RIFIUTI. Il concetto giuridico di miscelazione ex art. 187 d. lgs. n. 152/2006. Cassazione Penale n. 4976/2019.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 4976 del 1° febbraio 2019 (ud. del 18 ottobre 2018)
Pres. Cervadoro, Est. Di Nicola

Rifiuti. Miscelazione. Art. 187 d. lgs. n. 152/2006.
La miscelazione dei rifiuti può essere definita come l’operazione consistente nella mescolanza, volontaria o involontaria, di due o più tipi di rifiuti aventi codici identificativi diversi in modo da dare origine ad una miscela per la quale invece non esiste uno specifico codice identificativo

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 4976 del 1° febbraio 2019 (ud. del 18 ottobre 2018)

RITENUTO IN FATTO
1. Pasquale Aloisi ricorre per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Lecce ha confermato quella del tribunale che lo aveva condannato alla pena di mesi quattro e ed Euro 2.400 di ammenda per il reato di cui agli articoli 81 capoverso del codice penale, 256, comma 5, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e 13, comma 1, del decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209, in quanto, nella sua qualità di legale rappresentante della Temauto S.r.l., (1) in violazione del divieto di cui all’articolo 187 del decreto legislativo n. 152 del 2006 effettuava attività non consentita di miscelazione dei rifiuti, in particolare nella fase di compattazione miscelava rifiuti pericolosi tra loro e rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi (tutti componenti delle autovetture rottamate aventi codici CER diversi); (2) effettuava attività di gestione dei veicoli fuori uso e dei rifiuti costituiti dai relativi componenti in violazione dell’articolo 6, comma 2, E) dell’allegato I del citato decreto, in particolare effettuando l’attività di miscelazione suddetta, non bonificando tempestivamente le fuoriuscite di liquidi oleosi provenienti dai componenti di cui sopra e non prevedendo opportune vie di transito tra i veicoli stoccati e impilando gli stessi senza rispettare la richiesta distanza minima tra le pile. Fatto commesso fino al 26 ottobre 2012.
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza il ricorrente, per il tramite del suo difensore, articola quattro motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale  n relazione al d.lgs. n. 152 del 2006, allegato d) parte IV e al  d.lgs. n. 209 del 2003 (articoli 6, 7 e 13).
Sostiene che il d.lgs. n. 152 del 2006 consente la miscelazione, nella fase della compattazione degli autoveicoli dismessi, di tutti i materiali (quali plastica, vetro etc.), perché essi non appartengono alla categoria dei rifiuti pericolosi, secondo l’elencazione contenuta nell’allegato d), parte IV, del predetto decreto legislativo.
Pertanto, affermare l’avvenuta miscelazione di parti ferrose, parti in vetro, plastica, ecc. significa non tenere conto che detti materiali non rientrano tra quelli elencati nel citato allegato al decreto legislativo n. 152 del 2006.
Ma le stesse considerazioni valgono, ad avviso del ricorrente, per quanto riguarda i rifiuti “liquidi” (oli, ecc.), le cui “tracce” sarebbero state rinvenute nella zona di smontaggio e nelle vicinanze dei c.d. “pacchi” pressati.
Difatti l’articolo 6 del decreto legislativo  n. 209 del 2003 detta una serie di disposizioni per la “messa in sicurezza del veicolo” volte a ridurre gli eventuali effetti nocivi sull’ambiente; e il successivo articolo 7 afferma che le operazioni di smontaggio e di deposito dei componenti devono svolgersi in modo da non comprometterne la possibilità di reimpiego, di riciclaggio e di recupero, fissando un obiettivo che, entro il 1º gennaio 2015, doveva essere, per tutti i veicoli fuori uso, pari almeno al 95 per cento del peso medio per veicolo e per anno e la percentuale di reimpiego e di riciclaggio doveva essere pari almeno all’85 per cento del peso medio per veicolo e per anno, con la conseguenza che già il legislatore era consapevole dell’impossibilità fisica che un’autovettura fosse bonificata al 100%, ritenendo sufficiente che la stessa fosse messa in sicurezza secondo le previsioni dell’articolo 6, comma 2, allegato 1, d.lgs. n. 152 del 2006.
