Rifiuti. Raccolto e trasporto in forma ambulante. Requisiti, deroga, configurabilità gestione non autorizzata di rifiuti. Cassazione Penale n. 6735/2018.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 6735 del 12 febbraio 2018 (ud. del 22 novembre 2017)
Pres. Di Nicola, Est. Mengoni
Rifiuti. Attività ambulante. Raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi. Deroga Art. 266, comma 5 d. lgs. n. 152/2006. D. lgs. n. 114/98. Gestione non autorizzata di rifiuti. Configurabilità. Art. 256 d. lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, la deroga prevista dall’art. 266, comma 5, d. lgs. n. 152 del 2006, per l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi – effettuata in forma ambulante – opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l’esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio. Sicché, l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante, non integra il reato di gestione non autorizzata dei rifiuti, ma solo a condizione, da un lato, che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l’esercizio di attività commerciale in forma ambulante e, dall’altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio (Sez. 3, n. 20249 del 7/4/2009, Pizzimenti; conf. Sez. 3, n. 39774 del 2/5/2013, Calvaruso e altro).
La condotta sanzionata dall’art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all’esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 6735 del 12 febbraio 2018 (ud. del 22 novembre 2017)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da Selimi Maksim, nato in Albania il 29/8/1963
avverso la sentenza del 25/7/2017 del Tribunale di Asti;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Ciro Angelillis, che ha concluso chiedendo il riqetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 25/7/2017, il Tribunale di Asti dichiarava Maksim Selimi colpevole della contravvenzione di cui all’art. 256, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e lo condannava alla pena di duemila euro di ammenda; allo stesso era contestato di aver effettuato abusivamente attività di raccolta e trasporto di rifiuti senza esser iscritto all’Albo nazionale gestori ambientali.
2. Propone ricorso per cassazione il Selimi, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
– inosservanza o erronea applicazione della norma contestata. L’attività svolta dal ricorrente sarebbe stata ricostruita in via presuntiva ed in forza di documenti privi di qualunque concludenza; il Giudice, inoltre, avrebbe negato l’ingresso nella decisione ad elementi di prova – risultanti dagli atti processuali – concernenti fatti decisivi. Nei medesimi termini, poi, si censura la necessità dell’iscrizione all’Albo nazionale citato, che non troverebbe applicazione nei casi come quello in esame, con raccolta di rottami e scarti in forma itinerante, non già imprenditoriale; e con la precisazione che, in questa ipotesi, il fornitore avrebbe prodotto i rifiuti conferiti, che quindi non deriverebbero da attività di raccolta e/o trasporto. Con riguardo a tutti questi profili, ancora, si deduce il vizio motivazionale nelle tre forme di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., tale da imporre ulteriormente l’annullamento della sentenza. Da ultimo, si censura ancora il vizio motivazionale con riguardo alla causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, negata pur ricorrendone i presupposti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Preliminarmente si osserva che la presente motivazione è redatta in forma semplificata, ai sensi del decreto n. 68 del 28/4/2016 del Primo Presidente di questa Corte.
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Con riguardo alle prime tre doglianze, da valutare congiuntamente, attesane la sostanziale identità di ratio, osserva innanzitutto il Collegio che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico – argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7 /10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247).
4. In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte, osserva allora il Collegio che le censure mosse dal ricorrente al provvedimento impugnato si evidenziano come inammissibili; ed invero, dietro la parvenza di una violazione di legge, lo stesso – specie con la prima censura – tende ad ottenere in questa sede una nuova ed alternativa lettura delle medesime emergenze probatorie (documentali) già esaminate dal Giudice del merito, invocandone una valutazione diversa e più favorevole.
Il che, come appena riportato, non è consentito.
