Rifiuti. Gestione non autorizzata, terre e rocce da scavo, regimi di deroga e test di cessione. Cassazione Penale n. 2401/2018.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 2401 del 22 gennaio 2018 (ud. del 5 ottobre 2017)

Pres. Savani, Est. Scarcella

Rifiuti. Gestione non autorizzata di rifiuti. Attività di gestione in forma semplificata. Condizioni prescritte all’atto della richiesta iniziale o nella richiesta di rinnovo – Difformità dal titolo o dalle condizioni. Terre e rocce da scavo e materiali di risulta da demolizione. Distinzione. Applicabilità del regime in deroga. Effettiva destinazione finale alla produzione. Configurabilità del reato di discarica abusiva. Test di cessione sui rifiuti: non spetta all’acquirente ma ai produttori di rifiuti. Artt. 184-ter, 186, 214, 216 e 256 d. lgs. n. 152/2006. 

In tema di rifiuti, lo svolgimento di attività di gestione in forma semplificata, al di fuori delle condizioni prescritte all’atto della richiesta iniziale o nella richiesta di rinnovo, fa insorgere il pericolo, che il legislatore ha voluto prevenire, richiedendo l’assoggettamento dell’attività ad un controllo della Pubblica Amministrazione, divenendo conseguentemente illegale ai sensi dell’art. 256, comma primo, lett. a), d. lgs. n. 152 del 2006, la prosecuzione in difformità dal titolo o dalle condizioni indicate nella richiesta, di rinnovo o di rilascio iniziale.
In tema di gestione dei rifiuti, ai fini dell’applicabilità del regime in deroga previsto dall’art. 186, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, le terre e rocce da scavo devono essere distinte dai materiali di risulta da demolizione, in quanto mentre lo scavo ha per oggetto il terreno, la demolizione ha per oggetto un edificio o, comunque, un manufatto costruito dall’uomo (Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008 – dep. 01/10/2008, Picchioni). A ciò, inoltre, va aggiunto che al fine di stabilire se una determinata sostanza rientri nella categoria delle materie prime secondarie, la valutazione deve essere compiuta con riferimento alla attuale, effettiva destinazione finale alla produzione. Il relativo apprezzamento, attinendo al fatto, è incensurabile in Cassazione, se sorretto da adeguata motivazione (Sez. 3, n. 8429 del 05/07/1991 – dep. 30/07/1991, Jieanmonod). Ne consegue, pertanto, anche l’irrilevanza delle censure difensive circa l’individuazione dei soggetti gravati degli oneri di esecuzione delle attività di accertamento analitico, ed i pretesi riflessi sulla configurabilità del reato di discarica abusiva.
Infine, si ricorda che il test di cessione sui rifiuti non spetta all’acquirente ma ai produttori di rifiuti.
 
Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 2401 del 22 gennaio 2018 (ud. del 5 ottobre 2017)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
– MASCHERONI MARCO PRIMO METELLO,n. 29/11/1974 a Milano;
avverso la sentenza della Corte d’appello di MILANO in data 28/03/2017;
visti gli atti, il provvedimento denunziato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. G. Pratola, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
udite, per il ricorrente, le conclusioni del difensore, Avv. F. Busignani, in sostituzione dell’Avv. D. Sussman detto Steinberg, che si è riportato ai motivi di ricorso;

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 28.03.2017, depositata in data 24.04.2017, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del tribunale della stessa città del 17.06.2016, appellata dal Mascheroni, assolveva il medesimo dal reato di gestione non autorizzata di rifiuti (consistita nell’aver svolto un’attività di recupero di rifiuti speciali non pericolosi in assenza di autorizzazione) contestatogli al capo a) della rubrica, limitatamente alla condotta di aver gestito “cumuli di calcestruzzo derivante dal lavaggio delle autobetoniere in prossimità delle aree di transito” (lettera e) della contestazione sub a) per non aver commesso il fatto, rideterminando per l’effetto la pena condizionalmente sospesa in 11 mesi e 15 gg. di arresto ed € 11.750,00 di ammenda, confermando nel resto l’appellata sentenza che lo aveva riconosciuto colpevole, oltre che delle residue contestazioni del reato di cui al capo a) della rubrica (art. 256, co. 1, lett. a), d. lgs. n. 152 del 2006), contestate come commesse tra il 25.10.2011 ed il 3.07 .2012, anche per aver effettuato un deposito incontrollato di rifiuti speciali (capo b), art. 356, co. 2, in relazione al co. 1, lett. a), d. lgs. n. 152 del 2006, contestato come commesso in data 3.07.2012), per aver effettuato all’interno del sito aziendale riconducibile alla ditta individuale di cui è titolare un’attività di recupero di rifiuti speciali non pericolosi con plurime inosservanza delle condizioni di cui al d.m. 5.02.1998 e di quelle contenute nella comunicazione di rinnovo attività di recupero del 14.02.2008 ai sensi degli artt. 214 e 216 T.U.A. (capo e), art. 256, co. 4, d. lgs. n. 152 del 2006, contestato come accertato il 25.10.2011, il 4.01.2012 ed il 3.07.2012), per aver realizzato abusivamente un terrapieno in assenza di p.d.c. realizzando una modificazione permanente del suolo inedificato (capo d), art. 44, co. 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, contestato come accertato in data 25.10.2011) ed, infine, per aver realizzato e gestito una discarica non autorizzata di rifiuti speciali non pericolosi con modifica sostanziale dello stato dei luoghi e progressivo degrado ambientale (capo e), art. 256, co. 3, d. lgs. n. 152 del 2006, contestato come accertato il 25.10.2011), fatti contestati come consumati secondo le modalità esecutive e spazio – temporali meglio descritte nei singoli capi di imputazione.
2. Contro la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, iscritto all’albo speciale ex art. 613 cod. proc. pen., deducendo otto motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 157 e 161, co. 2, c.p., in combinato disposto con gli artt. 256, co. 3 e 4, d. lgs. n. 152 del 2006 e 44, co. 1, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001, attesa l’intervenuta estinzione per prescrizione, antecedentemente alla pronuncia della sentenza d’appello, dei reati di cui ai capi da c.1 a c.9 e del capo c.11, del capo d), dei capi e.1 ed e.2 della rubrica.
In sintesi, sostiene il ricorrente che erroneamente il primo giudice ha ritenuto che i reati contestati dovessero intendersi consumati in data 3 luglio 2012, data dell’ultimo sopralluogo effettuato presso la cava della ditta Mascheroni; in realtà, come emerge dalle stesse affermazioni del tribunale, i sopralluoghi effettuati erano stati tre, il primo del 25/10/2011, il secondo del 4 gennaio 2012 ed, il terzo, del 3/7/2012; in occasione dei primi due sopralluoghi erano state contestate le violazioni compendiate nei capi di imputazione per i quali si chiede la declaratoria di estinzione per prescrizione; per tutti quei fatti, pertanto, la data di consumazione del reato dovrebbe individuarsi nel 25/10/2011 o nel 4/1/2012, data in cui si dà atto dell’asserito rilevamento delle violazioni indicate; nel verbale di sopralluogo del 3/7/2012 nulla si dice quanto all’eventuale sussistenza delle violazioni precedentemente rilevate, con la conseguenza, pertanto, che per tutti gli addebiti il termine di prescrizione risultava spirato tutt’al più a far data dal 4/1/2017, ossia in data antecedente alla pronuncia della sentenza d’appello, con la conseguenza che in relazione a tutte le predette violazioni, la sentenza dovrebbe essere annullata senza rinvio per essere i detti reati estinti per prescrizione, maturata prima della sentenza che qui si impugna.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. e), c.p.p., sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 191 e 498 c.p.p., essendo stato escluso il diritto della difesa a contro-esaminare la teste Airaghi, escussa solo dal PM e dal giudice, senza che vi fosse stata alcuna rinuncia al controesame da parte della difesa, con conseguente inutilizzabilità della predetta deposizione, utilizzata dal primo giudice per fondare il giudizio di colpevolezza per i capi a.b), c) – fatta eccezione per il capo c.10 -, d) ed e) della rubrica.