Ne consegue che la sentenza della Corte d’appello sarebbe stata resa in palese violazione dell’indicata disposizione legislativa, perché la normativa richiede la “messa in sicurezza del veicolo” mediante l’eliminazione dei rifiuti pericolosi, mentre non richiede che i vari materiali dei quali si compone l’autovettura siano separati tra di loro prima della compattazione, in quanto detti materiali non rientrano nella categoria dei rifiuti pericolosi. L’autovettura compattata (c.d. pacco), infine, non deve (e per ovvie leggi fisiche non può) essere del tutto immune della presenza di rifiuti appartenenti ad altre categorie, purché detta presenza sia limitata a quelle percentuali sopra indicate, per altro variabili nel corso del tempo.
In definitiva:
a)    è fisicamente impossibile che il risultato dell’autodemolizione sia immune dalla presenza di varie tipologie di rifiuti al 100%;
b)    la legge richiede che il veicolo, prima di essere demolito, sia messo in sicurezza secondo i dettami del d.lgs. n. 209 del 2003;
c)    piccole tracce di percolazione di liquidi oleosi non integrano la violazione della disposizione penale;
d)    la miscelazione di rifiuti aventi natura diversa (vetro, ferro, ecc.), perché non pericolosi è del tutto consentita, dal momento che la separazione dei vari componenti avviene non nel momento della compattazione del veicolo, ma nel momento dei reimpiego e del riciclo (articolo 7 d.lgs. n. 209 del 2003);
e)    l’attività di gestione dei rifiuti da autodemolizione è disciplinata dagli articoli 6 e 13 d.lgs. n. 209 del 2003, norma speciale rispetto all’articolo 256, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato (articolo 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale)
Assume che il rinvenimento di tracce di reflui oleosi non può essere indice di illiceità della condotta sia per i motivi già sostenuti in precedenza, sia perché va considerato che in un’area destinata alla demolizione e allo stoccaggio di autovetture e parti di esse la presenza di oli costituisca un’evenienza costante.
A tale proposito, ricorda che il sito, per evitare contaminazioni a causa del riversamento, anche accidentale, sul terreno di olio lubrificante o altri liquidi, è dotato (in ottemperanza dei requisiti previsti dall’allegato I del d.lgs. n. 203 del 2009) di una pavimentazione in calcestruzzo di tipo speciale, nonché di un impianto di raccolta delle acque meteoriche di dilavamento con relativo impianto di disoleazione.
La sentenza della Corte d’appello quindi sarebbe contraddittoria in punto di motivazione laddove reputa fondato il capo 1) di imputazione, per la contravvenzione prevista dall’articolo 256, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006, pur ritenendo insussistente il fatto di cui al capo 2), e così rigettando l’appello proposto dal pubblico ministero nei confronti della sentenza di primo grado e relativo alle prescrizioni sul trattamento dei veicoli fuori uso (articolo 13, comma 1, d.lgs. n. 209 del 2003).
In particolare, il vizio di contraddittorietà interna della motivazione della sentenza impugnata consisterebbe nel fatto che, stando alla motivazione della sentenza, l’imputato avrebbe, da un lato, osservato le disposizioni di cui al d.lgs. n. 209 del 2003 (rimozione e separazione dei materiali e dei componenti pericolosi in modo da non contaminare i successivi rifiuti frantumati provenienti dal veicolo fuori uso) e, allo stesso tempo, avrebbe miscelato rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi (tracce di oli ed altri liquidi), la cui presenza, invece, deve essere ritenuta fisiologica in un luogo costantemente adibito allo smontaggio ed alla demolizione delle autovetture.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la mancanza della motivazione e l’errata interpretazione della prova (articolo 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale).
Osserva di aver richiesto che il processo fosse celebrato nelle forme del giudizio abbreviato.
La richiesta dell’imputato era condizionata all’integrazione probatoria di una consulenza tecnica di parte, richiesta che aveva trovato pieno accoglimento da parte del Tribunale.
