e alla Servizi Costieri) attribuivano una causale di deposito preliminare. Le due società anzidette li conferivano, dunque, con causale di recupero, alle diverse ditte e nonostante ciò fosse vietato, trattandosi di rifiuti provenienti da attività di bonifica di siti inquinati.
Buona parte di quei rifiuti doveva essere smaltita in discarica speciale e non si sarebbe potuta avviarla al recupero, come, al contrario, avveniva. Oltre alle terre e alle rocce provenienti da siti inquinati erano selezionati fanghi industriali che, al pari, avevano caratteristiche non diverse. Il tutto avveniva attraverso operazioni di modifica dei codici CER. La Servizi Costieri riceveva i fanghi industriali, derivanti anche dal polo conciario di Montebello Vicentino, con percentuali di cromo elevate e che non potevano essere destinati al recupero dovendo essere smaltiti in discarica di seconda categoria di tipo B. La causale D, che i prodotti avrebbero dovuto assumere (per essere avviati allo smaltimento) era trasformata in “R” e, dunque, si produceva un’apparente legittimazione al recupero, attraverso un’operazione non consentita.
A seguito di ricostruzione siffatta vi fu l’intervento del 28/3/2003 presso i siti di Tappia e Contrada Lenza Schiavone, ove erano rispettivamente un impianto di trattamento di liquidi e di stoccaggio e uno di compostaggio e betonaggio. Presso l’impianto di compostaggio erano depositati in cumuli fanghi, rifiuti lignei rifiuti cimiteriali, banconote triturate. Nel solo mese di dicembre 2003, si era appurato che dalla Nuova Esa erano stati conferiti alla ditta Pellini, sito di Via Tappia, 503.560 Kg di rifiuti con codice 070701; i costi affrontati per il recupero erano, come intuibile, decisamente inferiori a quelli del conferimento in discarica.
Il ricorso non si confronta con quanto emerso e ancora con l’accesso presso il sito di Acerra del 3/10/2002.
Soffermandosi sull’impianto di compostaggio era stato appurato che esso era privo di rifiuti che, per normativa di settore.sì sarebbero dovuti composta re per 90 giorni. Ciò nonostante dai registri di carico e scarico erano transitati ivi in quel frangente temporale circa 53 milioni di Kg di rifiuti. In questa logica si dedusse che il prodotto era uscito prima del termine e quando era ancora un rifiuto e non aveva raggiunto le caratteristiche del compost. D’altro canto essendosi accertato che non era stato venduto alcunché se ne dedusse che era stato, appunto, sparso sui terreni agricoli. Dai formulari si era verificato che presso l’impianto di betonaggio erano stati ricevuti rifiuti pericolosi (incompatibili con esso). Si trattava di rocce e terre da scavo. Dal 22 agosto furono eseguiti servizi di osservazione, per riscontrare l’intuizione investigativa e presso il sito di compostaggio di Lenza Schiavone, notata l’uscita di camion e trattori, furono seguiti. Si appurò che scaricavano il materiale su un terreno della zona Asi-Acerra di proprietà dei Pellini stessi. Altro trattore aveva trasportato il materiale su altro sito e, dopo averlo scaricato, aveva posto in essere l’operazione della fresatura.
Del resto, si è indicato come i rifiuti che erano stati oggetto del processo veneto, chiuso con condanne irrevocabili, derivavano dai processi di metallurgia termica dell’alluminio e non erano idonei a essere ricevuti dagli impianti indicati e gestiti dai Pettini.
Era stata, altresì, appurata l’attività di miscelazione non consentita di rifiuti e l’attribuzione di codici CER di comodo, per renderli formalmente compatibili con gli impianti di destinazione, senza indicare che si trattava di rifiuti derivanti dalla miscelazione di sostanze pericolose.
I fanghi derivanti dalla Servizi Costieri erano esaminati dal laboratorio Chelab ed erano smaltibili in discarica di seconda categoria di tipo B (per rifiuti speciali pericolosi e tossico nocivi). Si trattava di rifiuti conferiti anche alla Pellini s.r.l. dalla servizi Costieri, là dove la ditta ricettrice avrebbe potuto ricevere solo rifiuti provenienti dalla depurazione di reflui civili (risultavano al contrario anche quelli del Consorzio medio Chiampo – fanghi industriali ricevuti dal depuratore di Montebello vicentino, nonché delle discariche industriali del polo conciario). Furono inviate alla Pellini s.r.l. 66575,24 tonnellate di rifiuti che provenivano da medio Chiampo.