In sintesi, sostiene il ricorrente che con il secondo motivo di appello era stata censurata la violazione della normativa in materia di modalità di assunzione della testimonianza, in quanto non era stato possibile alla difesa contro esaminare la teste del pubblico ministero Airaghi, esaminata invece sia dall’accusa che dal giudice; la motivazione fornita dalla Corte d’appello a confutazione del relativo motivo sarebbe errata (ossia non aver la difesa mai lamentato nulla né risulterebbe essere stata coartata nel diritto di procedere al controesame della teste essendo anzi emerso che la difesa avesse posto domande integrando quelle del giudice); in realtà, si sostiene che all’udienza del 17/12/2015 era stato solo il pubblico mini- stero ad esaminare la predetta teste d’accusa con rinvio all’udienza del 12/2/2016 per proseguire l’audizione; all’udienza di rinvio solo il giudice avrebbe proceduto al suo esame, senza che il pubblico ministero potesse concludere il proprio, ma soprattutto senza che alla difesa venisse consentito il controesame; si sostiene che, dal tenore stesso delle domande poste, il difensore, nel corso dell’esame diretto da parte del giudice della testimone d’accusa, avrebbe solo eseguito interventi meramente incidentali, mai qualificabili come controesame, il quale dunque non sarebbe stato concesso alla difesa; la violazione dell’articolo 498 circa le modalità di assunzione della prova orale è causa di inutilizzabilità patologica ai sensi dell’articolo 191 del vigente codice di rito e, quindi, trattandosi di inutilizzabilità, la relativa eccezione non era soggetta ad alcun termine di decadenza; poiché la deposizione è stata utilizzata dal giudice quale elemento di prova in relazione ai capi di imputazione sopradescritti, ne conseguirebbe l’annullamento della sentenza con riferimento alle predette imputazioni.
2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 184-ter e 256, co. 1, lett. a) e co. 3, d. lgs. n. 152 del 2006, e correlati vizi di omessa valutazione del secondo motivo e di appello ed erronea interpretazione della normativa inerente l’autorizzazione al trattamento dei rifiuti, di contraddittorietà rispetto alle risultanze istruttorie dell’affermazione secondo cui il ricorrente non avrebbe sollecitato la Provincia ad indicare l’area ove proseguire l’attività di cava, di scorretta interpretazione della normativa inerente la qualificazione di un materiale come rifiuto ed erronea definizione quale discarica delle aree di cui al capo e), con conseguente illegittimità della disposta confisca.
In sintesi, sostiene il ricorrente che la Corte d’appello non avrebbe minimamente valutato l’articolato secondo motivo di gravame, limitandosi a dei commenti generici ed atecnici, riportandosi integralmente alla motivazione del primo giudice, senza dare atto del proprio ragionamento ovvero dei motivi per cui ritenesse valide le prospettazioni di cui alla sentenza del primo giudice e non quelle seriamente e tecnicamente argomentate della difesa; sul punto, anzitutto, si osserva come la sussistenza di una regolare autorizzazione alla gestione ed al trattamento dei rifiuti pericolosi rivestisse carattere di premessa fondamentale rispetto all’analisi da compiersi; a tal proposito, sarebbe stato documentato come il Mascheroni avesse, alla data del 14/2/2008, e dunque nel pieno rispetto del termine previsto dall’articolo 216, comma quinto, decreto legislativo n. 152 del 2006, presentato alla provincia di Milano tutta la documentazione richiesta dal predetto articolo 216 in occasione della tempestiva (in quanto presentata entro i cinque anni) domanda di rinnovo della autorizzazione allo svolgimento dell’attività di gestione di rifiuti non pericolosi in procedura semplificata, e di come egli avesse altresì corredato detta istanza di tutte le autorizzazioni ottenute nel gennaio 2009 riguardo alle emissioni in atmosfera; alla luce di quanto disposto dall’articolo 216, è alla provincia competente che spetta valutare la sussistenza ai fini della concessione dell’autorizzazione originaria o rinnovata, ciò dovendo avvenire nel termine perentorio di 90 giorni decorso il quale, ove non intervenga un provvedimento motivato di divieto, l’autorizzazione è da intendersi tacitamente concessa o rinnovata; nella specie, non risulterebbe essere intervenuto alcun provvedimento di diniego entro il predetto termine, donde il ricorrente era legittimato a proseguire la propria attività sicuramente fino al sopralluogo del 25/10/2011, avvenuto a distanza di oltre tre anni dalla proposizione dell’istanza di rinnovo; non risponderebbe quindi al vero sotto il profilo giuridico che l’azienda del ricorrente abbia illegittimamente operato o ch’egli abbia proseguito la propria attività in violazione di un divieto mai intervenuto; nonostante quanto sopra eccepito in sede di appello, i giudici non avrebbero mai risposto limitandosi a richiamare la sentenza di primo grado che nulla motiverebbe in relazione a tale rilievo, con la conseguente omissione motivazionale della sentenza d’appello.
2.3.1. Con l’ulteriore doglianza di cui al motivo in esame, la difesa del ricorrente ricorda come il 25/10/2011, a seguito del sopralluogo presso la cava, venne di- sposto il sequestro da parte del pubblico ministero, poi seguito dalla ordinanza di dissequestro il 21/12/2011; nel provvedimento il magistrato aveva disposto che gli incaricati della provincia di Milano individuassero con precisione le aree di stoccaggio all’interno della cava ove questi potesse regolarmente proseguire la propria attività professionale, adempimento cui la provincia non aveva mai dato attuazione, anzi sollevando una serie di osservazioni, successivamente riversate in un provvedimento di conformazione del 30/1/2012, attraverso cui si intimava al ricorrente di operare tutta una serie di adeguamenti in un margine temporale assai esiguo, 20 giorni per alcuni e 60 per altri; in relazione a tali adempimenti il teste a difesa, ing. Ventola, avrebbe confermato che il primo termine sarebbe stato rispettato, mentre quanto al secondo, sarebbe stata richiesta una proroga senza tuttavia ottenere alcun riscontro da parte dell’amministrazione provinciale; nonostante quanto sopra, e quindi in presenza di una evidente negligenza dell’amministrazione, nel corso del sopralluogo successivo, gli incaricati della provincia avrebbero riscontrato le stesse identiche anomalie che avrebbero invece dovuto essere adeguate nel termine dei 60 giorni di cui era stata richiesta la proroga, con la conseguenza che il successivo 18 luglio 2012 era stata emessa una nuova disposizione dirigenziale impositiva di ulteriori divieti e di azioni nel rispetto di scadenze temporali ristrette; la sentenza di appello, laddove sostiene che il Mascheroni non avrebbe sollecitato la provincia ad indicare l’area ove proseguire l’attività, risulterebbe contrastante con quanto affermato dal teste Ventola, peraltro erroneamente richiamando la norma dell’articolo 216, quarto comma, del testo unico ambientale laddove afferma che il ricorrente avrebbe proseguito la sua attività successivamente ai divieti imposti con la disposizione del 18/7/2012, atteso che la predetta norma si riferisce ad una ipotesi differente.