5. A ciò si aggiunga che la sentenza – con chiaro ed adeguato percorso logico giuridico – ha evidenziato che: 1) l’imputato non era risultato iscritto all’Albo nazionale dei gestori ambientali; 2) lo stesso, nel corso del 2012, aveva conferito svariati quantitativi di rifiuti urbani speciali, per lo più ferrosi, alla “Interfer s.r.l.”; 3) tali cessioni erano avvenute a titolo oneroso, come da ricevute prodotte dalla pubblica accusa. Documenti che, all’evidenza, questa Corte non può sottoporre nuovamente a valutazione nella loro materialità (effettiva natura dei documenti, contenuto, sottoscrizione), come richiede il ricorrente, concernendo – questa – materia e competenza propria del Giudice del merito; né, peraltro, può esser accolta la censura concernente la mancata assunzione di una prova decisiva, non risultando affatto quale prova – dedotta o, quantomeno richiesta, e non ammessa – avrebbe avuto l’efficacia di scardinare, confutandolo del tutto, il compendio istruttorio fino a quel momento raccolto.
6. Con riguardo, poi, alla necessaria iscrizione nell’Albo più volte menzionato, osserva la Corte che la sentenza impugnata si pone in adesione all’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui il reato di cui all’art.
256, d. lgs. n. 152 del 2006, è configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che conferisca rifiuti nell’esercizio, anche di fatto, di una attività economica, indipendentemente dalla qualifica formale sua o dell’attività medesima. (così, ex plurimis, questa Sez. 3, n. 38364 del 27/6/2013, Beltipo, Rv. 256387).
7. Con particolare riferimento allo specifico oggetto del gravame, osserva poi il Collegio che questa Giudice ha già affermato – conformemente all’assunto del Tribunale di Asti – che l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante, non integra il reato di gestione non autorizzata dei rifiuti, ma solo a condizione, da un lato, che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l’esercizio di attività commerciale in forma ambulante e, dall’altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio (Sez. 3, n. 20249 del 7/4/2009, Pizzimenti, Rv. 243627; conf. Sez. 3, n. 39774 del 2/5/2013, Calvaruso e altro, Rv. 257590).
Tale conclusione è stata poi confermata in un’articolata pronuncia di questa Sezione (n. 29992 del 24/6/2014, PM in proc. Lazzaro, Rv. 260266, ripetutamente seguita dalle successive), nella quale è stato compiuto un ampio e diffuso excursus sull’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria della materia, che il Collegio condivide e ribadisce in questa sede.
Va quindi nuovamente affermato che:
– La condotta sanzionata dall’art. 256, comma 1, d. lgs. n. 152 del 2006, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all’esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità;
– La deroga prevista dall’art. 266, comma 5, stesso decreto, per l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi – effettuata in forma ambulante – opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l’esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
Ne consegue che, nei casi quale quello in esame, il giudice è chiamato a verificare:
• la eventuale sussistenza di un titolo abilitativo, accertandone in concreto la efficacia e la validità, considerata, peraltro, la natura personale del suddetto titolo, che presuppone il possesso di determinati requisiti per l’esercizio dell’attività di commercio; ed operando una ulteriore verifica, nel caso in cui detta attività non sia svolta direttamente da colui che vi è abilitato, finalizzata alla corretta individuazione del rapporto effettivamente intercorrente tra i diversi soggetti;
• che l’attività sia circoscritta, comunque, ai soli rifiuti che formano oggetto del commercio del soggetto abilitato.
In assenza dì questo duplice presupposto, deve quindi ritenersi che non possa trovare applicazione la citata disciplina derogatoria e, pertanto, che non sussista l’esonero dall’osservanza di quella generale e, conseguentemente non possa giungersi ad una pronuncia di assoluzione dell’imputato, dovendo ritenersi invece che sussistano i requisiti del reato contestato.
11. Quanto precede, in uno con il carattere non occasionale della condotta, che aveva denotato comunque un minimum di organizzazione, ha da ultimo anche giustificato – sia pur per implicito – il diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.; i numerosi conferimenti abusivi dal 2012 in avanti – ascritti e provati – hanno infatti evidenziato quell’abitualità della condotta che preclude l’operatività dell’istituto, per espressa previsione di legge.
12. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 22 novembre 2017
Scarica in pdf il testo del provvedimento: cass. pen., sez. 3, sent. n. 6735-2018