Per la presenza di zinco e cromo non si sarebbe potuto avviare i rifiuti al recupero con impiego in agricoltura. Si è, del resto, verificato come rifiuti con causale D, partiti per il conferimento alla ditta Pellini assumessero dopo circa un’ora causale R (mutamento irrealizzabile in quella frazione temporale, così trasformandone il ciclo e dirottando i prodotti dallo smaltimento verso un non consentito recupero).
La sentenza di primo grado ricostruisce il ciclo dei rifiuti e ne traccia le operazioni illecite dalla genesi al conferimento, spiegando come le verifiche presso i siti di destinazione dei medesimi Pellini in relazione ai rifiuti provenienti dalla Nuova Esa non avessero le caratteristiche per essere recuperati in ambiente con immissione diretta.
La contaminazione da idrocarburi era superiore a quella ammessa e presentava una concentrazione pari a circa il 410% rispetto ai valori soglia. Ciò si spiegava nella caratterizzazione del ciclo di provenienza del rifiuto con la circostanza che erano utilizzate partite di terreni di bonifica provenienti dalla decontaminazione di siti inquinati, appunto, da idrocarburi.
Ancora nella decisione di primo grado risulta affrontato il tema della gestione dei rifiuti da parte della Igemar e quello legato alle attività poste in essere dalla Decoindustria. Sul punto. la decisione (fil. 63 e ss) permette di verificare che la società indicata aveva trasferito rifiuti con i codici 070101, 070701, 190814. La società Pellini, si è, al pari, spiegato aveva ricevuto Kg. 524.440 di rifiuti con il primo codice; kg 583,400 con il secondo, kg 1.218690, con il terzo codice. Il rifiuto con il codice 070101 non era depurabile nell’impianto dei Pellini (biologico a fanghi attivi) e in grado di trattare solo liquami a medio carico organico, depurabili in via biologica. Si è appurato, altresì, che i rifiuti non corrispondevano con quanto riportato nei formulari e che i codici CER non corrispondevano all’origine del rifiuto stesso, poiché la Decoindustria li trattava modificandone la natura. Tra i diversi rifiuti vi erano proprio le “code di distillazione”, derivanti da solventi delle matrici acquose senza alcun processo di detossificazione. Il prodotto, ciò nonostante, era classificato come fango, là dove restava un rifiuto e si sarebbe dovuto smaltire con la termodistruzione. Attraverso la progressiva attribuzione di codici e le modifiche di essi si giungeva, pertanto, a ritenerli “fanghi” prodotti da altri trattamenti delle acque reflue industriali e, dunque, ad avviarli al recupero attribuendo illegittimamente la qualificazione di “fanghi industriali non pericolosi”. Tra ottobre 2002 e marzo 2003 la Pellini aveva ricevuto Kg 2.326.530 di detti rifiuti e aveva qualificato Kg. 1.218.690 come fanghi là dove si trattava di code di distallazione.
Si intende alla luce di quanto detto come le deduzioni in ricorso svolte sui singoli tipi di rifiuti non siano rilevanti e come al contrario il processo abbia dato ampiamente conto della illecita attività e gestione dei rifiuti posta in essere presso i siti dei Pellini. D’altro canto i riferimenti formali alle caratteristiche dei codici e la pretesa qualificazione dei rifiuti in ragione dell’attribuzione del singolo codice risultava chiaramente un dato inappagante e privo di ogni logica e plausibile consistenza alla stregua di quanto si era appurato e verificato anche attraverso le dichiarazioni e gli accertamenti degli stessi consulenti tecnici.
Neppure colgono nel segno le critiche mosse in relazione ai temi dello sversamento nei Lagni e alla vicenda dei Cannavacciuolo.
La prima questione interamente ripresa nel ricorso per cassazione con temi e aspetti in gran parte di puro merito è ininfluente, ai fini della decisione e della assunta condanna per il delitto di disastro ambientale.
La valutazione frazionata che si opera della vicenda risulta, infatti, indicativa di un metodo nella lettura dei dati di prova per più versi atomistico e che non permette di coordinare i distinti elementi che contrariamente i primi giudici e quelli di secondo grado hanno evidenziato, sia pur in funzione di soluzioni diverse date al tema giuridico e di fatto scrutinato.