2.3.2. Quanto ancora all’ulteriore profilo di doglianza contenuto nel motivo in esame, e vertente sulla corretta qualificazione di rifiuto non pericoloso del materiale rinvenuto, si censura quanto affermato dai giudici di appello che avrebbero completamente aderito alta prima sentenza, evitando di rispondere alle censure in diritto sollevate dalla difesa e fondate su fatti sorretti da testimonianze e documenti, trincerandosi dietro un’opera di delegittimazione dell’appello pur di non affrontare in maniera tecnica te censure proposte; a tal proposito, ricorda la difesa di aver addotto non solo il contributo di due esperti in materia, ma anche la documentazione specifica attestante la corretta qualificazione dei materiali oggetto del procedimento, ossia i test di cessione e le curve granulometriche eseguite su in- carico dello stesso ricorrente; a fronte di tale determinazione difensiva volta a dimostrare come non ci si trovasse affatto in presenza di rifiuti ma di m.p.s., il primo giudice, seguito da quelli d’appello, avrebbe dato credito a quanto affermato dai testi dell’accusa Rossio ed Airaghi, qualificando detto materiale come rifiuto, senza che i predetti testi avessero fornito indicazioni sulla tipologia di accertamenti effettuati per qualificare i materiali come rifiuti e senza che nessuno dei giudici motivasse onde smentire gli elementi probatori favorevoli all’imputato; l’unica norma da considerare per stabilire se il materiale proveniente dalle demolizioni è rifiuto o m.p.s. è l’articolo 184-ter del testo unico ambientale, sicché non tenendone conto, i giudici avrebbero commesso anche la predetta violazione di legge; sarebbe stata poi omessa la doverosa distinzione tra i test da eseguire sui rifiuti in ingresso ed i test da eseguire sulle m.p.s., dimenticando invece che il test di cessione sui rifiuti non spetta all’acquirente, ma ai produttori di rifiuti, cui incombe l’onere di redigere e presentare i piani di scavo, mentre spetta a chi recupera il rifiuto, ossia al ricorrente, procedere alle analisi del prodotto recuperato al fine di dimostrare la sussistenza dei requisiti previsti dalla norma dianzi evocata; e ciò è quanto sarebbe stato fatto dal ricorrente, il quale ha allegato alla memoria difensiva tutti i test di cessione e le prove granulometriche fatte eseguire sul materiale stoccato dopo la lavorazione da società o dipartimenti universitari commissionari, senza dubbio eseguiti per conto del committente Mascheroni e non certamente da “alcuni produttori di rifiuti”, come genericamente indicato nella sentenza d’appello; ne discenderebbe dunque come il Mascheroni non abbia violato la norma di cui all’art. 256, primo comma, lettera a), del testo unico ambientale; del resto, l’individuazione erronea dei soggetti effettivamente gravati dall’onere di esecuzione dei test qualitativi delle materie da loro trattate avrebbe inevitabilmente inglobato anche quella relativa alla titolarità dell’obbligo di presentazione dei piani di scavo, erroneamente attribuendo al ricorrente la rilevata incompletezza dei medesimi, laddove si consideri che non spetta al cessionario delle macerie da demolizione predisporre e presentare i piani di scavo, bensì al cedente costruttore che effettua materialmente lo scavo; ne discende, pertanto, che l’aver imputato al ricorrente la trasmissione di alcune copie di piani di scavo incompleti nonché di non aver ottemperato all’onere probatorio sul rispetto dei requisiti stabiliti per le terre e rocce da scavo ai fini dell’esclusione dal campo di applicazione della disciplina in materia di rifiuti sarebbe scorretto ed illogico, atteso che la predetta qualificazione quale terre e rocce da scavo in luogo di rifiuti, deve essere accertata unicamente attraverso l’esecuzione di quel test di cessione e delle curve granulometriche, regolarmente eseguiti dal ricorrente, i quali certificavano come i materiali rinvenuti fossero da definirsi terre e rocce da scavo; da qui la logica conseguenza di come non fosse imputabile al ricorrente il reato di discarica non autorizzata di rifiuti speciali, atteso che la parte di sentenza volta identificare i cumuli di materiale come rifiuti risulterebbe viziata sotto il profilo motivazionale, palesando l’erronea applicazione della legge penale e rendendo dunque illegittima la disposta confisca.
2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 256, co. 1, lett. a) e co.3, d. lgs. n. 152 del 2006 e 44, co. 1, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001, attesa la genericità del criterio utilizzato per quantificare il materiale contenuto nei cumuli di terra di cui ai capi a), d) ed e) della rubrica, e correlato vizio di motivazione contraddittoria rispetto alla memoria difensiva e di motivazione illogica nella parte in cui richiama la prima sentenza, con conseguente illegittimità della disposta confisca.
In sintesi, sostiene il ricorrente che sarebbe arbitrario il criterio di quantificazione del materiale rinvenuto, atteso che la Corte d’appello si sarebbe limitata a richiamare il materiale fotografico e le deposizioni testimoniali censurando l’operato della difesa che non avrebbe opposto calcoli diversi; quanto sopra non risponderebbe al vero poiché proprio nella memoria depositata in primo grado risulterebbe riportata una tabella numerica riassuntiva che evidenzia il rispetto delle soglie dei quantitativi in giacenza costruita sui dati ricavati dai MUD, a ciò aggiungendosi come più volte lo stesso ricorrente avesse manifestato la propria disponibilità a verificare i reali quantitativi stoccati, mai ricevendo risposta, ponendosi dunque evidentemente in contraddizione la motivazione della sentenza d’appello con le risultanze documentali acquisite al processo; in ogni caso si censura la carenza ed illogicità motivazionale laddove la sentenza giustifica le quantificazioni dei cumuli di materiale oggetto di imputazione (il riferimento è a quanto descritto alle pagine 14/15 del ricorso in cui si descrivono i cumuli di materiale ed i criteri attraverso cui sarebbe intervenuto il relativo calcolo dimensionale), evidenziandosi come risulterebbe del tutto incerta la quantificazione dei predetti cumuli ritenuta come condizione necessaria per la tenuta degli addebiti.
2.5. Deduce, con il quinto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., sotto il profilo della violazione di legge in relazione alla lett. a) del co. 1, art. 256 d. lgs. n. 152 del 2006 (capo b), sotto il profilo della mancanza della motivazione in ordine alla qualificazione dei fusti contenenti emulsione acida come rifiuto e della contraddittorietà della motivazione con quanto emerso in sede istruttoria, ossia che i fusti risultavano funzionali all’attività di asfaltatura delle strade e quanto all’asserita assenza di pavimentazione con la deposizione del teste Ventola. In sintesi, sostiene il ricorrente che la conferma della sentenza di condanna in relazione al reato di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sub B) susciterebbe notevoli perplessità; a tal proposito, i giudici si sarebbero richiamati alla motivazione della prima sentenza secondo cui era sufficiente osservare il fascicolo fotografico per rendersi conto di come vi fossero dei fusti sistemati in una parte della cava; quanto sopra sarebbe in contraddizione con quanto illustrato sia dal Mascheroni che dal teste Ventola, i quali avevano spiegato come la sostanza di tipo “emulsione bituminosa” non possa qualificarsi come rifiuto, trovando essa impiego sul manto stradale nelle procedure di asfaltatura; a ciò va aggiunto come tali fusti non fossero abbandonati ma semplicemente accantonati affinché il loro contenuto fosse utilizzato al momento del bisogno, non essendo destinati alla vendita ma alle attività lavorative della ditta, ed, inoltre, che i contenitori della predetta sostanza risultavano poggiati su una superficie pavimentata, ossia su superficie impermeabilizzata, oltre ad essere contabilizzati in un apposito registro di carico scarico tenuto dalla dipendente Motta e smaltiti tramite ditte autorizzate; a tal proposito si sostiene che non risponderebbe al vero quanto affermato in sentenza circa la mancanza di documentazione attestante l’effettiva destinazione dei predetti fusti, essendo stata sul punto escussa proprio la teste Motta che aveva spiegato le ragioni per cui non le era stato possibile in un primo momento aderire alla richiesta della provincia di ispezionare i registri, essendosi dovuta assentare per un grave lutto familiare, avendo poi provveduto successivamente ad esibire personalmente agli accertatori le registrazioni dalla stessa tenute; oltre la evidente contraddittorietà di quanto affermato con tale emergenza processuale, la motivazione delle sentenze di merito difetterebbe di qualsiasi argomentazione circa il ragionamento seguito per giungere a ignorare il contenuto delle predette dichiarazioni testimoniali, senza neanche dar conto di quale fosse stato l’iter tecnico scientifico seguito e di eventuali analisi tecniche svolte dalla polizia giudiziaria per qualificare la sostanza bituminosa ed i fusti come rifiuti, onde determinare l’insussistenza o la inidoneità del bacino di contenimento.
