Rifiuti. Natura di rifiuto del fresato di asfalto. Cassazione Penale n. 53136/2017.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 53136 del 22 novembre 2017 (ud. del 28 giugno 2017)

Pres: Cavallo, Est. Di Nicola

Rifiuti. Natura di rifiuto del fresato di asfalto. Art. 184-bis D. LGS. N. 152/2006.

I materiali che residuano da lavori di demolizione o di costruzione, che hanno ad oggetto strade o opere simili (quale, come nel caso in esame, la nuova costruzione di una pista aeroportuale)  devono farsi rientrare nel novero dei rifiuti, perché l’articolo 184, comma 1, lettera b) del T.U.A., definisce, ex positivo iure, rifiuti speciali quelli derivanti da attività di demolizione, costruzione, nonché quelli che derivano dalle attività di scavo, fermo restando la possibilità di gestire gli stessi come sottoprodotti, ricorrendo le condizioni di cui all’articolo 184-bis TUA. Ne consegue che il materiale derivante dalle attività incluse nella lista di cui alla lettera b) del terzo comma dell’articolo 184 TUA costituiscono rifiuti per presunzione ex lege iuris tantum (circostanza, del resto, confermata per quanto attiene l’attività di scarifica del manto stradale mediante fresatura a freddo qualificata al punto 7.6.1 come rifiuto dall’allegato  1 al D.M. del 5 febbraio 1998 e dal Codice Europeo dei Rifiuti), così dovendosi interpretare l’inciso “fermo restando quanto disposto dall’articolo 184-bis“, nel senso cioè che la regola è che si verte in tema di rifiuti, pur non essendo esclusa (in via di eccezione) la possibilità che dette sostanze derivanti da quelle attività costituiscano, in presenza di tutte le condizioni previste dall’articolo 184-bis, sottoprodotti.

 

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 53136 del 22 novembre 2017 (ud. del 28 giugno 2017)

RITENUTO IN FATTO

1. Marcello Vacca e Italo Melis ricorrono per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Cagliari ha confermato, per quanto qui interessa, la sentenza del tribunale dello stesso capoluogo, che aveva condannato i ricorrenti alla pena, di anni uno di reclusione ciascuno, condizionalmente sospesa per il solo Melis.
I ricorrenti erano accusati del reato previsto dagli articoli 81 capoverso, 110 del codice penale e 260, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 poiché, in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, il primo in qualità di amministratore unico dal 16 giugno 1989 al 28 ottobre 2009 della Sarcobit S.r.l., il secondo in qualità di direttore tecnico e, dal 12 settembre 2003 al 29 agosto 2008, procuratore speciale della Società Consortile Elams Scarl, costituita dalle società Sarcobit e Pavimental, e amministratore di fatto della Sarcobit S.r.l., al fine di conseguire un ingiusto profitto (per le suddette società dato dal mancato accollo dei costi per il regolare smaltimento dei rifiuti) effettuavano, tramite mezzi e attività continuative ed organizzate, il trasporto di rifiuti da vari cantieri riconducibili alle società Sarcobit (per un ammontare pari ad almeno 17.500 metri cubi) e li stoccavano presso l’arca di proprietà della Sarcobit S.r.l. situata in Capoterra, località Marzolai, ove venivano rinvenuti e sottoposti a sequestro dai Carabinieri del N.O.E., in data 23 marzo 2009, circa 100.000 metri cubi di rifiuti speciali costituiti da miscele bituminose derivanti dalla fresatura di manti stradali provenienti dai cantieri della S.S. 131, S.S. 130 e dell’Aeroporto di Cagliari Eimas.
Commessi in Capoterra dal 8 maggio 2008 al 31 marzo 2009 (data del sequestro).