Nella specie basta operare rinvio a quanto si è già avuto modo di dire sulla specifica questione esaminata anche negli altri motivi di ricorso nell’interesse di Pellini Salvatore e Pellini Cuono. Qui deve ribadirsi esclusivamente che lo sversamento nei regi lagni non è l’unico profilo commissivo attraverso cui si è ritenuto sussistente il fatto di disastro innominato e che la ricostruzione della vicenda attraverso le dichiarazioni del teste Luongo è in parte nel video cui fa riferimento lo stesso ricorrente e in altra parte nella affermazione da costui fatta relativa al colore che l’acqua del canale assunse, colore per più aspetti identico a quello della sostanza contenuta nella vasca di percolato. Tutte le ulteriori asserzioni, a parte la verifica in fatto che rimettono alla Corte di legittimità, risultano, comunque, non decisive, giacché si è avuto modo di dire il rilievo fotografico non dimostra né l’epoca dello scatto né documenta l’epoca di eventuale apertura dello scarico, che si assume esistente. Soprattutto, non è idoneo a superare la percezione ritratta dal teste Luongo nel visionare dall’alto la scena. Del resto, la specifica vicenda è uno degli indicatori sulle modalità di gestione delle attività e smaltimento dei rifiuti modalità che non esauriscono la specifica gamma dell’addebito e che si unisce agli altri elementi valorizzati e ponderati per giungere ad una conclusione diversa da quella del giudice di primo grado. Ciò è accaduto in ragione essenzialmente della quantità dei rifiuti trattati e smaltiti e della caratteristica di essi che non rispondevano ai codici CER e alla tracciabilità secondo i parametri normativi.
Prive di decisività e correlazione sono, poi, le motivazioni sviluppate in ricorso sulla posizione dei Cannavacciuolo. Non rilevano gli affermati ristori del 1996 per una forma virale per la perdita di bestiame, né altri indennizzi per gli abbattimenti eseguiti in funzione della contaminazione da diossina.
La Corte d’appello ha qui ritenuto che, contrariamente a quanto aveva fatto il giudice di primo grado, esistesse l’affermato nesso di causalità e ne ha offerto congrua e adeguata spiegazione che risulta da un lato non smentita dalle considerazioni svolte nel ricorso e dall’altro non ulteriormente sindacabile, rimettendo anche attraverso il richiamo agli studi del Ministero per le politiche agricole dei territori nell’acerrano che presentavano rischi di contaminazione da diossina, per inferirne l’impossibilità della contaminazione delle aree ove pascolavano le greggi dei Cannavacciuolo.
Né valgono i richiami e gli sviluppi argomentativi relativi alla sentenza di questa Corte resa in fase di indagini 40330/2006. Basta qui richiamare quanto si è già avuto modo di spiegare in precedenza sul significato in astratto della decisione e sull’impiego fattone dai giudici di merito.
Non risultano poi rilevanti i riferimenti alle modalità in cui operavano i fratelli Pellini. A parte la mancanza di decisività, poiché non è stata la forma e lo statuto giuridico di operatività della ditta Pellini a indurre la condanna per il disastro ambientale, ma la gestione illegale dei rifiuti nel trattamento e nello smaltimento, si deve comunque annotare che neppure in primo grado si è negata la circostanza che costoro operassero in regime ordinario, dandone atto la stessa sentenza di merito. Anche il richiamo ai contributi dichiarativi dei collaboratori non risulta determinante.
Si incentra il ricorso sull’inattendibilità delle dichiarazioni rese e si richiamano i motivi di astio del Di Fiore verso Pellini Giovanni, oltre al contrasto con le dichiarazioni del De Falco, l’inattendibilità del Froncillo e la genericità e inconsistenza di quanto aveva riferito il Di Giovanni per assumere l’inconsistenza delle accuse. In questa logica si evidenzia come le dichiarazioni rese da costui sul conferimento del compost nel sito della Pozzolana Flegrea si fosse rivelato infondato, aspetto che aveva indotto anche le assoluzioni nella parte relativa. Ebbene e al di degli aspetti di discrasia possibili tra le dichiarazioni dei diversi collaboratori va annotato come la Corte d’appello abbia attraverso il richiamo a quanto aveva già fatto il primo giudice ritenuto di valorizzare i punti in cui vi era convergenza tra le dichiarazioni dei collaboratori con un ragionamento che non presenta tratti di manifesta illogicità o altri vizi deducibili in sede di legittimità. Né spetta alla Corte di cassazione un nuovo scrutinio di credibilità delle fonti in difetto di un percorso argomentativo che possa assumere i crismi del vizio censurabile.
4.2.2. Con il secondo motivo di ricorso si censura la ritenuta e affermata illegittimità delle autorizzazioni di cui sarebbero stati in possesso i Pellini, autorizzazioni che risulterebbero solo formalmente lecite, ma in realtà non commisurate e conformi ai rifiuti ricevuti e trattati.