2.6. Deduce, con il sesto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., sotto il profilo della violazione di legge in relazione all’art. 256, co. 4, d. lgs. n. 152 del 2006 (capo e), sotto il profilo dell’assenza della motivazione di appello e della contraddittorietà della motivazione del primo giudice quanto ai singoli adde- biti sub c), con alcuni atti del processo.
In sintesi, sostiene il ricorrente che sarebbe evidente in relazione a tale capo d’imputazione la contraddittorietà nella descrizione dei fatti contestati, atteso che o il ricorrente operava senza alcuna autorizzazione rilasciata dalla provincia di Milano, come ipotizzato al capo A) della rubrica, oppure lo stesso operava in totale inosservanza delle prescrizioni contenute nelle richiamate autorizzazioni, come invece ipotizzato al capo C) della rubrica; in ogni caso, si osserva, anche in relazione a questo capo di imputazione i giudici di appello non avrebbero operato alcuno sforzo valutativo adagiandosi del tutto sul provvedimento del primo giudice; ora proprio con riferimento a quest’ultimo si censura il fatto che il primo giudice avesse ritenuto responsabile l’imputato del reato predetto indipendentemente da qualsiasi approfondimento circa la prescrizione violata, compresi i presupposti della medesima, per esempio senza considerare l’inerzia dell’amministrazione provinciale rispetto a quanto disposto dal pubblico ministero nel provvedimento di dissequestro in ordine alla individuazione e delimitazione delle aree di stoccaggio e di recupero delle materie prime, ritenendo il primo giudice che in ogni caso la responsabilità ricadesse sul ricorrente, il quale aveva invece provveduto a individuare da sé le predette aree proprio per impedire danni economici alla propria azienda ed a quelle che da lui acquistavano le materie prime per effettuare i relativi lavori; nel ricorso si procede poi ad un’analitica illustrazione delle contestazioni mosse al ricorrente, tutte corredate dal medesimo rimprovero di non aver fornito adeguata prova a smentita delle medesime, evidenziando la contraddittorietà della motivazione con gli atti indicati e richiamati alle pagine da 19 a 22 del ricorso (il riferimento è anzitutto alla ritenuta assenza di impermeabilizzazione del basamento sottostante l’area di stoccaggio dei rifiuti, ed alla mancata valutazione delle analisi eseguite sul materiale sottostante il cumulo di materie macerie regolarmente stoccate, nonché alla mancata valutazione delle dichiarazioni del teste Ventola a differenza di quelle del teste De Stefani, le quali sarebbero state interpretate in un’ottica prettamente accusatoria, ed alla conseguente censura di mancanza della illustrazione delle ragioni tecnico-scientifiche a sostegno della convinzione del giudice secondo cui la presenza di uno strato costituito dal limo depositato in sede di attività di cava non potesse rivestire una adeguata funzione di platea impermeabilizzata; in secondo luogo, quanto alla ritenuta mancanza di impermeabilizzazione delle superfici esterne all’area dei rifiuti e di un sistema di raccolta delle acque meteoriche, non sarebbe stata valutata correttamente la deposizione del teste Ventola che avrebbe invece confermato quanto sostenuto dal ricorrente, ossia che all’interno della cava vi è un’apposita area impermeabilizzata ove si effettua recupero dei rifiuti, l’unica che deve rispondere ai requisiti di impermeabilizzazione e di capacità di far confluire le acque meteoriche nel laghetto di cava, come richiesto dalla normativa; in terzo luogo, quanto alla ritenuta assenza di un sistema di raccolta o decantazione dei fanghi residui, si censura il travisamento della risposta fornita dal teste Ventola, avendo egli spiegato la ragione per cui nella cava dell’imputato non fosse necessario un sistema di raccolta come indicato nell’imputazione; in quarto luogo, quanto al ritenuto stoccaggio di rifiuti in cassoni metallici privi del codice identificativo, non si sarebbe tenuto conto di quanto riferito dalla teste Motta; in quinto luogo, con riferimento alla questione del frantumatore Klemann, rispetto al quale viene contestato il mancato adeguamento del macchinario alle autorizzazioni relative alle emissioni in atmosfera, si evidenzia come tale mezzo fosse stato temporaneamente noleggiato in prova dall’imputato per testarne la capacità di frantumazione e poterne così fare un raffronto con il macchinario REV di sua proprietà regolarmente autorizzato, osservandosi come la richiesta delle predette autorizzazioni spetti al proprietario del macchinario e non all’utilizzatore, con la conseguenza che non competeva al ricorrente provvedere in tal senso; si censura peraltro la risposta fornita onde confutare la tesi difensiva che non avrebbe tenuto conto di quanto affermato dal teste Ventola, il quale aveva escluso di aver mai assistito ad un utilizzo simultaneo dei due macchinari, precisando peraltro su chi incombesse per legge la titolarità degli obblighi autorizzativi da richiedere alle autorità.
2.7. Deduce, con il settimo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., sotto il profilo della violazione di legge in relazione all’art. 10, d.p.r. n. 380 del 2001 quanto ai capi d) ed e.2), atteso il travisamento della predetta norma e correlato vizio di contraddittorietà della motivazione quanto alla ritenuta necessità di un’autorizzazione sul punto con le deposizioni dei testi Ventola e De Stefano, dovendosi escludere la sussistenza dell’abuso edilizio con conseguente illegittimità dell’ordine di demolizione.
In sintesi, sostiene il ricorrente che con riferimento ai predetti reati, ossia di aver realizzato un terrapieno e che ciò costituirebbe un abuso edilizio, pur riconoscendo alla Corte di essersi presa carico di una autonoma motivazione, sarebbe censura- bile l’approdo cui giudici sarebbero pervenuti, ossia che la destinazione diretta a proteggere da rumori e polveri le abitazioni direttamente confinanti sarebbe già indice della stabilità dell’opera, per poi qualificare il mucchio di terra in parola come intervento di nuova costruzione, e dunque soggetto a p.d.c. in base alla norma di cui all’art. 10 del testo unico dell’edilizia; a tal proposito, la difesa con- testa che il predetto terrapieno rientri nel campo di applicazione della norma, non trattandosi né di manufatto né di una struttura, e comunque osservando come lo stesso fosse finalizzato alle attività lavorative della ditta del ricorrente e come, del resto, le dimensioni definite impressionanti in realtà sarebbero solo quantità nor- mali di materiali, tenuto conto della produzione annua di inerti della cava pari a 80.000 m3 donde le dimensioni di 50.000 m3 sarebbero in realtà poco più della quantità di materiale lavorato in mezzo anno; in ogni caso, si sarebbe trattato di materiale sciolto e dunque privo dei caratteri della permanenza, non rilevando la destinazione provvisoria con finalità di protezione antirumore e antipolvere rispetto alle abitazioni limitrofe, non essendo questa la destinazione finale ma trattandosi di terre e rocce da scavo in attesa di essere vendute e lavorate; a ciò peraltro andrebbe aggiunto come tutte le azioni ed iniziative relative al predetto terrapieno erano state intraprese dal ricorrente di concerto con gli enti preposti, come dimostrato dalla documentazione allegata alla memoria difensiva a proposito del terrapieno in contestazione, oltre al rilievo secondo cui la barriera antirumore non risultava composta da materiale qualificato come rifiuto, ma da materiale sciolto di tipo terre e rocce da scavo, come confermato dai test eseguiti dal Mascheroni.