2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza i ricorrenti, con separati ricorsi e per il tramite dei rispettivi difensori, sollevano i seguenti motivi di impugnazione, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Marcello Vacca affida il ricorso ad un unico complesso motivo con il quale denuncia l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche, di cui si deve tenere conto nella applicazione della legge penale, in relazione all’articolo 2 del codice penale ed all’articolo 184-bis del decreto legislativo 152 del 2006 (articolo 606, comma 1, lettere b), del codice di procedura penale).
Premette che la sentenza impugnata ha preso in considerazione il testo della normativa vigente “all’epoca dei fatti” (pag.11 sentenza),  conducendo l’analisi alla luce della normativa allora vigente e negando qualsiasi rilevanza alle modifiche successivamente introdotte, sul presupposto che vi fosse una sostanziale continuità normativa tra le normative succedutesi nel tempo.
Sostiene il ricorrente che una simile interpretazione, sostanzialmente abrogativa delle modifiche successivamente introdotte, non può essere in alcun modo condivisa sul piano giuridico né su quello logico, perché non risponde al contenuto delle norme considerate e soprattutto risulta gravemente elusiva della disposizione di cui all’articolo 2 del codice penale.
Dopo aver sinteticamente esaminato le differenze tra le normative succedutesi nel corso del tempo, il ricorrente conclude che, per tutte le ragioni esposte, illegittimamente e ingiustamente la sentenza impugnata ha omesso di applicare il disposto dell’articolo 2 del codice penale in materia di successione di norme, posto che l’applicazione della normativa vigente si risolve de plano nella sicura qualificazione del fresato quale sottoprodotto, con la conseguenza che l’insussistenza della qualità di rifiuto del fresato, comporta, necessariamente, il venir meno degli ulteriori fatti di presunto trasporto e traffico di rifiuti.
In particolare il ricorrente sottolinea  come le modifiche introdotte nel 2010, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, fossero da ritenere assai significative e certamente più favorevoli in relazione al caso di specie, anche perché rendono chiari taluni elementi che avevano dato origine a interpretazioni inutilmente restrittive, che spesso finivano per risolversi, paradossalmente, nella frustrazione dell’intento del legislatore (anche e soprattutto a livello di Unione Europea) che mirava a valorizzare i sottoprodotti all’importantissimo fine di ridurre la produzione e la circolazione di rifiuti.
Rispetto alla nozione di sottoprodotto, come cristallizzata dalla normativa precedente, lo ius superveniens avrebbe, quanto ai requisiti di cui al n.1 (origine, produzione) e al n. 3 (compatibilità ambientale) dell’articolo 183 del D.lgs. n. 152 del 2006, non sarebbero registrabili sostanziali novità, mentre nel caso degli altri requisiti, come quello  originariamente previsto dal numero 2) dell’articolo 183 del D.lgs. del 2008, la lettera b) dell’articolo 184-bis introdotto con D.lgs. 250 del 2010 ha previsto che il sottoprodotto può essere utilizzato nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione da parte del produttore o di terzi. Specificazione assai rilevante, considerato che la vecchia formulazione era interpretabile in senso restrittivo, nel senso che richiedesse l’integrale riutilizzo del sottoprodotto direttamente nel corso del medesimo processo di produzione e da parte dello stesso produttore.
Il requisito originariamente previsto dal numero 4) dell’articolo 183 del D.L.vo del 2008 è risultato pure modificato in maniera significativa nella lettera c) prevedendo che la sostanza può essere utilizzata direttamente senza alcun trattamento diverso dalla normale pratica industriale e non richiama più processi (“trattamenti preventivi, trasformazioni preliminari”) inopportunamente assimilabili a quelli previsti per i rifiuti ovvero interpretabile come escludente in toto qualsiasi tipo di trattamento.
Pertanto, emerge un chiaro favor legislativo nei confronti dei sottoprodotti, in vista dell’auspicato incremento del loro utilizzo, secondo l’orientamento espresso in sede europea,    in ragione dell’avvenuto ridimensionamento e ripuntualizzazione di taluni requisiti prescritti dalla normativa originaria:
– non sarebbe più prescritto il requisito di un “utilizzo integrale” dei residui “sottoprodotti”;
–    la “certezza dell’utilizzo” non sarebbe più vincolata o fatta risalire cronologicamente al momento della formazione del materiale, come pretendeva l’articolo 183, comma 1, lett. p) al n. 2.
Inoltre, in forza dell’articolo 5 della direttiva 98/2008 CE, trasposto nell’articolo 184-bis, non sarebbe più richiesto che il sottoprodotto:
–    scaturisca o derivi, in via continuativa, dal processo industriale;
–    sia impiegato direttamente e nel corso del processo di produzione;
–    sia originato comunque da una dichiarata o formalizzata volontà del produttore, essendo sufficiente che il sottoprodotto sia previsto e voluto;
–    sia sottoposto ai trattamenti consentiti in via esclusiva da parte dello stesso produttore, potendo tali trattamenti essere applicati da terzi, anche non utilizzatori finali (purché ovviamente non si configurino come “trattamenti di recupero”, ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lett. h).
In definitiva, le innegabili modifiche introdotte dalla normativa sopravvenuta risultano non soltanto rilevanti ma assolutamente determinanti proprio per lo scrutinio del caso concreto, conseguendo da ciò che la sentenza impugnata, avendo disapplicato la normativa successiva più favorevole, sarebbe incorsa nel vizio di violazione di legge denunciato.
2.2. Italo Melis affida il ricorso a quattro motivi.
2.2.1. Con il primo motivo deduce l’omessa motivazione in ordine a specifici motivi di gravame (articolo 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale in relazione all’articolo 125, comma 3, stesso codice).
Osserva che la decisione impugnata ha omesso di motivare sulle molteplici doglianze proposte con i motivi di appello.
In particolare, con l’atto di impugnazione era stata lamentata la mancanza di prova in ordine alla sussistenza dei requisiti del reato di cui all’articolo 260 d.lgs. 152 del 2006. Si era, in particolare, escluso che nell’area di proprietà della Sarcobit in Capoterra (località Marzaloi) si fosse verificato un trasporto e uno stoccaggio illegittimi di “rifiuti speciali costituiti da miscele bituminose derivanti dalla fresatura di manti stradali provenienti dai cantieri della S.S. 131, S.S. 130 e dell’Aeroporto di Cagliari Elmas”.
Ancor più precisamente, con il terzo ed il quarto motivo di appello si contestava l’affermazione del Tribunale, secondo cui il trasporto di fresato dai cantieri delle Strade Statali 130 e 131 sarebbe stato dimostrato, non essendo, al contrario, stata eseguita alcuna attività di accertamento in ordine alla provenienza del materiale rinvenuto in Capoterra e, conseguentemente, alla sussistenza di uno stoccaggio illecito di materiale, posto che l’area in parola era di pertinenza della società CONMOTER, autorizzata alla “messa in riserva di rifiuti per sottoporli ad operazioni di recupero”, circostanza che rendeva certamente lecita e, anzi, fisiologica la presenza dei materiali rinvenuti.
Nessuna contraria argomentazione è stata, tuttavia, offerta sul punto dai giudici di secondo grado che sarebbero pertanto incorsi nel vizio di motivazione denunciato.
2.2.2.  Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la mancanza e la manifesta contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti del reato di cui all’articolo 260 d.lgs. n. 152 del 2006.  (articolo 606, comma 1, lettera e) del codice di procedura penale).
Afferma che l’accertamento della sussistenza del reato di cui all’articolo 260 presuppone un’attenta indagine in merito alle modalità del trasporto dei materiali contestati da parte delle imprese che dall’aeroporto di Elmas li portavano nell’impianto di Capoterra, nonché sull’autorizzazione della CONMOTER e, comunque, sul sistema di lavorazione, al fine di verificare l’abusività delle condotte contestate e la relativa modalità di gestione, dovendosi distinguere il delitto in parola dalla contravvenzione di cui all’art. 256, d.lgs. n. 152 del 2006.
Nel caso di specie tale accertamento è stato erroneamente dato per scontato dai giudici del merito, non potendo lo stesso essere desunto dall’irregolare tenuta dei registri, come affermato dal Tribunale, né, tantomeno, dall’interpretazione delle scelte difensive, come sostenuto dalla Corte d’Appello che così (non) argomentando ha eluso specifici motivi di gravame proposti con l’impugnazione.
Non solo. La sentenza, sul punto, presenterebbe profili di manifesta con-traddittorietà con quanto affermato in altra parte della motivazione laddove, a parere del Tribunale e della Corte d’Appello, al gestore di fatto dell’impianto di Capoterra è ascrivibile il reato di cui all’articolo 256. Se così è, ne consegue che la gestione e lo stoccaggio dell’impianto in parola non sono stati caratterizzati dall’allestimento di mezzi e da attività continuative organizzate, né da alcuno degli altri elementi che distinguono tale fattispecie dal delitto di cui all’art. 260 T.U.A., sicché non si comprende come quest’ultimo reato possa essere stato, invece, ritenuto sussistente in capo al Melis, tanto per la condotta di stoccaggio contemplata dal capo a) – mediante la quale, anche ponendosi nella prospettiva dei giudici di merito, avrebbe concorso con l’Uccheddu – quanto per le attività di trasporto, in quanto, come osservato nel primo motivo di ricorso, le stesse sono oggetto della contestazione di cui al capo c).
2.3.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la mancanza di motivazione in  ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato di  cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, poiché fondata la configurabilità di detto elemento su mere affermazioni di principio, come tali astratte e, dunque, scollegate dalla realtà dei fatti contestati.
Osserva a tal proposito che, alla luce delle prove documentali, le sentenze non offrono alcuna spiegazione sull’ingiusto profitto, in concreto, asseritamente perseguito dall’imputato, tanto più che non si comprende perché gli imputati avrebbero allestito un’attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti – con tutte le conseguenze e i rischi in termini di sanzioni penali e amministrative – per favorire la stazione appaltante e farle sostenere costi inferiori di smaltimento, senza che ciò potesse comportare alcun ritorno economico per le imprese appaltatrici. Ricorda che la riconducibilità del materiale risultante dalla scarificazione delle piste nella categoria dei sottoprodotti è stata affermata sia dal concessionario pubblico-appaltante, peraltro sulla base della relazione redatta da un esperto all’uopo incaricato, sia dall’Enac, che approvando la proposta di variante ha, evidentemente, fatto proprie le considerazioni contenute nel documento.
Orbene, tale circostanza fa emergere ancor più chiaramente la mera apparenza di motivazione delle sentenze di merito in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato poiché, da un lato, rimane indimostrata e generica la finalità di profitto ingiusto perseguita dalle imprese appaltatrici – considerato che anche la perizia di variante conferma che gli oneri di smaltimento erano a carico della Sogaer – e, dall’altro, dimostra che il Melis sarebbe, al più, incorso in un errore in buona fede nell’interpretazione della normativa ambientale in tema di sottoprodotti, ma tale aspetto non è stato neppure ipotizzato, pur a fronte del fatto, desumibile dalla prova documentale, che soggetti pubblici altamente qualificati erano incorsi nel medesimo errore.
Sul punto, rileva, in conclusione, ad ulteriore riprova della necessità di una concreta motivazione sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato, che il corretto operato della ditta appaltatrice nell’esecuzione dei lavori emerge anche dal “certificato di collaudo finale” redatto dalla commissione di esperti nominata dall’Enac che, all’esito delle diverse visite di collaudo in cantiere e dell’analisi documentale, ha accertato la regolarità dei lavori e il rispetto delle prescrizioni contrattuali, del progetto approvato e delle successive varianti tecniche.
In particolare, dalla lettura del documento emerge che le verifiche operate dall’ente pubblico sono state analitiche, tanto che, sotto il profilo contabile, viene dato atto della correzione di una specifica voce, che dimostra, da un lato, il controllo capillare operato sui lavori e, dall’altro, che nessun rilievo è stato mosso con riguardo alla gestione ed allo smaltimento dei rifiuti prodotti durante i lavori, circostanza incompatibile con le quantità di materiale di cui si contesta l’illecita gestione che sarebbero state certamente riscontrate dai tecnici incaricati, tanto in occasione di visite ispettive quanto dalla verifica, anche contabile, della documentazione concernente tali attività.
2.2.4. Con il quarto motivo il ricorrente si duole della erronea applicazione della legge penale e della manifesta contraddittorietà della motivazione in merito al momento di consumazione del reato contestato al Melis (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale).
Osserva che, anche collocandosi nell’ottica della Corte d’Appello, il momento sino al quale si sarebbe protratta la condotta criminosa contestata all’imputato non può essere fatto coincidere con il sequestro operato il 31 marzo 2009, bensì fissarlo al mese di ottobre 2008, quando il concessionario pubblico-appaltante ha inviato all’Enac la richiamata perizia di variante nella quale affermava esplicitamente la qualificazione come sottoprodotto del materiale oggetto di contestazione.
Ebbene, considerata tale premessa, il momento in cui è venuta meno la permanenza della asserita condotta illecita deve essere fatto retroagire, quantomeno, all’invio di tale documento e, comunque, non oltre il 17 dicembre 2008, data di approvazione della perizia da parte dell’Enac.
Per le condotte realizzate successivamente, invero, deve escludersi la punibilità del Melis, ai sensi dell’art. 47, comma 3, del codice penale, in quanto la qualificazione dei materiali risultanti dai lavori di scarificazione operata dai predetti soggetti pubblici ha evidentemente determinato nell’imputato un errore sul fatto che costituisce il reato, convincendolo, stante la provenienza degli atti in parola, che il materiale costituisse sottoprodotto, come tale sottratto alla disciplina dei rifiuti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili.