Il motivo di ricorso è inammissibile. Con esso si ricostruisce il quadro normativo di riferimento senza, tuttavia, annotare il punto di decisività ai fini della decisione e senza confrontarsi con il reale iter loqìco giuridico a sostegno della decisione. In particolare si deve evidenziare che la condanna non risulta affatto fondata sul dato indicato e che piuttosto e contrariamente quel profilo non risulta posto a fondamento del percorso che ha indotto a ritenere esistente il delitto di disastro ambientale nella forma di cui all’art. 434 comma II cod. pen..
Privo di decisività il tema non rileva ai fini della destrutturazione del ragionamento logico posto a fondamento della condanna.
Né il motivo di ricorso spiega in che termini a prescindere da quel dato la decisione sarebbe potuta essere diversa e pur alla luce della indicata ricostruzione del ciclo di rifiuti smaltiti e gestiti con le anzidette modalità.
4.2.3. Il terzo motivo è infondato e va egualmente disatteso alla luce di quanto si è avuto modo di anticipare in punto di successione tra fattispecie considerazioni che qui vanno ribadite, sia per il fatto di inquinamento ambientale introdotto dall’art. 452 bis cod. pen. sia di disastro ambientale introdotto dall’art. 452 quater, che per il ravvedimento operoso.
4.2.4. Quanto alle deduzioni in relazione alla omessa motivazione sulla esistenza dell’associazione sul ruolo del Pellini Giovanni di carattere direttivo basta qui evidenziare che la Corte territoriale attraverso il richiamo generale della motivazione di primo grado non ha ritenuto di condividere i motivi d’appello relativi alla insussistenza del fatto associativo ed è giunta a ritenere sussistente il fatto stesso, così confermando la declaratoria d’esistenza della causa estintiva della prescrizione. Anche sul ruolo che specificamente il Pellini Giovanni avrebbe avuto, la Corte ha, sia pur sinteticamente, valorizzato il contributo offerto su un tema e un’attività centrale concretizzatasi appunto nella gestione dei rifiuti concordando l’attribuzione di codici CER di comodo con l’Iseè. Questo aspetto è stato ritenuto determinante per l’intera struttura afferendo una attività essenziale, in difetto della quale sarebbe venuto meno il nucleo centrale della stessa attività associativa.
4.2.5. Inammissibile è il quinto motivo di ricorso. Assume il ricorrente che il Pellini Giovanni risulterebbe destinatario di una decisione di prescrizione in relazione ai fatti di cui agli artt. 51 e 53 bis D. Lgs. 22/97, nonostante vi fosse la prova che i rifiuti intermediati non fossero pericolosi.
La critica avanzata sul punto è priva di correlazione con la motivazione della decisione e con i risultati della attività istruttoria. Si è, infatti, chiarito attraverso il richiamo alla sentenza di primo grado, che i codici formalmente risultanti dai formulari e che erano attribuiti ai rifiuti stessi fossero assegnati in maniera non conforme alla normativa vigente, per farli risultare avviabili al recupero, là dove al contrario si trattava di rifiuti da destinare allo smaltimento in discariche di seconda fascia di tipo B.
4.2.6. Quanto al motivo di ricorso sulla restituzione dei beni in sequestro, previa bonifica dei siti si devono svolgere le seguenti brevi considerazioni.
In primo luoqo non risulta che nella sentenza di primo grado che il Tribunale avesse restituito i beni in ragione dell’intervenuta bonifica. Si legge piuttosto che la decisione di parziale restituzione fosse relativa alla affermata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. La modifica in secondo grado della decisione stessa con intervenuta condanna per il reato di cui all’art. 434 comma II cod. pen. non rende ex se illegittima, pertanto, la statuizione in astratto della restituzione all’esito della operata bonifica.
Le questioni che risultano dedotte sulla intervenuta bonifica non emergendo dagli atti sono, pertanto, tema da verificare in sede esecutiva, con ogni ulteriore conseguenza. In particolare se effettivamente eseguita la restituzione dei beni non v’è interesse a ricorrere sul punto, là dove come rappresentato in sequestro residuerebbero solo due documenti (decreti ingiuntivi) e nella parte relativa la statuizione sulla bonifica dovrebbe essere ritenuta tamquam non esset per sua inconciliabilità logica con la natura dei beni. Al contrario, là dove i beni siano ancora in sequestro e non si sia operata restituzione le verifiche sulla affermata bonifica richiedono accertamenti da eseguire in executivis e l’acquisizione di dati informativi di cui non dispone questa Corte. Il motivo di ricorso per come formulato va, pertanto, disatteso.
4. 2.7. Il sesto ed ultimo motivo afferisce al trattamento sanzionatorio.