Tuttavia, gli atti di indagine acquisiti prima della richiesta di abbreviato erano già stati ritenuti, in sede di incidente cautelare, dal Tribunale del riesame di Lecce, prima, e dalla Corte di Cassazione, poi, insufficienti a livello indiziario per la conferma del provvedimento di sequestro, in mancanza di una consulenza tecnica che sancisse l’eventuale presenza di rifiuti pericolosi.
Ne consegue che tali atti di indagine, ossia quelli che, in sede di incidente cautelare, erano stati ritenuti insufficienti a fondare il fumus delicti, non potevano, a maggior ragione, ergersi ed acquisire il livello di “prova” di colpevolezza in sede di giudizio abbreviato, allorquando il materiale probatorio si era arricchito, come avevano auspicato il Tribunale del riesame e la Corte di Cassazione, in senso favorevole all’imputato, di una consulenza tecnica di parte, che aveva escluso totalmente la sussistenza di tutti i reati contestati e il rispetto da parte dell’imputato della normativa vigente.
La sentenza impugnata, pertanto, contiene in sé una palese divergenza tra il risultato probatorio e l’unico elemento di prova emergente dagli atti processuali, cioè la consulenza tecnica di parte. Sarebbe infatti palese la mancanza di motivazione della sentenza, laddove non la stessa non ha operato alcun cenno alla consulenza (come nessun cenno era stato fatto nella sentenza di primo grado).
2.4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 157 del codice penale, con riferimento all’eccepita prescrizione del reato (articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale).
Sostiene che il reato contravvenzionale contestato è stato commesso il 26 ottobre 2012, con la conseguenza che la prescrizione del reato sarebbe spirata con il trascorrere del termine massimo di cinque anni, cioè alla data del 26 ottobre 2017, prescrizione che sarebbe maturata nel corso del giudizio d’appello.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile sulla base delle considerazioni che seguono.
2. I primi due motivi di impugnazione, essendo tra loro strettamente collegati, possono essere congiuntamente esaminati.
Essi sono manifestamente infondati e non consentiti.
Con accertamento di fatto adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità e, pertanto, insuscettibile di essere sottoposto a scrutinio di legittimità, la  Corte d’appello, alla luce degli elementi utilizzabili per la decisione, ha ritenuto che, presso la impresa amministrata dal ricorrente, avvenisse una sistematica miscelazione tra rifiuti pericolosi e non pericolosi nei termini sanzionati dalla norma incriminatrice, contestata al numero 1) del capo di imputazione.
In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che – avuto riguardo agli esiti dei verbali di sopralluogo, peraltro eseguiti a distanza di tempo il 18 aprile 2012 ed il 20 ottobre 2012 – è chiaramente emerso che il compattamento degli autoveicoli avveniva senza la preventiva bonifica con conseguente miscelazione di rifiuti anche pericolosi (gli oli e i liquidi contenuti nelle autovetture), potendo esclusivamente in tale modo trovare spiegazione il fatto che non solo nella zona adibita a smontaggio delle autovetture ma anche in quella deputata alla riduzione volumetrica delle carcasse erano state rivenute tracce di olio e di altri liquidi, costituenti i rifiuti pericolosi (oli sintetici per circuiti idraulici, codice Cer 130111*; altri oli per circuiti idraulici, codice Cer 130113*; oli sintetici per motori, ingranaggi e lubrificazione, codice Cer 130206*; altri oli sintetici per motori, ingranaggi e lubrificazione, codice Cer 130208*; liquidi per freni codice Cer 160113*; liquidi antigelo contenenti sostanze pericolose, codice Cer 1610114*) evidentemente ancora presenti ed in quantità consistenti negli autoveicoli interessati alle operazioni di compattazione.
Diversamente, neppure poteva trovare spiegazione sia il fatto che anche i pacchi pressati presentavano “percolazioni oleose” e sia la circostanza per la quale nelle carcasse dei veicoli compattati erano ancora presenti parti che dovevano essere eliminate con le operazioni preventive di messa in sicurezza, cui si riferisce il ricorrente negli atti di impugnazione, quali tappezzeria, selleria, vetri, gomma delle guarnizioni perché di natura diversa dalle altre parti meccaniche dei veicoli.