2. Il primo motivo del ricorso Vacca ed i primi tre motivi del ricorso Melis, essendo tra loro strettamente collegati, vanno trattati congiuntamente.

3. Con accertamento di fatto, adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, sicché insuscettibile di essere sottoposto al sindacato di legittimità, i Giudici del merito, con doppia conforme motivazione, hanno precisato che, a seguito del sopralluogo compiuto dai Carabinieri del N.O.E., venne accertato che durante il periodo compreso tra il 8 maggio 2008 e il 31 marzo 2009, in Capoterra, località “Marzaloi” era stata trasportata e conferita una ingente quantità di conglomerato bituminoso (altrimenti detto “fresato d’asfalto”) derivante dalle attività di rifacimento della pista aerea dell’aeroporto di Elmas. Il terreno suindicato risultò di proprietà della Sar.Co.Bit. S.r.l. e pertinenza di un impianto della società collegata Con.Mo.Ter. S.r.l. specializzata nella produzione di conglomerati bituminosi.
I Giudici del merito hanno ritenuto provata un’attività di trasporto continua e accuratamente pianificata di detto materiale, eseguita con mezzi pesanti che dall’aeroporto di Elmas giungevano poi all’impianto di Capoterra, desumendo ciò dal rinvenimento di numerosi “report” acquisiti dai Carabinieri tramite il curatore del fallimento della Con.Mo.Ter. S.r.l.
I report in questione vennero infatti annotati, in via del tutto informale, dai dipendenti impegnati nelle attività di trasporto al fine di assicurare una documentazione seppur minima dei conferimenti di conglomerato bituminoso operati dalla Sar.Co.Bit. S.r.l. verso la Con.Mo.Ter. S.r.l.
L’attività continuativa di trasporto e di conferimento delle miscele presso l’agro di Marzolai venne comunque anche confermata dalle dichiarazioni rese dal teste Carlo Uccheddu, dichiarazioni ulteriormente corroborate da quelle rese da altro testimone (Domenico De Angelis).
Lo stesso imputato, Italo Melis, aveva confermato che vi fu un trasporto continuo di miscela bituminosa dall’aeroporto di Elmas verso l’impianto di Marzaloi.
Sulla base di ciò e di ulteriori risultanze, i Giudici del merito hanno ritenuto che il conglomerato conferito presso l’impianto di Marzaloi, nel periodo compreso tra l’8 maggio e il 25 settembre 2008, avesse natura di rifiuto essendo destinato per contratto all’abbandono ed essendo stato, per la maggior parte, derelitto; hanno inoltre ritenuto che le attività di trasporto e di conferimento nella località suindicata incrementarono una discarica già esistente su quel sito, formata anche da batterie esauste e da pneumatici fuori uso, nonché da altre migliaia di metri cubi di sostanza analoga.
Sulla base degli elementi probatori raccolti, hanno dunque qualificato come abusive le attività di trasporto e di conferimento, in quanto svolte senza autorizzazione e senza redigere la documentazione espressamente richiesta dalla normativa di settore; hanno ritenuto che le stesse fossero state svolte con continuità e con organizzazione di uomini e mezzi: sempre con le medesime modalità e caratteristiche. In particolare, furono sempre identiche le società che organizzarono la movimentazione dei mezzi; identica era la natura del materiale trasportato e identici furono anche gli autisti preposti alla guida dei mezzi di trasporto.
Sempre secondo la ricostruzione dei fatti operata dai Giudici del merito, l’intera attività di trasporto e conferimento del materiale avvenne secondo operazioni pianificate accuratamente, condotte dalle due società di capitali nell’esercizio delle rispettive attività di impresa in esecuzione del contratto d’appalto e delle commesse ad esso pertinenti.
Tali circostanze comprovavano anche il perseguimento di un ingiusto profitto da parte delle società Sar.Co.Bit. e Con.Mo.Ter. avendo dette società organizzato il trasporto del conglomerato bituminoso, proveniente dal rifacimento della pista aerea dell’aeroporto di Elmas, avendone disposto il conferimento presso l’impianto di Marzaloi, in vista di un successivo riutilizzo nel ciclo produttivo, ed ottenendo anche un notevole risparmio sui costi che avrebbero dovuto altrimenti sostenere qualora la gestione del materiale fosse avvenuta nel pieno rispetto della normativa di settore.