2.8. Deduce, con l’ottavo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., sotto il profilo della violazione di legge in relazione all’art. 81, cpv. e 133 c.p., e correlato vizio di motivazione carente quanto al ritenuto giudizio di congruità della pena irrogata e degli aumenti in continuazione disposti.
In sintesi, sostiene il ricorrente che la pena inflittagli sarebbe assolutamente eccessiva in quanto non contenuta nel limite edittale minimo nonché in relazione agli aumenti di pena per la continuazione; i giudici di appello avrebbero ritenuto la pena base aderente alla gravità dei fatti come gli stessi aumenti in continuazione, senza tuttavia considerare gli altri parametri indicati all’articolo 133, c.p.; non si sarebbe tenuto conto che il ricorrente ha sempre svolto una regolare attività lavorativa, ha saputo costruire attorno a sé una realtà produttiva, ha scelto lealmente di difendersi nel processo presenziando a tutte le udienze, contribuendo alla ri- cerca della verità; conclusivamente, il suo ottimo comportamento processuale avrebbe dovuto essere valutato al fine di contenere la pena per ridurre gli aumenti in continuazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è inammissibile.
4. Premesso, in linea generale, che il ricorso appare articolato quale mera “riedizione” dei medesimi motivi già esposti nell’atto di appello, prestando il fianco ad un giudizio di complessiva genericità (a tal proposito dovendosi ricordare che la motivazione della sentenza di appello può essere censurata con ricorso per cassazione solo nei limiti in cui era sorto, sulla base di un ammissibile e specifico motivo di appello, l’obbligo del giudice di secondo grado di un’adeguata risposta alle censure formulate: Sez. 6, n. 546 del 18/11/2015 – dep. 08/01/2016, P.G. in proc. D’Ambrosia e altri, Rv. 265883), può procedersi nell’esame dei singoli motivi.
5. Seguendo l’ordine suggerito dalla struttura dell’impugnazione proposta in questa sede di legittimità, deve essere esaminato anzitutto il primo motivo di ricorso, con cui la difesa dell’imputato sostiene l’intervenuta estinzione per prescrizione, antecedentemente alla pronuncia della sentenza d’appello, dei reati dì cui ai capi da c.1 a c.9 e del capo c.11, del capo d), dei capi e.1 ed e.2 della rubrica.
Il motivo è manifestamente infondato.
E’ sufficiente, al fine di evidenziare la manifesta infondatezza del motivo, richiamare quanto argomentato nella sentenza di primo grado, di cui vi è ampia sintesi in quella d’appello (e le cui motivazioni, com’è noto, si integrano reciprocamente: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), per individuare le ragioni per le quali il dies a quo da cui far decorrere il termine di prescrizione dei reati deve essere individuato nel 3.07.2012 (data dell’ultimo sopralluogo), atteso che non può certamente individuarsi detto termine iniziale nella data del sequestro (25.10.2011), laddove, infatti, emerge dagli elementi richiamati dalle sentenze di merito che l’imputato aveva proseguito nell’attività, nonostante l’intervenuto sequestro, peraltro essendo risultato dal tenore del provvedimento di dissequestro come questi non fosse libero di operare come se nulla fosse accaduto. Sul punto, si legge, in particolare a pag. 7 della sentenza d’appello, richiamando la motivazione del tribunale, che «il provvedimento di dissequestro adottato dal PM non consentiva all’imputato di proseguire l’attività di stoccaggio dei rifiuti come erroneamente ritenuto dall’imputato. Il PM, infatti, nel suo provvedimento espressamente disponeva: “l’adozione di ogni iniziativa opportuna, compresa l’imposizione di eventuali prescrizioni tecniche (. … ), al fine di garantire il funzionamento in condizioni di salubrità e sicurezza dell’impianto oggetto della presente restituzione”».
Deve, quindi, convenirsi con il fatto che la prosecuzione dei comportamenti illeciti sino alla data del terzo sopralluogo, unita alla natura permanente degli illeciti contestati, consentiva di individuare nella data del 3.07.2012 quella di cessazione della permanenza, con conseguente manifesta infondatezza del primo motivo.
6. Proseguendo nell’esame dei motivi aventi natura processuale, deve essere esaminato il secondo motivo di ricorso attinente ad un preteso vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 191 e 498 c.p.p., essendo stato escluso il diritto della difesa a contro-esaminare la teste Airaghi, escussa solo dal PM e dal giudice, senza che vi fosse stata alcuna rinuncia al controesame da parte della difesa, con conseguente inutilizzabilità della predetta deposizione, utilizzata dal primo giudice per fondare il giudizio di colpevolezza per i capi a.b), e) – fatta eccezione per il capo c.10 -, d) ed e) della rubrica.
Il motivo è manifestamente infondato.
La Corte d’appello, sul punto, confuta la analoga censura prospettata in quella sede di merito a pag. 19 della sentenza impugnata, chiarendo non soltanto come l’eccezione non fosse tempestiva in quanto non dedotta alle udienze del 17.12.2015 e del 12.02.2016, ma precisando anche come il difensore fosse intervenuto più volte nel corso dell’esame diretto del giudice, esplicando l’attività di intervento in maniera non qualificabile come incidentale. A ciò, infine, va aggiunto, ad escludere qualsivoglia incidenza della pretesa violazione delle regole processuali in materia, che la violazione delle regole sull’assunzione delle prove testimoniali non determina certamente la inutilizzabilità della prova dichiarativa assunta. Questa Corte ha infatti più volte affermato che in tema di esame del testimone, l’eventuale intervento del giudice prima della conclusione dell’esame e del controesame ad opera delle parti non configura un’ipotesi di inutilizzabilità della testimonianza, verificandosi questa solo laddove la prova venga assunta in presenza di un divieto e non anche quando la stessa, pur consentita, sia effettuata in violazione delle regole previste per l’assunzione (Sez. 3, n. 27068 del 20/05/2008 – dep. 04/07/2008, B., Rv. 240262).
7. Può quindi procedersi all’esame del terzo, più articolato motivo, attraverso il quale vengono svolte censure di violazione di legge in relazione agli artt. 184-ter e 256, co. 1, lett. a) e co. 3, d. lgs. n. 152 del 2006, e correlati vizi di omessa valutazione del secondo motivo di appello ed erronea interpretazione della norma- tiva inerente l’autorizzazione al trattamento dei rifiuti, di contraddittorietà rispetto alle risultanze istruttorie dell’affermazione secondo cui il ricorrente non avrebbe sollecitato la Provincia ad indicare l’area ove proseguire l’attività di cava, di scorretta interpretazione della normativa inerente la qualificazione di un materiale come rifiuto ed erronea definizione quale discarica delle aree di cui al capo e), con conseguente illegittimità della disposta confisca.
Anche tale motivo è manifestamente infondato, oltre che generico per le ragioni di cui si dirà oltre.
Quanto alla questione secondo cui egli avrebbe operato legittimamente per aver provveduto alla presentazione dell’istanza di rinnovo entro i cinque anni dalla scadenza dell’autorizzazione alla gestione dei rifiuti in forma semplificata, non essendo intervenuto alcun diniego entro il termine di novanta giorni previsto dall’art. 216, d. lgs. n. 152 del 2006 (” …. l’esercizio delle operazioni di recupero dei rifiuti può essere intrapreso decorsi novanta giorni dalla comunicazione di inizio di attività alla provincia territorialmente competente … “), la spiegazione è stata fornita dal primo giudice e correttamente richiamata dalla Corte d’appello alla pag. 19 della sentenza impugnata. Sul punto, in particolare, la Corte d’appello, nel confutare “il primo punto del secondo motivo di appello”, richiamando la motivazione della sentenza di primo grado, mostra di condividere la soluzione cui era pervenuto il primo giudice, sottolineando come la normativa in materia ” … non può tutelare i comportamenti illeciti posti in essere oltre i 90 giorni dai controlli prefettizi, ma esige che tutte le attività legate ai rifiuti siano svolte nel rispetto della normativa e laddove esulino dall’autorizzazione, integrino attività abusiva di gestione. Non basta il possesso dell’autorizzazione se le attività poste in essere non siano in esse ricomprese perché in tal caso si versa appieno nella condotta contestata”.