Né tale logica spiegazione entra in contraddizione, come erroneamente sostiene il ricorrente, con l’esclusione del fatto di reato descritto al numero 2 del capo di imputazione, avendo già la sentenza di primo grado, che integra quella d’appello, affermato come l’accatastamento di rifiuti e la presenza di tracce di diversi liquidi dimostrasse la configurabilità del reato, posto che si erano comunque mescolati rifiuti anche pericolosi aventi codici identificativi diversi, sul rilievo che l’imputato, quanto meno a titolo di colpa, non aveva effettuato la “bonifica” degli autoveicoli con la diligenza necessaria ad impedire la fuoriuscita, in maniera così consistente e frequente, dei reflui oleosi in precedenza indicati.
La Corte ha già affermato che la miscelazione dei rifiuti può essere definita come l’operazione consistente nella mescolanza, volontaria o involontaria, di due o più tipi di rifiuti aventi codici identificativi diversi in modo da dare origine ad una miscela per la quale invece non esiste uno specifico codice identificativo (Sez. 3, n. 19333 del 11/03/2009, Cantatore,  Rv. 243757).
Deve pertanto ritenersi che, nel caso in esame, la prova della miscelazione è stata legittimamente desunta dai verbali di sopralluogo e dagli accertamenti in conseguenza dei quali è emerso che alcuni spazi erano occupati, non solo da materiale ferroso proveniente dalla demolizione di autoveicoli, attività per la quale l’imputato era autorizzato, ma anche da rifiuti ferrosi e non ferrosi, di altro tipo, posto che in loco si erano riscontrate tracce di olio e di altri liquidi.
Tale accatastamento di vari rifiuti e la presenza di tracce di diversi liquidi dimostra inequivocabilmente la configurabilità del reato atteso che sono stati comunque mescolati rifiuti anche pericolosi aventi codici identificativi diversi.
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Il ricorrente, in pratica, assume che, sulla base dei medesimi atti, il tribunale del riesame e, a seguito di ricorso proposto dal pubblico ministero, la Corte di cassazione avevano escluso la configurabilità del reato che, invece, è stato ritenuto in sede di cognizione.
Al riguardo, va chiarito che le pronunce emesse in sede di giudizio incidentale promosso per il riesame di misure cautelari non possono ritenersi vincolanti per il giudice del merito in sede di svolgimento del procedimento principale. Ne deriva che, essendo il giudizio cautelare solo strumentale, sulla base di questioni che devono essere decise incidenter tantum, rispetto al giudizio di merito,  il giudice del procedimento principale conserva integro il potere di valutare gli elementi di prova, indipendentemente dall’esito del giudizio cautelare.
Il sistema infatti non consente di ritenere che il principio dell’autonomia del procedimento incidentale “de libertate” rispetto a quello principale possa essere interpretato rigidamente con il pericolo che vengano ad esistere due pronunce giurisdizionali sul tema del fumus (nel procedimento cautelare) e dell’accertamento della responsabilità (nel procedimento a cognizione piena), di cui l’una incidentale e di tipo prognostico, l’altra fondata sul pieno merito e suscettibile di passare in giudicato, tra di loro contrastanti.
La questione, del resto, è stata definitivamente chiarita dalla Corte Costituzionale quando ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 405, comma 1-bis , del codice di procedura penale, aggiunto dall’articolo 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, secondo il quale il pubblico ministero, al termine delle indagini, doveva formulare richiesta di archiviazione quando la Corte di cassazione si era pronunciata per la insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e non erano stati acquisiti, successivamente, altri elementi a carico dell’indagato (Corte cost. sent. n. 121 del 28/01/2009, Rv. 0033357).