4. Ciò posto, la prima questione da esaminare è, nell’ordine logico, se il materiale trasportato nell’impianto di Marzaloi vada qualificato come sottoprodotto, secondo la tesi esposta dai ricorrenti, o come rifiuto, secondo il convergente approdo cui sono giunti i Giudici del merito.
4.1.  Nel corso del primo giudizio, il Tribunale ha ritenuto di disattendere la tesi difensiva, secondo la quale il materiale bituminoso andava  qualificato come sottoprodotto.
In particolare la difesa aveva sostenuto che il trasporto presso la località “Marzaloi” avvenne al solo fine di assicurane il trattamento nell’impianto della Con.Mo.Ter. in vista di un successivo reimpiego nel ciclo di rifacimento della pista aerea di Elmas, secondo quanto disposto dal contratto d’appalto.
Il Tribunale ha invece ritenuto che tale tesi poteva ritenersi fondata solo per un periodo successivo all’arco temporale interessato dall’imputazione, atteso che  la seconda variante al contratto d’appalto (del 17.12.2008) venne approvata solo dopo che le attività di trasporto, così come documentate nei report, erano state compiute da tempo ovvero quando la destinazione di rifiuto era già stata impressa in maniera definitiva e irreversibile.
A parere del Tribunale le miscele bituminose avrebbero potuto qualificarsi in termini di sottoprodotto solo laddove fosse stata certa sin dall’origine la destinazione al reimpiego.
Per contro, ha ritenuto certa sin dall’origine la sua destinazione in discarica, pervenendo alla conclusione di ritenere pienamente integrato il reato di cui all’articolo 260 d.lgs. n. 152/2006 sotto il profilo oggettivo e soggettivo.
4.2. La Corte di appello ha condiviso il percorso argomentativo del Tribunale ed ha fornito adeguata risposta alle obiezioni difensive che, con i ricorsi per cassazione, sono state sostanzialmente riproposte negli stessi termini.
Per rendersene conto è opportuno riportare le rationes decidendi della Corte del merito, la quale ha esaminato la comune tesi difensiva fondata sul rilievo, ritenuto dirimente, che il fresato derivante dalle operazioni di scarificazione della vecchia pista aeroportuale dovesse essere reimpiegato quale componente del manto di copertura della nuova pista.
La Corte distrettuale ha stimato l’assunto erroneo sia perché non ha ritenuto vero che il fresato dovesse essere per intero riutilizzato; sia perché l’accezione di sottoprodotto impiegata è stata ritenuta non corrispondente alla rigorosa definizione che la legge dà dei materiali qualificabili come sottoprodotti.
Dopo aver riportato la definizione normativa di sottoprodotto vigente al momento dei fatti e introdotta dall’articolo 2, comma 20, d.lgs. n. 4 del 2008, che sostituì per intero il testo dell’articolo 183 d.lgs. n. 152 del 2006 concernente le definizioni normative e dopo aver riportato anche la definizione di sottoprodotto data dal successivo d.lgs. n. 205 del 2010, che ha nuovamente riformulato il citato articolo 183 e, con specifico riferimento ai sottoprodotti, ha introdotto nel d.lgs. n. 152 del 2006 l’articolo 184-bis, la Corte del merito ha affermato come, con riferimento alla vicenda in esame, vi fosse una sostanziale continuità normativa tra la definizione dei sottoprodotti vigente all’epoca dei fatti e quella subentrata nel 2010.
La Corte di appello ha quindi chiarito come fosse certo che il fresato derivante dalla scarificazione dell’asfalto della vecchia pista aeroportuale derivasse da un processo lavorativo che non era funzionale alla sua produzione; anzi il processo produttivo era funzionale, almeno nella fase dello smantellamento della vecchia pista, a eliminare lo strato di asfalto esistente per poter realizzare la nuova pista.
Quanto poi al requisito della previsione certa del riutilizzo, la Corte del merito ha osservato come i difensori avessero sottolineato che sarebbe stato certo fin dall’inizio dei lavori il reimpiego del fresato derivante dalla scarificazione del vecchio strato d’asfalto.
A questo proposito, la Corte distrettuale ha posto in evidenza come, per stessa ammissione difensiva, il fresato non dovesse essere riutilizzato per intero perché, come stabilito nel primo capitolato d’appalto e comprovato dalle dichiarazioni dell’ing. Massimo Rodriguez, era previsto che il fresato derivante dalla scarificazione doveva essere riutilizzato per la nuova pista nella misura del 55%; pertanto, il restante 45% non sarebbe stato riutilizzato e perciò costituiva a tutti gli effetti un rifiuto.
Alla luce di ciò, è apparso irrilevante che, con la perizia di variante approvata soltanto il 17.12.2008 (cioè quando i lavori andavano avanti ormai da tempo e un gran numero di trasporti di fresato a Marzaloi erano stati eseguiti), si era stabilito, quale compensazione per la riduzione al 20% del fresato da riutilizzare nella nuova pista, l’impiego del restante fresato per la realizzazione delle “strips” (fasce laterali rispetto alla pista in senso stretto) mischiandolo e costipandolo con altro materiale inerte: la variante non poteva evidentemente mutare, a posteriori, le caratteristiche del materiale già abbandonato e costituente a tutti gli effetti rifiuto, anche nell’ipotesi che esso fosse stato poi effettivamente impiegato per il nuovo uso deciso soltanto a fine 2008.
La Corte territoriale ha precisato come il concetto fosse stato espresso efficacemente anche dalla consulente, dr.ssa Simonetta Fanni, la quale aveva chiarito che “colui che deve e vuole riutilizzare come sottoprodotto lo deve dichiarare immediatamente e deve poi fare che ci sia assoluta certezza, ma in fase iniziale, non a metà strada o a fine lavoro” (ud. 20.6.2013, pag. 29).
E’ stato poi ritenuto che difettasse in radice un requisito essenziale del sottoprodotto, e cioè il fatto che potesse essere riutilizzato “tal quale”, senza essere sottoposto a trattamenti preventivi o trasformazioni preliminari.
Secondo la Corte d’appello, è certo invece che, almeno per la quota da riutilizzare come componente della nuova pista, dovesse essere sottoposto a un trattamento che ne mutava in modo radicale le caratteristiche.
Al riguardo, è stato ritenuto decisivo che il fresato fosse trasferito proprio a Marzaloi, presso la Con.Mo.Ter., che gestiva un impianto di produzione di conglomerati bituminosi.
Ciò, di per sé, è stato considerato come indicativo della necessità di sottoporre il fresato da riutilizzare a un processo di trasformazione, rientrando in una  nozione di comune esperienza il fatto che il materiale grezzo, polveroso e sassoso, proveniente dalla scarificazione del precedente asfalto, non viene reimmesso “tal quale” a integrare il nuovo fondo ma è impiegato per realizzare, mediante appositi macchinari, un diverso materiale – evidentemente non polveroso, né sassoso – con caratteristiche del tutto diverse di pastosità, elasticità e relativa morbidezza.
E, con specifico riferimento al caso in esame, la Corte di appello non ha mancato di sottolineare come il consulente, dr. Antonello Angius, avesse spiegato che il conglomerato bituminoso utilizzato per lo strato di base della pista principale — cioè proprio quello per il quale era previsto il reimpiego del fresato di cui si discute — era prodotto a caldo in un impianto esterno (ud. 20.6.2013, pag. 51).
Dal testo della sentenza impugnata, risulta che lo stesso concetto è stato espresso dal dr. Angius nella sua relazione scritta, richiamata dall’appello Melis a pag. 2-3, trovando ciò specifica conferma nelle leali dichiarazioni dell’ing. Silvia Portas, consulente tecnico della difesa, la quale, pur avendo sostenuto — evidentemente al fine di corroborare la tesi difensiva — che il fresato sarebbe stato riutilizzato “tal quale”, poco dopo, in palese contraddizione, ha precisato che per realizzare il conglomerato bituminoso “il reimpiego è stato fatto a caldo, quindi l’hanno portato nell’impianto di Capoterra, l’hanno miscelato con un conglomerato vergine e poi hanno riportato tutta la miscela in aeroporto” (ud. 5.11.2013, pag. 29).
Nello spiegare le tecniche di miscelazione per il reimpiego del fresato, l’ing. Portas ha anche sottolineato che, mentre la tecnica a freddo permette di riutilizzare il 100% del fresato, che viene reimpastato direttamente sul sito con una macchina apposita e mischiato con nuovo bitume, cemento e acqua polverizzata, la tecnica a caldo non permette di conoscere a priori la quantità utilizzabile perché dipende da quanto bitume è rimasto aggregato agli inerti dopo la fresatura e soprattutto non si conosce l’esatta pezzatura dell’inerte dopo che viene fresato. In questa prospettiva, occorre tener conto delle prestazioni meccaniche che si vogliono ottenere e proprio in ragione di ciò, dopo i test del Politecnico di Milano, fu deciso di abbassare la percentuale di fresato presente nel conglomerato bituminoso destinato alla nuova pista (ud. 5.11.2013, pag. 31-33).
Da ciò la Corte di appello ha tratto la logica convinzione che, ai fini del suo riutilizzo quale componente del nuovo conglomerato bituminoso, il fresato non veniva impiegato “tal quale” ma era sottoposto a una lavorazione a caldo che, attraverso la miscelazione con altre componenti vergini, dava luogo a un materiale del tutto diverso da quello originario. E ciò avveniva affinché il prodotto risultante potesse soddisfare le specifiche caratteristiche merceologiche richieste per l’asfalto della nuova pista aeroportuale, caratteristiche che il fresato “tal quale” non aveva, con la conseguenza che è stato escluso in modo certo, persino sulla base di acquisizioni probatorie indicate dalla stessa difesa negli atti d’impugnazione, che il fresato d’asfalto costituisse un sottoprodotto in senso stretto, mentre costituiva a tutti gli effetti un rifiuto.

