Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 15626 del 13 aprile 2024 (ud. del 14 dicembre 2023)
Pres. Ramacci, Est. Noviello
Rifiuti. Produttore dei rifiuti. Onere dell’analisi dei rifiuti. Art. 188 d. lgs. n. 152/2006.
Ai sensi dell’art. 188 del Dlgs. 152/06 è onere del produttore dei rifiuti procedere al relativo smaltimento e tale principio determina l’onere dello svolgimento delle attività prodromiche, tra cui può rientrare, ove ritenuta necessaria rispetto al processo di produzione, ai fini del corretto smaltimento, anche l’analisi dei rifiuti. Che dunque integra un onere di chiunque proceda alla produzione dei rifiuti sin dal primo giorno dello svolgimento della relativa attività.
Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 15626 del 13 aprile 2024 (ud. del 14 dicembre 2023)
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 15 settembre 2022, la Corte di appello di Bologna, riformando parzialmente la sentenza del tribunale di Ravenna del 7 luglio 2021, con la quale OMISSIS e OMISSIS erano stati condannati in relazione al reato ex art. 110 c.p. 256 comma 1 lett. b) commi 2 e 4 del Dlgs. 152/06 e la Remer s.r.l. era stata condannata alla pena pecuniaria del pagamento di 100 quote in relazione all’art. 25 undecies comma 2 lett. b) del Dlgs. 231/01, concedeva a OMISSIS il beneficio della sospensione condizionale della pena e quello della non menzione, revocava la sanzione pecuniaria applicata in favore della Reder s.r.l. e confermava nel resto la sentenza impugnata.
2. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso OMISSIS e OMISSIS mediante il rispettivo difensore, deducendo il primo cinque motivi di impugnazione ed il secondo sei motivi di impugnazione.
3. Deduce OMISSIS, con il primo motivo, il vizio ex art. 606 comma 1 lett. c) cod. proc. pen. lamentando la mancata declaratoria di inutilizzabilità degli esiti dell’esame di laboratorio eseguito dall’Arpac su materiale di cui al capo di imputazione, per violazione degli artt. 220 e/o 223 disp. att. cod. proc. pen. Oltre che, per via derivata, delle dichiarazioni rese da testi, limitatamente ai riferiti risultati prima citati. In proposito, il ricorrente riporta motivi di appello con cui, da una parte, aveva rilevato l’inutilizzabilità degli esami prima citati per mancata acquisizione degli stessi al fascicolo del dibattimento, e dall’altra aveva dedotto la violazione degli artt. 220 e 223 disp. att. cod. proc. pen. con riferimento alla attività di prelievo (del 15.1.2019) e analisi (effettuate il 23.5.2019) svolta dall’Arpac, su campioni di sostanza denominata “polverino”. Si aggiunge, a conforto della suddetta tesi, che nella stessa data di effettuazione del campionamento (15.1.2019) sarebbe stato redatto un verbale di identificazione del ricorrente ex art. 349 cod. proc. pen., in relazione al reato ex art. 256 del Dlgs. 152/06. Inoltre, pochi giorni dopo i predetti accadimenti sarebbe stato redatto verbale di identificazione anche nei confronti dello OMISSIS. Ciò in quanto le analisi si sarebbero svolte su un campione conoscitivo e non ufficiale, e come emergerebbe dal verbale di campionamento relativo, non sarebbe stata consegnata alle parti alcuna aliquota né sarebbe stato dato avviso agli indagati dell’inizio delle analisi. In tal modo, già esisteva un soggetto indagabile al momento delle contestate analisi, con conseguente necessità di assicurare le garanzie di cui all’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. In realtà mancanti. Si aggiunge che, comunque, sarebbe stato omesso il preavviso relativo alle analisi di cui all’art. 223 disp. att. citato.
Si contestano, poi le risposte della Corte di appello rispetto alle predette censure, con riferimento alla circostanza per cui, in ogni caso, gli esiti dei contestati esami avrebbero fatto ingresso nel processo in quanto descritti dal teste esaminato, Canè, osservandosi che, al riguardo, le dichiarazioni di quest’ultimo sarebbero inutilizzabili in quanto non sarebbe stato egli l’autore degli accertamenti tecnici riferiti. Così che lo stesso avrebbe riferito in ordine ad un oggetto mai caduto sotto la sua percezione. Trattandosi di dichiarazione de relato essa sarebbe stata quindi acquisita in violazione dell’art. 195 cod. proc. pen. Si contesta inoltre, la tesi della corte di appello per cui non avrebbe trovato applicazione l’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. in presenza di una mera attività amministrativa. Così che si sarebbe seguito un corretto iter ex art. 223 cit. Ciò perché, al momento del prelievo, la p.g. operante aveva ravvisato indizi di reato redigendo verbale ex art. 349 cod. proc. pen. in ordine al reato ex art. 256 comma 1 lett. b) e 4 del Dlgs. 152/06 e, quindi, le analisi sarebbero esito di attività ispettiva nel corso della quale sarebbero già emersi indizi di reato. E ciò anche perché i campionamenti sarebbero stati effettuati su richiesta del NOE, a fronte di indizi di reità emersi nei confronti dei due coimputati come emergenti dal verbale di sopralluogo redatto dai Carabinieri e riportato in ricorso. Né sarebbe valida l’affermazione, ulteriore, per cui in ogni caso i due ricorrenti odierni avevano nominato i difensori di fiducia, non emergendo da tale dato alcun effetto sanante dei vizi in parola.