La Consulta ha chiarito che non può essere rovesciato il rapporto fisiologico tra procedimento incidentale de libertate e procedimento principale e che non può essere vulnerato il principio di “impermeabilità” del secondo rispetto agli esiti del primo, principio che vale a scandire, salvaguardandola, la distinzione fra indagini preliminari e processo.
Infatti, neppure il legislatore può riconoscere a determinate pronunce rese in sede cautelare un’efficacia preclusiva sul processo, essendo una tale opzione del tutto irragionevole: in primo luogo, per la diversità tra le regole che presiedono alla cognizione cautelare – in cui si effettua un giudizio prognostico di tipo statico, basato su elementi già acquisiti dal pubblico ministero e funzionali alla soddisfazione delle esigenze cautelari in atto – e quelle che legittimano l’azione penale, ove la decisione si fonda su una valutazione di utilità del passaggio alla fase processuale che è di tipo dinamico e tiene conto anche di ciò che può ragionevolmente acquisirsi nel dibattimento.
In secondo luogo, è profondamente diversa la base probatoria delle due valutazioni a confronto, poiché, se il pubblico ministero fruisce del potere di selezionare gli elementi da sottoporre al giudice della cautela, le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale sono, invece, prese sulla base di tutto il materiale investigativo. Infine, la Corte di cassazione, quando si pronuncia in materia cautelare, non accerta in modo diretto la mancanza del fumus commissi delicti ma si limita a controllare la motivazione del provvedimento impugnato, con la conseguenza che l’eventuale annullamento di quest’ultimo non svela automaticamente l’inesistenza dei gravi indizi (v. Corte cost. n. 121 del 2009, in motiv.).
Questi principi sono maggiormente validi in tema di impugnazioni nei  procedimenti in tema di misure cautelari reali, dove il ricorso per cassazione non è ammesso per il vizio di motivazione, fatta eccezione per la motivazione mancante o meramente apparente, e, nel caso in esame, la Corte di cassazione aveva sottolineato come, in presenza di una motivazione da parte del Tribunale del riesame,  l’ordinanza de libertate era sottratta al controllo di legittimità, senza dunque alcun pregiudizio sulla fondatezza del fumus criminis.
Peraltro, la questione della necessità di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica per accertare se l’imputato avesse o meno separato i rifiuti pericolosi da quelli non pericolosi o li avesse invece miscelati è stata superata dalla doppia e conforme valutazione dei giudici del merito che sono pervenuti all’esito censurato sulla base di una motivazione, in precedenza esposta, pienamente adeguata e del tutto logica.
4. E’ inammissibile, per manifesta infondatezza, anche il quarto motivo di impugnazione.
Precisato che l’eccezione di prescrizione non è stata sollevata nel giudizio di merito, va chiarito come la causa estintiva, contrariamente all’opinione espressa dal ricorrente, non era affatto maturata.
Risulta dagli atti processuali, che la Corte è abilitata a consultare in considerazione del vizio denunciato, come all’udienza del 2 dicembre 2015 il Tribunale avesse disposto il rinvio del processo all’udienza del 15 novembre 2016 in quanto il difensore dell’imputato, avv. Donato Mellone, come da apposita istanza allegata al verbale di udienza, aveva aderito all’astensione delle udienze indetta dalle Camere penali e il Giudice aveva differito la causa, sospendendo i termini di prescrizione.
Ne deriva che detti termini sono rimasti sospesi per un periodo pari ad undici mesi e tredici giorni, sicché la prescrizione del reato sarebbe maturata in data 11 ottobre 2018, ossia in epoca ampiamente successiva alla pronuncia impugnata (del 4 dicembre 2017), con la conseguenza che l’inammissibilità del ricorso, impedendo la regolare costituzione del rapporto processuale, non consente alla Corte di cassazione di rilevare la causa estintiva del reato maturata dopo la sentenza di appello.
In questi termini si sono infatti espresse le Sezioni Unite della Corte che hanno affermato il principio, che si è consolidato, secondo il quale l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266).
5.  Sulla base delle precedenti considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e ciò comporta l’onere per la ricorrente, ai sensi dell’articolo 616 codice di procedura penale, di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 18 ottobre 2018.

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