5. Le conclusioni, cui sono giunti i Giudici del merito, sono corrette ed immuni dai rilievi giuridici sollevati dai ricorrenti perché, nella specie, il materiale raccolto non è qualificabile come sottoprodotto, né alla stregua delle versione originaria contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006, né alla stregua della versione introdotta dal d.lgs. n. 4 del 2008, ratione temporis vigente, e neppure alla stregua della nuova definizione dei sottoprodotti recata dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, articolo 184-bis, inserito dal d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, art. 12, con la sottolineatura che gli approdi interpretativi devono ritenersi confermati anche a seguito dell’entrata in vigore (in data 2 marzo 2017) del decreto ministeriale 13 ottobre 2016, n. 264 (G.U. 15 febbraio 2017 n. 38 – Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti).
Quindi, l’affermazione contenuta nella sentenza di secondo grado, secondo la quale vi è piena continuità normativa tra le disposizioni che, nel definire la nozione di sottoprodotto, si sono succedute nel tempo, è senza dubbio corretta.
La nuova disposizione legislativa, introdotta dal d.lgs. n. 205 del 2010 che è invocata dai ricorrenti per supportare la tesi che non si trattasse di rifiuto, richiede perché si tratti di sottoprodotto, tra l’altro, da un lato, che la sostanza o l’oggetto potesse essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale (comma 1, lett. c), e, da un altro lato, che la sostanza o l’oggetto fosse originato da un processo di produzione, di cui costituisse parte integrante, e il cui scopo primario non fosse la produzione di tale sostanza od oggetto (comma 1, lett. a).
Sul punto, questa Sezione ha affermato che integra il reato previsto dall’art. 256, comma primo, lett. a), del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 il reimpiego di materiale inerte derivante dall’attività di scarifica del manto stradale nel processo produttivo di conglomerato bituminoso, non potendo lo scarificato essere qualificato come sottoprodotto ai sensi dell’art. 184 bis del citato D.Lgs. neppure all’esito della modifica introdotta dall’art. 12 del D.Lgs. 3 dicembre 2010, n, 205 (Sez. 3, n. 7374 del 19/01/2012, Aloisio, Rv. 252101).
Si è visto come sia stato accertato che il fresato derivante dalla scarificazione dell’asfalto della vecchia pista aeroportuale originasse da un processo lavorativo che non era funzionale alla sua produzione; anzi il processo produttivo era funzionale, almeno nella fase dello smantellamento della vecchia pista, a eliminare lo strato di asfalto esistente per poter realizzare la nuova pista.
In ogni caso, opportunamente, i Giudici del merito, come sarà più chiaro in seguito, hanno anche accertato che il fresato derivante dalle operazioni di scarificazione della vecchia pista aeroportuale, oltre a difettare di altri necessari requisiti, richiedeva adeguate operazioni di recupero per poter essere riutilizzato e che erano necessarie ulteriori trasformazioni e trattamenti, tramite apposito impianto non collocato in loco e dove il fresato di asfalto doveva essere appositamente trasportato.
E’ pacifico, tant’è che gli stessi ricorrenti se ne fanno carico, che una sostanza, per essere qualificata come sottoprodotto, deve soddisfare cumulativamente tutti i requisiti di cui all’articolo 184-bis TUA, con la conseguenza che, se anche uno solo dei requisiti non è soddisfatto, la sostanza non può rientrare nella nozione di sottoprodotto.
L’art. 184-bis, infatti, stabilisce che è sottoprodotto e non rifiuto ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni: la sostanza o l’oggetto deve trarre origine da un processo di produzione, di cui costituisca parte integrante, e il cui scopo primario non sia la produzione di tale sostanza od oggetto; deve esserne certa l’utilizzazione nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
Ciò posto, occorre partire dalla premessa, aderente al dato normativo, che i  materiali che residuano da lavori di demolizione o di costruzione, che hanno ad oggetto strade o opere simili (quale, come nel caso in esame, la nuova costruzione di una pista aeroportuale)  devono farsi rientrare nel novero dei rifiuti, perché l’articolo 184, comma 1, lettera b) del T.U.A., definisce, ex positivo iure, rifiuti speciali quelli derivanti da attività di demolizione, costruzione, nonché quelli che derivano dalle attività di scavo, fermo restando la possibilità di gestire gli stessi come sottoprodotti, ricorrendo le condizioni di cui all’articolo 184-bis TUA.
Ne consegue che il materiale derivante dalle attività incluse nella lista di cui alla lettera b) del terzo comma dell’articolo 184 TUA costituiscono rifiuti per presunzione ex lege iuris tantum (circostanza, del resto, confermata per quanto attiene l’attività di scarifica del manto stradale mediante fresatura a freddo qualificata al punto 7.6.1 come rifiuto dall’allegato  1 al D.M. del 5 febbraio 1998 e dal Codice Europeo dei Rifiuti), così dovendosi interpretare l’inciso “fermo restando quanto disposto dall’articolo 184-bis“, nel senso cioè che la regola è che si verte in tema di rifiuti, pur non essendo esclusa (in via di eccezione) la possibilità che dette sostanze derivanti da quelle attività costituiscano, in presenza di tutte le condizioni previste dall’articolo 184-bis, sottoprodotti.
In tale quadro, secondo il Collegio, vanno letti gli arresti cui è pervenuta, sul  tema della natura dei residui da demolizione del manto stradale, la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4978 del 06/10/2014; Cons. Stato, Sez. IV, n. 4151 del 21/05/2013), la quale si è espressa nel senso di ritenere astrattamente possibile qualificare il fresato d’asfalto come sottoprodotto, in presenza (appunto) di tutte le condizioni prescritte dall’articolo 184-bis, del T.U.A.
La giurisprudenza amministrativa ha osservato che  il fresato d’asfalto, pur essendo contemplato dal Codice Europeo dei Rifiuti (CER), può essere trattato alla stregua di un sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione, senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito, precisando che resta comunque ferma la qualifica di “rifiuto” del fresato d’asfalto, con la conseguenza che, ai fini dello smaltimento, esso è soggetto a tutte le norme che valgono per la categoria dei rifiuti, mentre può essere qualificato sottoprodotto, anziché rifiuto, se lo stesso è inserito in un ciclo produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun trattamento diverso dalla normale pratica industriale  in un impianto che ne preveda l’impiego nello stesso ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come componente del prodotto finale trattato nell’ambito dello stesso impianto (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4151 del 2013, cit.).
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il c.d. “fresato d’asfalto” – che viene solitamente definito come il materiale solido di risulta dell’attività di scarifica (scarificazione) del manto stradale mediante fresatura, costituito da bitume ed inerti, qualificato come rifiuto dall’allegato  1 al D.M. del 5 febbraio 1998 e dal Codice Europeo dei Rifiuti – rientri nella nozione di rifiuto.
In realtà, il nucleo che, in questa delicata materia del diritto ambientale, sorregge tale consolidato orientamento, dovendo per ovvie ragioni l’analisi essere limitata alle pronunce intervenute dopo la novella del 2010, è tutto nel senso che, in taluni casi, la presunzione legale iuris tantum della qualifica di rifiuto non è vinta da chi eccepisce la natura di sottoprodotto della sostanza derivante dalle predette attività (da ultimo, Sez. 3, n. 37168 del 09/06/2016, Bindi, non mass.), laddove, trattandosi di invocare una condizione per l‘applicabilità di un regime derogatorio a quello ordinario dei rifiuti, incombe sull‘interessato l‘onere di provare che tutti i requisiti, richiesti dall’articolo 184-bis per attribuire alla sostanza la qualifica di sottoprodotto, siano stati osservati (“ … fermo restando quanto disposto dall’articolo 184-bis“), mentre al giudice compete la verifica se il materiale probatorio fornito dalla parte abbia assolto tale onere.
In questo senso è anche il decreto ministeriale 13 ottobre 2016, n. 264 che, all’articolo 4, nel dettare le condizioni generali di applicabilità, esordisce affermando che, ai sensi dell’articolo 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, i residui di produzione, cui all’articolo 2, comma 1, lettera b), ossia “ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che può essere o non essere un rifiuto”) sono sottoprodotti e non rifiuti quando il produttore dimostra che, non essendo stati prodotti volontariamente e come obiettivo primario del ciclo produttivo, sono destinati ad essere utilizzati nello stesso o in un successivo processo, dal produttore medesimo o da parte di terzi e, a tal fine, in ogni fase della gestione del residuo, è necessario fornire la dimostrazione che sono soddisfatte tutte le condizioni di cui alle lettere a), b), c) e d) dell’articolo 4 del decreto.
Nel caso in esame, non soltanto i ricorrenti non hanno affatto osservato l’onere sugli stessi incombente anzi, come sottolineato nella sentenza impugnata, sono emerse circostanze di segno opposto, confermative della natura di rifiuto del materiale derivante dall’attività di scarificazione del manto della pista aeroportuale, con specifico riferimento, al di là della “provenienza” del fresato e di cui si è già  trattato, ai requisiti dell’utilizzo, della certezza dell’utilizzo e della compatibilità del trattamento con la nozione di sottoprodotto.
5.1. Quanto al requisito dell’utilizzo, è incontroverso che, nel periodo oggetto della contestazione, esso non sia stato integrale.
Tuttavia, non è più previsto, con la novella del 2010, che il riutilizzo della sostanza (nel caso in esame, del fresato di asfalto) debba essere integrale e ciò si spiega col fatto che il produttore può decidere di disfarsi, in parte, del sottoprodotto che, a quel punto, diventa un rifiuto.
Ne consegue che, quando il riutilizzo non è integrale, inevitabilmente una parte della sostanza prodotta è rifiuto in quanto oggettivamente destinata all’abbandono e l’eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l’intenzione di disfarsi, con l’ulteriore conseguenza che la giacenza del materiale (a maggior ragione se, come nella specie, in una sede diversa dal luogo di produzione del rifiuto) integra la fase dello stoccaggio e pone il problema della permanenza del rifiuto.