La censura, a fronte della confutazione dell’identico motivo di appello con argomenti logici ed immuni dai denunciati vizi, è dunque generica per aspecificità, donde la stessa dev’essere anzitutto dichiarata  inammissibile. Va, infatti, ribadito che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
La doglianza, peraltro, si appalesa anche manifestamente infondata, in quanto, quand’anche si ritenesse valido l’assunto difensivo circa la liceità della prosecuzione dell’attività a seguito dell’applicazione del principio del c.d. silenzio – assenso, ciò non equivarrebbe a rendere non configurabile il reato contestato, posto che la gestione dei rifiuti in forma semplificata presuppone pur sempre che le attività ad essa riconducibili vengano scrupolosamente osservate, soprattutto in casi, come quello in esame, dove al regime autorizzatorio si sostituisce quello delle comunicazioni. Con la conseguenza che lo svolgimento di attività di gestione di rifiuti in forma semplificata, al di fuori delle condizioni prescritte all’atto della richiesta iniziale o nella richiesta di rinnovo, fa insorgere il pericolo, che il legislatore ha voluto prevenire, richiedendo l’assoggettamento dell’attività ad un controllo della Pubblica Amministrazione, divenendo conseguentemente illegale ai sensi dell’art. 256, comma primo, lett. a), d. lgs. n. 152 del 2006, la prosecuzione in difformità dal titolo o dalle condizioni indicate nella richiesta, di rinnovo o di rilascio iniziale. Solo l’osservanza delle prescrizioni imposte dall’autorizzazione amministrativa elimina i pericoli insiti nel fatto di esercitare un’attività di gestione dei rifiuti senza il rispetto delle regole etero-imposte dall’autorità competente (o, come prevede l’art. 216, d. lgs. n. 152 del 2006, richiamato ed applicabile alla fattispecie qui esaminata, senza il rispetto delle” … norme tecniche e le prescrizioni specifiche di cui all’articolo 214, commi 1, 2 e 3″): superati i limiti e le prescrizioni amministrative, la gestione dei rifiuti svincolata dall’osservanza di ogni obbligo (e, dunque, per tale ragione definibile come “abusiva”), fa risorgere il pericolo che il legislatore ha voluto prevenire e diviene conseguentemente illegale ai sensi dell’art. 256, comma primo, lett. a), d. lgs. n. 152 del 2006, con la conseguenza che il trasgressore dell’autorizzazione amministrativa (o delle norme tecniche e prescrizioni specifiche, per quanto concerne le operazioni di recupero ex art. 216 citato, oggetto della comunicazione), pertanto risponde della contravvenzione contestata, ciò che si desume indirettamente dalla stessa previsione del comma 7 dell’art. 216 citato, secondo cui “7. Alle attività di cui al presente articolo si applicano integralmente le norme ordinarie per il recupero e lo smaltimento qualora i rifiuti non vengano destinati in modo effettivo al recupero”.
Quanto sopra esposto, dunque, priva di qualsiasi spessore argomentativo le deduzioni critiche svolte dalla difesa del ricorrente ai punti 2.3 e 2.3.1. della illustrazione del relativo terzo motivo (v. supra).
Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto: «In tema di rifiuti, lo svolgimento di attività di gestione in forma semplificata, al di fuori delle condizioni prescritte all’atto della richiesta iniziale o nella richiesta di rinnovo, fa insorgere il pericolo, che il legislatore ha voluto prevenire, richiedendo l’assoggettamento dell’attività ad un controllo della Pubblica Amministrazione, divenendo conseguentemente illegale ai sensi dell’art. 256, comma primo, lett. a), d. lgs. n. 152 del 2006, la prosecuzione in difformità dal titolo o dalle condizioni indicate nella richiesta, di rinnovo o di rilascio iniziale».
8. Quanto all’ulteriore profilo di doglianza contenuto nel terzo motivo in esame (v. e punto 2.3.2., supra), e vertente sulla corretta qualificazione di rifiuto non pericoloso del materiale rinvenuto, lo stesso si rivela manifestamente infondato.
Ed invero, sulla tesi sostenuta dal ricorrente circa la qualificazione del materiale rinvenuto come M.P.S. in ragione del test di cessione e delle analisi granulometriche anche con l’apporto di due esperti, la Corte d’appello si sofferma a pag. 20 della sentenza impugnata, richiamando quanto argomentato dal primo giudice che, alle pagg.9/15 della sentenza di primo grado, criticava le modalità attraverso cui erano state dedotte le doglianze difensive. Sul punto, osserva il Collegio, come del resto sinteticamente richiamato alle pagg. 7 /8 della sentenza impugnata che richiamava a sua volta quanto esposto dal primo giudice, il ricorrente nell’articolata strutturazione di tale terzo motivo di ricorso si diffonde in argomenti tendenti a sminuire il valore probatorio delle dichiarazioni dei testi Rossio ed Airaghi, in ordine alla qualificazione o meno dei predetti materiali come terre e rocce da scavo, dimenticando tuttavia che quanto dal medesimo ricorrente documentato non era comunque sufficiente a far ritenere detti materiali come M.P.S., atteso che – come bene evidenziato dal primo giudice – non si trattava solo di terre e rocce da scavo, ma anche di materiale proveniente da demolizioni. Dunque, alla luce di ciò, non poteva certamente ritenersi esclusa la loro natura di rifiuti, essendo le M.P.S. o le terre e rocce da scavo ontologicamente diversi dai materiali di demolizione. Questa Corte ha infatti più volte ribadito che in tema di gestione dei rifiuti, ai fini dell’applicabilità del regime in deroga previsto dall’art. 186, D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, le terre e rocce da scavo devono essere distinte dai materiali di risulta da demolizione, in quanto mentre lo scavo ha per oggetto il terreno, la demolizione ha per oggetto un edificio o, comunque, un manufatto costruito dall’uomo (Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008 – dep. 01/10/2008, Picchioni, Rv.241088). A ciò, inoltre, va aggiunto che al fine di stabilire se una determinata sostanza rientri nella categoria delle materie prime secondarie, la valutazione deve essere compiuta con riferimento alla attuale, effettiva destinazione finale alla produzione. Il relativo apprezzamento, attinendo al fatto, è incensurabile in Cassazione, se sorretto da adeguata motivazione (Sez. 3, n. 8429 del 05/07/1991 – dep. 30/07/1991, Jieanmonod, Rv. 188792). Ne consegue, pertanto, anche l’irrilevanza delle censure difensive circa l’individuazione dei soggetti gravati degli oneri di esecuzione delle attività di accertamento analitico, ed i pretesi riflessi sulla configurabilità del reato di discarica abusiva.
9. Non miglior sorte merita il quarto motivo di ricorso, con cui la difesa del ricorrente svolge censure di violazione di legge in relazione agli artt. 256, co. 1, lett. a) e co.3, d. lgs. n. 152 del 2006 e 44, co. 1, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001, attesa la genericità del criterio utilizzato per quantificare il materiale contenuto nei cumuli di terra di cui ai capi a), d) ed e) della rubrica, e correlato vizio di motivazione contraddittoria rispetto alla memoria difensiva e di motivazione illogica nella parte in cui richiama la prima sentenza, con conseguente illegittimità della disposta confisca.