La sentenza impugnata reca, tuttavia, un’adeguata, sia pur concisa motivazione, sul punto, avendo evidenziato, da un lato, che alla concessione del beneficio delle circostanze attenuanti generiche erano d’ostacolo l’obiettiva gravità dei fatti e dall’altro, avendo ritenuto che quel dato incidesse in sostanza anche in punto di quantificazione della pena.
E principio più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità e che va qui ribadito che, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (ex plurimis, Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163).
Di talché, la sentenza impugnata, avendo esplicitato le ragioni preponderanti della propria decisione sul punto, in modo adeguato e non illogico, non può essere sindacata in cassazione, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (tra tante, Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi, Rv. 242419).
Risultando sul punto la motivazione adeguata il motivo di ricorso risulta inammissibile.
4.3. Vanno egualmente respinti i temi prospettati nell’interesse di Pellini Giovanni, sviluppati nelle memorie depositate rispettivamente il 10/5/2017 e il 27/4/2017.
In quest’ultima si sviluppano argomenti già indicati nel quarto e quinto motivo di ricorso a firma dell’avvocato Preziosi e si può operare rinvio a quanto già indicato. Basta qui ribadire anche quello che si è esplicitato in relazione alla posizione del Pellini Cuono e a confutazione della specifica doglianza per chiarire che non occorreva procedere a una rinnovazione dell’esame delle fonti orali, non sussistendo alcun “diverso” apprezzamento del contenuto delle deposizioni, né della attendibilità di esse. La diversa decisione è stata in realtà indotta attraverso una valutazione complessiva dell’intero materiale di prova che ponderato nella sua integralità, richiamando i contenuti narrativi e gli esiti delle investigazioni, delle intercettazioni e delle acquisizioni e verifiche documentali, ha rivelato ai decidenti l’esistenza di un evento di disastro che in primo grado si era piuttosto escluso e ritenuto provato, nella sua sola potenzialità di verificazione così generando la fattispecie di pericolo di cui al comma 1 dell’art. 434 cod. pen. e di danno di cui al secondo comma.
Non risulta, dunque, conferente il richiamo a S.U. 28 aprile 2016, n. 27620, sul tema della rinnovazione istruttoria, poiché nella specifica vicenda processuale lo stesso carattere di decisività della prova che si assume esistente e che si sarebbe dovuto rinnovare, non ricorre. L’indicato profilo di centralità non attiene, invero, alle deposizioni dei dichiaranti, apprezzate nella rispettiva obiettività del dato riferito, ma al metodo di prova impiegato nei due giudizi metodo che ha condizionato la conoscenza e la diversità di decisione assunta.
Mentre, si è detto, il primo giudice ha ritenuto che la prova del disastro dovesse necessariamente passare attraverso dati dimostrativi scientifici, che dessero conto della sua esistenza il secondo giudice, valorizzandone la dimensione empirico- materiale e i connotati di straordinaria gravità ha concluso che esso potesse inferirsi anche alla luce della consistenza della attività posta in essere e dello stato dei luoghi interessati dalle condotte delittuose.
In questa logica sono state richiamate le dichiarazioni del teste Auriemma, l’altezza della falda acquifera, la percezione del Luongo e la quantità immane di rifiuti, trattati attraverso preventive manipolazioni dei codici CER, per inferire che da attività siffatta dovesse necessariamente discendere una conseguenza di alterazione di complessità e gravità in tutto conforme al disastro.
Si intende allora come il tema di decisività della prova, non si agganci alla deposizione del singolo teste o al contributo narrativo orale, ma attenga alla complessiva base dimostrativa prodottasi sul fenomeno nell’intero processo, base che nell’intera valutazione ha indotto una diversa conclusione, giuridico-materiale sull’evento di disastro.
La seconda memoria contiene, al contrario, riferimenti e dati informativi non utilizzabili né allegabili al giudizio di legittimità. Essa richiama, in primo luogo, correzioni di rapporti informativi che avrebbero riguardato altro imputato e che non hanno nessi di collegamento né incidenza sulla posizione del ricorrente e, per altro verso, aspetti e richieste di acquisizioni atti, in funzione della rettifica dei risultati di analisi che non risultano ammissibili in questa sede.
5. Alla luce di quanto premesso i ricorsi devono essere respinti con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Segue, altresì, la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e Cannavacciuolo Mario che liquida per ciascuno in euro 4000 per onorari di avvocato oltre spese generali I.V.A. e C.P.A., come per legge.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e Cannavacciuolo Mario che liquida per ciascuno in euro quattromila per onorari di avvocato, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A., come per legge.
Così deciso in Roma, il 17 maggio 2017.