5.2. Quanto poi al requisito della certezza dell‘utilizzo del sottoprodotto, si richiede che sia “certo che la sostanza o l‘oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi”.
Sebbene la norma del 2008 indicasse espressamente il momento della produzione come quello in cui deve sussistere la certezza del riutilizzo, richiedendo che fosse anche preventivamente individuato il processo di produzione o di utilizzazione in cui questo deve avvenire, la dottrina ha segnalato come tali condizioni, quantunque non replicate con la novella del 2010, siano da ritenersi implicite nel sistema.
E‘ stato infatti osservato che solo la fase della produzione è quella in cui, a seconda del comportamento o delle intenzioni del produttore, si può stabilire se egli si disfi o abbia intenzione di disfarsi della sostanza, nel qual caso si è in presenza di un rifiuto ovvero intenda procedere ad un riutilizzo di essa  all‘interno del circuito produttivo, nel qual caso, ricorrendo tutte le altre condizioni, si è in presenza di un sottoprodotto e tale opzione deve emergere, senza soluzione di continuità, nel momento della produzione e non può subentrare dopo che la sostanza abbia assunto la natura di rifiuto, con la conseguenza che, dovendosi individuare nel momento della produzione quello in cui vanno verificate le condizioni perché possa parlarsi di sottoprodotto, è evidente che ciò non può che avvenire prima del suo utilizzo e che quest‘ultimo deve essere preventivamente individuato e programmato, a prescindere dall‘espressa previsione normativa.
La questione è strettamente collegata con quella della prova della certezza del riutilizzo e, per le ragioni in precedenza enunciate, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, in materia di gestione dei rifiuti, ai fini della qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali incombe sull’interessato l’onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato con certezza ed effettività, e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo, trattandosi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, dep. 2015, Giaccari, Rv. 262129; Sez. 3,n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504).
Nel caso in esame, siccome è incontroverso che sin dall’inizio il fresato non dovesse essere utilizzato per intero, è invece certo che una parte cospicua di esso (pari al 45%) non sarebbe stata riutilizzata e perciò costituiva a tutti gli effetti un rifiuto.
Pertanto, non potendo la certezza dell’utilizzo subentrare dopo che la sostanza aveva già assunto la natura di rifiuto, è apparso, a ragione, irrilevante che, con la perizia di variante approvata soltanto il 17 dicembre  2008 (cioè quando i lavori andavano avanti ormai da tempo e un gran numero di trasporti di fresato a Marzaloi erano stati eseguiti), si era stabilito, quale compensazione per la riduzione al 20% del fresato da riutilizzare nella nuova pista, l’impiego del restante fresato per la realizzazione delle “strips” (fasce laterali rispetto alla pista in senso stretto) mischiandolo e costipandolo con altro materiale inerte: la variante non poteva evidentemente mutare, a posteriori, le caratteristiche del materiale già abbandonato e costituente a tutti gli effetti rifiuto, anche nell’ipotesi che esso fosse stato poi effettivamente impiegato per il nuovo uso deciso successivamente.
5.3. A seguito del decreto legislativo n. 205 del 2010, la lettera c) del primo comma dell’articolo 184-bis prevede che “la sostanza o l‘oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale“.
Anche questa ulteriore e necessaria condizione è stata ritenuta mancante nel senso che il fresato non poteva essere riutilizzato “tal quale”, dovendo invece essere sottoposto, almeno per la quota da riutilizzare come componente della nuova pista, a un trattamento diverso dalla normale pratica industriale che ne mutava in modo radicale le caratteristiche.
In altri termini, ai fini del suo riutilizzo quale componente del nuovo conglomerato bituminoso, il fresato non veniva impiegato “tal quale” ma era sottoposto, nel caso di specie, a una lavorazione a caldo che, attraverso la miscelazione con altre componenti vergini, dava luogo a un materiale del tutto diverso da quello originario. E ciò avveniva affinché il prodotto derivato potesse soddisfare le specifiche caratteristiche merceologiche richieste per l’asfalto della nuova pista aeroportuale, caratteristiche che il fresato “tal quale” non aveva.
Quindi, non risulta dimostrato, anzi è emerso l’esatto contrario, che il fresato di asfalto fosse stato o potesse essere utilizzato direttamente, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla “normale pratica industriale”.
Tale ultima nozione non può infatti ricomprendere, come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, quelle attività che comportano trasformazioni così radicali del materiale trattato tanto da stravolgerne l’originaria natura (Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busé, in motiv.), al pari di quelle che si risolvono, come nel caso di specie, in una vera e propria attività di recupero di rifiuti.
Invero, dall’accertamento di merito contenuto nella sentenza impugnata,  è risultato evidente che i materiali derivanti dalla scarificazione della vecchia pista aeroportuale non venivano utilizzati direttamente, poiché erano sottoposti ad una specifica procedura di “trattamento”, la cui nozione è ricavabile dal d.lgs. n. 36 del 2003, art. 2, comma 1, lett. h) “Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti” e si riferisce ai “processi fisici, termici, chimici o biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano le caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa, di facilitarne il trasporto, di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di sicurezza”, con la conseguenza che tale attività comporta un mutamento strutturale delle componenti chimico-fisiche della sostanza trattata, sicché, se tale è il “trattamento”, anche operazioni di minor impatto sul residuo, definite “minimali”, individuabili in operazioni quali la cernita, la vagliatura, la frantumazione o la macinazione, ne determinano una modificazione dell’originaria consistenza, rientrando in tale concetto (Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, cit. in motiv.). Essendo pertanto questa la nozione di “trattamento” da considerare ai fini dell’individuazione della sussistenza dei requisiti di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, articolo 184-bis, la giurisprudenza di legittimità ha osservato che la verifica – diretta ad accertare quando detto trattamento possa ritenersi rientrante nella normale pratica industriale – implica il ricorso ad un’interpretazione meno estensiva dell’ambito di operatività della disposizione in esame e tale da escludere dal novero della normale pratica industriale tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato. Tale lettura della norma, suggerita dalla dottrina e che considera conforme alla normale pratica industriale quelle operazioni che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire, è sembrata maggiormente rispondente ai criteri generali di tutela dell’ambiente cui si ispira la disciplina in tema di rifiuti, rispetto ad altre pur autorevoli opinioni che, ampliando eccessivamente il concetto, rendono molto più incerta la delimitazione dell’ambito di operatività della disposizione e più alto il rischio di una pratica applicazione che ne snaturi, di fatto, le finalità, con la precisazione che tale soluzione interpretativa, in ogni caso, non può prescindere da un puntuale accertamento in fatto da parte del giudice del merito, il quale dovrà necessariamente analizzare tutti gli aspetti significativi della vicenda processuale che consentano di verificare la effettiva sussistenza dei presupposti di applicabilità della disciplina prevista per i sottoprodotti (Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, cit. in motiv.).
A tale delicato compito non si sono sottratti, nel caso di specie, il Giudici del merito che, in considerazione del trattamento subito dal fresato di asfalto, hanno desunto la mancanza di questo altro e fondamentale requisito richiesto dal d.lgs. n. 152 del 2006, articolo 184-bis per la configurazione del sottoprodotto.
Sotto quest’ultimo aspetto, va sottolineato come il precitato decreto ministeriale n. 264 del 2016 abbia fornito, all’articolo 6 (Utilizzo diretto senza trattamenti diversi dalla normale pratica industriale), indicazioni non contrastanti con l’interpretazione giurisprudenziale del concetto di normale pratica industriale, laddove ha precisato, al comma 1, che, ai fini e per gli effetti dell’articolo 4, comma 1, lettera c), non costituiscono normale pratica industriale i processi e le operazioni necessari per rendere le caratteristiche ambientali della sostanza o dell’oggetto idonee a soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e a non portare a impatti complessivi negativi sull’ambiente, salvo il caso in cui siano effettuate nel medesimo ciclo produttivo, secondo quanto disposto al comma 2.
In base al quale, invece, rientrano, in ogni caso, nella normale pratica industriale le attività e le operazioni che costituiscono parte integrante del ciclo di produzione del residuo, anche se progettate e realizzate allo specifico fine di rendere le caratteristiche ambientali o sanitarie della sostanza o dell’oggetto idonee a consentire e favorire, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e a non portare ad impatti complessivi negativi sull’ambiente (articolo 6, comma 2, DM n. 264 del 2016).
Ciò posto, in disparte la questione della natura certamente non integrativa della norma penale di tale decreto, appare chiaro come la definizione di normale pratica industriale appaia coerente con la tesi più restrittiva espressa in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, giacché si esclude che possano rientrare in quella nozione “i processi e le operazioni necessari per rendere le caratteristiche ambientali della sostanza o dell’oggetto idonee a soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti”, comprese dunque le operazioni cd. minimali, salvo che non costituiscano parte integrante del ciclo di produzione del residuo in modo che sia garantito l’utilizzo del sottoprodotto “tal quale” (cioè nello stesso stato in cui è generato dal processo di produzione), circostanza che i giudici del merito, con logica ed adeguata motivazione, hanno correttamente escluso.