Il motivo presta il fianco al giudizio di manifesta infondatezza.
Ed invero, la Corte d’appello risponde sul punto sinteticamente ma con argomentazione immune da vizi, a pag. 21 della sentenza impugnata, richiamando quanto già esposto dal primo giudice in relazione alle risultanze della documentazione fotografica e delle deposizioni testimoniali (si veda, inoltre, quanto argomentato alle pagg. 8/9 della sentenza impugnata in cui si sintetizza il ragionamento del primo giudice). Si legge, in particolare, con riferimento alla contestazione relativa alla presenza di 70 cumuli di rifiuti speciali, che l’imputato aveva censurato la valutazione eseguita “a spanne” e che non era stata eseguita alcuna analisi sulla loro composizione; il giudice di primo grado aveva ritenuto l’assunto infondato (poiché, secondo la tesi difensiva, si trattava di un deposito temporaneo) atteso che lo stesso imputato aveva movimentato i cumuli in violazione del provvedimento provinciale che subordina la prosecuzione dell’attività al rigoroso rispetto delle prescrizioni. Sempre il primo giudice aveva aggiunto che era davvero difficile ipotizzare che fossero stati posizionati per errore 70 cumuli, apparendo detto er- rore inescusabile in quanto non solo colposamente commesso in forma generica, ma anche in violazione di precise prescrizioni impartite dalla Provincia.
Trattasi, all’evidenza, di una censura inammissibile.
Questa Corte ha già del resto avuto modo di pronunciarsi sull’utilizzo del c.d. metodo spannometrico affermando (Sez. 3, sentenza n. 40109 del 2015, ud. 4/06/2015 – dep. 6/10/2015, Silvestri, non massimata). A tal proposito, si era già ritenuto analogo motivo inammissibile, posto che attraverso il medesimo il ricorrente, più che censurare un preteso vizio della motivazione, svolge doglianze che si risolvono in una manifestazione di dissenso rispetto alla valutazione della prova operata dai giudici di appello, sostanzialmente invocando un terzo grado di merito, operazione, com’è noto, del tutto inibita davanti a questa Corte di legittimità. Che questa sia la finalità ultima della censura, del resto, discende dallo stesso tenore dell’impugnazione, ponendo in discussione il ricorrente i pretesi errori valutazione della documentazione fotografica e la inattendibilità delle deposizioni testimoniali, giungendo quindi ad affermare che i giudici di appello non avrebbero spiegato e giustificato in concreto come e perché e sulla scorta di quali concreti parametri di valutazione abbiano ritenuto e valutato che il materiale in questione superasse quel quantitativo massimo.
In realtà, dalla lettura della sentenza impugnata e di quella di primo grado (si ricordi che in caso di “doppia conforme” è consentita la vicendevole integrazione delle motivazioni delle sentenze di primo grado e di appello: v., tra le tante, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), emerge che il calcolo era stato operato proprio attraverso il c.d. metodo spannometrico. I giudici di appello, come già il primo giudice, avevano operato una descrizione basandosi sul materiale fotografico in atti e sulle deposizioni testimoniali, eseguendo dunque una valutazione, tipicamente di merito, che sfugge al sindacato di questa Corte, cui non è possibile chiedere lo svolgimento di calcoli o accertamenti che imporrebbero un apprezzamento di fatto, si ribadisce – come purtroppo troppo spesso accade nei ricorsi promossi davanti a questa Corte – del tutto inammissi- bile in questa sede di legittimità.
La Corte di Cassazione, lo si ribadisce una volta per tutte, è giudice del fatto nei limitati casi in cui si eccepisca un vizio di violazione di legge processuale (art. 606, lett. e), cod. proc: pen.) che impone un accesso agli atti processuali. Sul punto, è sufficiente in questa sede richiamare l’autorevole arresto giurisprudenziale delle Sezioni Unite che hanno affermato come in tema di impugnazioni, allorché sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, un “error in procedendo” ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c)- cod. proc. pen., la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può accedere all’esame diretto degli atti processuali, che resta, invece, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo, quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione (Sez. U, n.42792 del 31/10/2001 – dep. 28/11/2001, Policastro e altri, Rv. 220092).
Nel caso in esame, la valutazione operata dai giudici di merito e risoltasi, da un lato, nella convalida del c.d. metodo spannometrico e, dall’altro, nella conferma del dato quantitativo sulla base di una valutazione fattuale (comparazione fotografica e rilievo attribuito alle fonti dichiarative) operata dal primo giudice e dalla Corte d’appello per giungere all’accertamento del quantitativo di materiale, si sottrae alle censure di legittimità in quanto immune dai prospettati vizi motivazionali. Va qui ribadito che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (per tutte: Sez. U. n.24 del 24/11/1999 – dep. 16/12/1999, Spina, Rv. 214794).
10. Parimenti esposto al giudizio di inammissibilità è il quinto motivo di ricorso, con cui il ricorrente svolge censure di violazione di legge in relazione alla lett. a) del co. 1, art. 256 d. lgs. n. 152 del 2006 (capo b), sotto il profilo della mancanza della motivazione in ordine alla qualificazione dei fusti contenenti emulsione acida come rifiuto e della contraddittorietà della motivazione con quanto emerso in sede istruttoria, ossia che i fusti risultavano funzionali all’attività di asfaltatura delle strade e quanto all’asserita assenza di pavimentazione con la deposizione del teste Ventola.
La Corte d’appello, sulla questione, motiva a pag. 21 richiamando quanto argomentato dal primo giudice, il quale aveva descritto le modalità di stoccaggio di tali fusti e attribuendo agli stessi logicamente la natura di “rifiuto”, in quanto promananti dall’attività produttiva della ditta dell’imputato, avente ad oggetto il recupero di rifiuti per la formazione di materiale utilizzato per il rifacimento del manto stradale. A fronte delle argomentazioni svolte dalle sentenze di merito, quindi, le censure difensive non hanno pregio ma, anzi, si risolvono in un’involontaria conferma della bontà delle argomentazioni dei giudici di merito, atteso che proprio il riferimento alla circostanza che le sostanze contenute nei fusti fossero contabilizzate in un apposito registro di carico e scarico e fossero “smaltite” presso ditte autorizzate, dimostra esattamente il contrario di quanto la difesa tende a provare con tale richiamo, ovvero che si trattasse di veri e propri “rifiuti” di cui la stessa ditta intendeva “disfarsi”, come comprovato proprio dalla destinazione allo “smaltimento” dei fusti medesimi. Del resto, e conclusivamente, la natura di “rifiuto” di una determinata sostanza o materiale, comporta un apprezzamento che, attenendo al fatto, è incensurabile in Cassazione, se sorretto, come nel caso in esame, da adeguata motivazione (Sez. 3, n. 8429 del 05/07/1991 – dep. 30/07/1991, Jieanmonod, Rv. 188792).
11. Passando ad esaminare il sesto motivo di ricorso, con cui il ricorrente svolge censure di violazione di legge in relazione all’art. 256, co. 4, d. lgs. n. 152 del 2006 (capo e), sotto il profilo dell’assenza della motivazione di appello e della contraddittorietà della motivazione del primo giudice quanto ai singoli addebiti sub e), con alcuni atti del processo, il Collegio non può esimersi dall’esprimere un giudizio di inammissibilità.
Quanto, anzitutto, alla presunta contraddittorietà della contestazione sub a) e sub c), la Corte d’appello spiega del tutto convincentemente alla pag. 20 le ragioni per cui tale asserito contrasto non poteva ritenersi sussistere, sottolineando proprio la diversità delle condotte contestate. Si legge, in particolare, a pag. 20 che nel capo a) è contestato l’accumulo di 9000 mc. di frantumato pur dopo la disposizione dirigenziale del 30.01.2012 che vietava alla ditta di accettare quantitativi di rifiuti in ingresso prima che vi fosse la conformità tra i rifiuti in stoccaggio e quelli autorizzati. Da qui, dunque, la contestazione della violazione in assenza di autorizzazione, condotta protrattasi in spregio ai provvedimenti amministrativi sino alla completa inibizione dell’attività in data 18.07.2012.
Quanto, poi, alla configurabilità del reato di violazione delle prescrizioni ex art. 256, comma quarto, d. lgs. n. 152 del 2006, contestato sub e), la Corte d’appello richiama a pag. 21 le argomentazioni del primo giudice, sottolineando, quanto alla questione della “naturale impermeabilizzazione del terreno” che non sarebbe stata fornita alcuna prova, con riferimento al tema della mancata impermeabilizzazione delle superfici esterne e alla mancanza di un sistema di raccolta e trattamento delle acque meteoriche, evidenziando l’inconferenza delle argomentazioni difensive, come anche in relazione a quelle relative all’utilizzo del frantumatore Klemann, su cui si sofferma alla pag. 22 la sentenza impugnata, motivi che si intendono in questa sede integralmente richiamati per esigenze di economia motivazionale né essendo richiesto a questa Corte di procedere ad una ricognizione e riproposizione delle argomentazioni in fatto sviluppate dalla Corte territoriale a sostegno di quanto sopra, dovendosi la Corte di Cassazione limitare a valutare la congruenza motivazionale e la logicità complessiva dell’apparato argomentativo utilizzato dai giudici di merito e non certo sindacare gli argomenti fattuali utilizzati dai predetti giudici.
Orbene, sul punto, le censure difensive si appalesano generiche per aspecificità perché non si confrontano con le motivazioni della sentenza d’appello e di quella di primo grado (di cui v’è una sintesi anche alla pag. 11 della sentenza impugnata) non rilevando la presunta omissione valutativa in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale circa le dichiarazioni del teste Ventola, a fronte di una “doppia conforme” e del tenore complessivo della censura che si risolve in un semplice dissenso rispetto all’approdo motivazionale cui sono pervenuti i giudici di merito.
La genericità della doglianza, del resto, si apprezza alla luce delle stesse condizioni indicate da questa Corte circa la possibilità di prospettare un vizio di travisamento probatorio per omissioni in consimili ipotesi. Si è sul punto affermato infatti che il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l’omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; e) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonchè della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010 – dep. 22/12/2010, Damiano, Rv. 249035). Ed è evidente che, nel caso in esame, non risulta soddisfatto quantomeno il punto d), ossia la prova della decisività della prova di cui è stata asseritamente omessa la valutazione.
12. Può poi procedersi nell’esame del settimo motivo di ricorso, con cui il ricorrente svolge censure di violazione di legge in relazione all’art. 10, d.p.r. n. 380 del 2001 quanto ai capi d) ed e.2), atteso il travisamento della predetta norma e correlato vizio di contraddittorietà della motivazione quanto alla ritenuta necessità di un’autorizzazione sul punto con le deposizioni dei testi Ventola e De Stefano, dovendosi escludere la sussistenza dell’abuso edilizio con conseguente illegittimità dell’ordine di demolizione.
Anche tale motivo è manifestamente infondato.
Ed infatti, la Corte d’appello sul punto si sofferma argomentando a pag. 22 della sentenza impugnata, richiamando quanto già esposto dal primo giudice (segnatamente, si v. pag. 12 della sentenza in cui si sintetizzano gli elementi e le argomentazioni che il primo giudice aveva utilizzato per giustificare il giudizio di responsabilità dell’imputato per l’illecito edilizio a proposito della realizzazione del terrapieno), sottolineandosi da parte dei giudici territoriali anche l’assenza dell’asserita temporaneità, in quanto opera destinata alla realizzazione di una barriera antirumore, né essendo del tutto rispondente al vero che si fosse trattato di terre e rocce da scavo, essendosi rinvenuti anche residui di materiali provenienti da attività di demolizione. Le conclusioni cui pervengono i giudici di merito, del resto, sono conformi alla giurisprudenza di questa Corte, che ha infatti affermato che integra il reato di costruzione edilizia abusiva la realizzazione di un terrapieno di rilevanti dimensioni sia in ampiezza che in altezza, non potendosi inquadrare tale intervento tra quelli per i quali non è richiesto il permesso di costruire (Sez. 3, n.35629 del 11/07/2007 – dep. 27/09/2007, Fragapane, Rv. 237565).
13. Nel resto, le deduzioni difensive di cui al settimo motivo quanto all’esistenza di presunti vizi motivazionali si risolvono prospettano una critica risolventesi nel mero dissenso del ricorrente rispetto all’approdo valutativo operato dalla Corte d’appello, non consentito in questa sede.
Deve, a tal proposito, essere ribadito che gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudizio valutativo dei fatti) cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l’esame delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimità e non possono essere investiti dalla censura di difetto o contraddittorietà della motivazione solo perché contrari agli assunti del ricorrente; ne consegue che tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., non rientrano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l’indagine sull’attendibilità dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e logicità della motivazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 – dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961). Il controllo di legittimità sulla motivazione è, infatti, diretto ad accertare se a base della pronuncia del giudice di merito esista un concreto apprezzamento del materiale probatorio e/o indiziario e se la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da vizi logici. Restano escluse da tale controllo sia l’interpretazione e la consistenza degli indizi e delle prove sia le eventuali incongruenze logiche che non siano manifeste, ossia macroscopiche, eclatanti, assolutamente incompatibili con altri passaggi argomentativi risultanti dal testo del provvedimento impugnato: ne consegue che non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti ne’ su altre spiegazioni, per quanto plausibili o logicamente sostenibili, formulate dal ricorrente (Sez. 6, n. 1762 del 15/05/1998 – dep. 01/06/1998, Albano L. Rv. 210923).
La sentenza impugnata non merita dunque censura sotto tale profilo.
14. Resta, infine da esaminare l’ottavo ed ultimo motivo di ricorso, con cui il ricorrente svolge censure di violazione di legge in relazione all’art. 81, cpv. e 133 c.p., e correlato vizio di motivazione carente quanto al ritenuto giudizio di congruità della pena irrogata e degli aumenti in continuazione disposti.
Anche tale motivo non si sottrae al giudizio di inammissibilità.
Ed invero, la Corte d’appello dà atto di aver preso in esame il comportamento processuale dell’imputato, tant’è che il primo giudice lo aveva valutato per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche; quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte d’appello ritiene la pena adeguata alla gravità dei fatti. Si tratta di un’indicazione, questa, sufficiente, in quanto il giudice muove dalla pena base prevista dall’art. 256, comma terzo, d. lgs. n. 152 del 2006, più grave in astratto, determinata in 1 anno di arresto ed € 15.000,00 di ammenda, a fronte di una cornice edittale che prevede una pena detentiva da 6 mesi a 2 anni di arresto ed un’ammenda da 2.600,00 €a 26.000,00 €. donde la pena prescelta dal giudice di merito non risulta superiore al c.d. medio edittale. Sul punto, del resto, è ormai consolidata la giurisprudenza secondo cui in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015 – dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283).
Quanto, infine, agli aumenti a titolo di continuazione, avuto riguardo al criterio di quantificazione operato dal primo giudice, la relativa censura non merita accoglimento, dovendosi ribadire il principio, cui questo Collegio ritiene di dover dare continuità perché ritenuto più aderente alla ratio normativa, pur nella consapevole presenza di un difforme orientamento, secondo cui in tema di determinazione della pena nel reato continuato, non sussiste obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, essendo sufficiente indicare le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base (Sez. 2, n. 18944 del 22/03/2017 – dep. 20/04/2017, Innocenti e altro, Rv. 270361).
15. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 5 ottobre 2017
Scarica in pdf il testo del provvedimento: cass. pen., sez. 3, sent. n. 2401-2018