5.4. Conclusivamente, nel caso in questione, i ricorrenti, da una parte, non hanno assolto l’onere della prova, sugli stessi incombente, circa l’osservanza di tutte le condizioni richieste dall’articolo 184-bis d.lgs. n. 152 del 2006 per ritenere che il fresato di asfalto, ricavato dalle operazioni di scarificazione della vecchia pista aeroportuale, potesse rientrare nella categoria del sottoprodotto, fermo restando che costituisce una quaestio facti, demandata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se giuridicamente corretta e se sorretta, come nella specie, da adeguata motivazione esente da vizi di manifesta illogicità, quella diretta a stabilire se una sostanza abbia o meno natura di sottoprodotto o di rifiuto.

6. Esclusa la natura di sottoprodotto del fresato di asfalto reiteratamente trasportato da Elmas a Capoterra nell’impianto di Marzolai, devono ritenersi manifestamente infondati anche gli altri due motivi di impugnazione articolati dal ricorrente Melis.
A dimostrazione della loro manifesta infondatezza, va ricordato che il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152) sanziona una pluralità di condotte che si risolvono in una qualunque delle operazioni tassativamente elencate dalla norma consistenti nella cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione e, in ogni caso, nella gestione abusiva dei rifiuti e che devono realizzarsi nel contesto di una struttura organizzata tendenzialmente destinata ad operare con continuità.
Trattasi di un  reato abituale, che si perfeziona soltanto attraverso la realizzazione di più comportamenti non occasionali della stessa specie, finalizzati al conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria predisposizione di una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e capitali, che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo (Sez. 3, n. 52838 del 14/07/2016, Serrao, Rv. 268920; Sez. 3, n. 44629 del 22/10/2015, Bettelli, Rv. 265573; Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009, Caserta, Rv. 245605).
La norma incriminatrice, poi, non si limita a punire l’illecita gestione organizzata, ma richiede in aggiunta che le condotte di gestione siano connotate dal requisito dell’abusività.
Dal testo della sentenza impugnata risulta e non è controverso che, per i trasporti e la gestione del fresato in questione, le imprese appaltatrici non avessero richiesto e tanto meno ottenuto alcuna autorizzazione.
Non è nemmeno contestabile che il fresato in questione, da qualificare come rifiuto, fosse oggetto di un traffico e che i quantitativi interessati siano stati ingenti.
La Corte di appello è pervenuta a tale conclusione, come già in precedenza anticipato, sulla base dei numerosi “report” dei camionisti attestanti il conferimento del fresato all’impianto di Marzaloi nonché sulla base delle dichiarazioni del teste De Angelis e dell’imputato Melis, che hanno offerto un quadro sufficientemente preciso del traffico di fresato di asfalto tra il cantiere aeroportuale di Elmas e l’impianto di Marzaloi (pagina 14 e 15 della sentenza impugnata).
Il carattere ingente dei rifiuti trasportati abusivamente è stato desunto dagli stessi quantitativi indicati principalmente dai report degli autotrasportatori, essendo risultato che il fresato trasportato abusivamente era pari a ben 17.500 metri cubi.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso che l’ingente quantitativo dei rifiuti, necessario a configurare il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti deve riferirsi al quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste ultime, singolarmente considerate, possono essere qualificate di modesta entità (Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016, Sepe, Rv. 268667; Sez. 3, n. 12433 del 15/11/2005, dep. 2006, Costa, Rv. 234009; Sez. 3, n. 40827 del 06/10/2005, Carretta, Rv. 232348).
E’ stato poi ritenuto indiscutibile il carattere organizzato e sistematico di tale traffico, trattandosi di trasporti strumentali all’esecuzione di uno specifico e grosso appalto, che richiedeva la movimentazione seriale, coordinata e per un tempo non breve di un gran numero di uomini e di mezzi oltre che di quantitativi ingenti di materiali qualificabili come rifiuti.
La Corte del merito ha infine dato atto come l’elemento soggettivo del delitto in contestazione non sia stato posto in discussione, almeno in termini espressi, in alcuno dei due gravami e, quanto all’ingiusto, profitto, ha osservato come l’effettuazione dei trasporti in forma abusiva sgravasse le società appaltatrici dagli oneri, rilevanti sia sul piano finanziario che su quello amministrativo e burocratico, connessi alla regolarizzazione della movimentazione del fresato. Si trattò di un risparmio significativo anche in ragione dell’esigenza di portare a termine con celerità lavori così importanti e urgenti come quelli di riqualificazione dell’aeroporto internazionale di Cagliari-Elmas (pag. 15 e 16 della sentenza impugnata).
Tale conclusione è perfettamente in linea con l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale, per la configurabilità del reato di traffico illecito di rifiuti, il profitto ingiusto non deve assumere necessariamente carattere patrimoniale, potendo essere costituito anche da vantaggi di altra natura (Sez. 3, n. 40828 del 06/10/2005, Fradella, Rv. 232351), potendo infatti essere costituito anche da vantaggi non patrimoniali o comunque da un complessivo risparmio dei costi aziendali (Sez. 4, n. 28158 del 02/07/2007, Costa, Rv. 236907).
Al cospetto di ciò, le obiezioni del ricorrente si connotano, oltre che per la loro manifesta infondatezza, anche per la portata tipicamente fattuale, laddove il ricorrente, nel censurare la congruità della motivazione, ha introdotto censure di merito che non possono rientrare nell’orizzonte cognitivo del giudice di legittimità, non potendosi devolvere alla Corte di cassazione doglianze con le quali, deducendosi apparentemente una carenza logica od argomentativa della decisione impugnata, si pretende, invece, una rivisitazione del giudizio valutativo sul materiale probatorio, operazione non consentita nel giudizio di cassazione all’interno del quale non è possibile innestare censure che implicano la soluzione di questioni fattuali, adeguatamente e logicamente risolte, come nel caso in esame, dal giudice del merito.

7. Anche il quarto motivo del ricorso Melis è inammissibile perché, la doglianza è nuova, al pari dell’ultima parte del terzo motivo relativamente all’intervento dell’ENAC ed alle conclusioni alle quali tale ente sarebbe giunto in ordine ai lavori eseguiti ed alla qualificazione come sottoprodotto dei materiali risultati dalla scarificazione della vecchia pista.
Ne consegue che la questione – dalla quale il ricorrente trae argomento per porre in discussione l’elemento soggettivo del reato, anche sotto il profilo di un errore che sarebbe caduto sul fatto  costituente il reato, quanto meno nel periodo successivo alla perizia dell’Enac – non può essere sollevata per la prima volta nel giudizio di legittimità, non essendo stata la censura sottoposta allo scrutino del giudice di appello.

8. Sulla base delle considerazioni che seguono, la Corte ritiene che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili.
8.1. A tale proposito è il caso di precisare che manifestamente infondata, ai sensi dell’articolo 606, comma 3, del codice di procedura penale, non è soltanto la questione palesemente pretestuosa o artificiosa oppure quella apparente, tale cioè da presentarsi ictu oculi come inconsistente e priva di ogni ragionevolezza, o quella caratterizzata da evidenti errori di diritto nella interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l’opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell’ordinamento (da ultimo, ex multis, Sez. U , n. 12602 del 17/12/2015, dep.2016, Ricci, in motiv.), situazioni processuali che non esigono perciò un particolare sforzo motivazionale per essere confutate.
Manifestamente infondata è, invece, anche la questione che – pur dando luogo, sul piano logico, all’impostazione di un sillogismo –  rende assolutamente vana, sul piano giuridico, la prospettazione dell’ipotesi strutturata con il motivo di ricorso, per l’assoluta inconsistenza della premessa che muove dall’interpretazione della norma o del principio giuridico invocati.
Ne consegue che, ai fini della valutazione del carattere manifesto, o meno, dell’infondatezza, occorre delibare sulla solidità delle ragioni poste a fondamento della doglianza, non potendo l’ampiezza della motivazione giudiziale o la complessità e la diffusività delle argomentazioni spese dal ricorrente con il motivo di impugnazione essere ritenute logicamente incompatibili con un procedimento ermeneutico che sfoci in un’affermazione di manifesta infondatezza del ricorso per cassazione. Infatti, proprio la carenza di fondamento dell’ipotesi prospettata con il motivo di gravame può richiedere la produzione di un particolare sforzo argomentativo per sostenerla, così da esigere parallelamente un’articolata motivazione per confutarla.
8.2. Consegue pertanto la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che i ricorrenti versino la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 28/06/2017