Si aggiunge che, in ogni caso, l’inutilizzabilità delle analisi deriverebbe dalla assenza di avvisi ex art. 223 disp. att. cod. proc. pen.
In conclusione, la motivazione sarebbe altresì viziata con violazione dell’art. 191 cod. proc. pen., laddove si sostiene che i verbali di analisi sarebbero entrati a pieno titolo nel materiale utilizzabile dal giudice. Espunti gli atti in parola, si osserva, inoltre, che residuerebbe un compendio probatorio insufficiente per la tesi di accusa, tanto in punto di responsabilità che per il diniego della procedura di cui all’art. 318 bis del Dlgs. 152/06. Si potrebbe infatti derubricare l’ipotesi di reato in assenza di dimostrazione di pericolosità del materiale.
4. Con il secondo motivo deduce il vizio di motivazione per omessa considerazione della doglianza difensiva relativa alla inosservanza, in ogni caso, delle prescrizioni di cui all’art. 223 citato.
5. Con il terzo motivo rappresenta il vizio di motivazione sub specie di illogicità e/o contraddittorietà quanto alla parte in cui il tempo trascorso dalla assunzione della carica di amministratore da parte del ricorrente sarebbe stato adeguato per provvedere allo smaltimento del rifiuto, avendo la corte omesso di considerare che l’imputato non poteva essere a conoscenza del fatto che si trattava di un rifiuto pericoloso, trattandosi di sostanza prodotta prima della sua nomina e posto che dai registri aziendali risultava catalogata, dal precedente amministratore, come rifiuto non pericoloso. E invero, per la difesa un periodo inferiore a due mesi quale quello intercorso tra l’assunzione della carica e l’accertamento del fatto non poteva ritenersi sufficiente se non, al più, per lo smaltimento, che tuttavia non era preceduto dalla conoscenza, previa, di esiti di analisi della tipologia di materiale, per effettuare la quale non potevano essere sufficienti due mesi trattandosi di accertamento particolarmente analitico, tanto che i laboratori dell’Arpac avevano ottenuto un risultato analitico solo dopo 4 mesi.
6. Con il quarto motivo, deduce il vizio di motivazione per travisamento della prova nella parte in cui la sentenza deduce che il rifiuto fosse ammassato in grandi quantità, con conseguente rigetto della doglianza sulla mancata attivazione della procedura ex art. 318 del Dlgs. 152/06. Si sostiene che in base agli esiti dibattimentali (citati per stralcio) i sacchi posti all’esterno della azienda non contenevano il “polverino” ma altro materiale non ben identificato. E, piuttosto, i sacchi di polverino erano allocati all’interno dello stabilimento. Pertanto, vi era assenza di danno o pericolo per le risorse ambientali, alla luce della reale collocazione del materiale contestato.
7. Con il quinto motivo, deduce la violazione dell’art. 131 bis cod. pen., e vizio di motivazione sulla sussistenza di un danno ambientale. Illogicamente la corte, nel valutare l’applicabilità dell’art. 131 bis cod. pen., avrebbe imputato al ricorrente il quantitativo di rifiuto in realtà allocato negli anni anteriori alla assunzione della carica. Circostanza invece assunta come prova della reiterazione nel tempo del reato. Peraltro, sarebbe emersa una importante operazione di scarico di rifiuti nel dicembre del 2018 ed imputabile come tale all’attuale ricorrente, significativa del suo concreto attivarsi. Sarebbe quindi illogica la tesi di un progressivo accatastamento di rifiuti riconducibile al ricorrente.
8. OMISSIS, con il primo motivo deduce il vizio ex art. 606 comma 1 lett. c) cod. proc. pen., lamentando la mancata declaratoria di inutilizzabilità degli esiti dell’esame di laboratorio eseguito dall’Arpac su materiale di cui al capo di imputazione, per violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione quanto alla individuazione del momento in cui gli imputati assunsero la veste di indagati. Si rappresenta che già all’inizio della attività di controllo, promossa dai Carabinieri alla luce di pregresse esperienze sulla tipologia del materiale in questione, sarebbero emersi indizi del reato contestato, per cui gli accertamenti tecnici sul materiale in contestazione avrebbero richiesto l’osservanza delle disposizioni del codice di rito quanto alle garanzie difensive, come previsto dall’art. 220 citato. Si sottolinea che il ricorrente fu identificato successivamente al campionamento, in data 25 gennaio 2019, e quindi rispetto ad un reato che è riportato alla data del campionamento del 15 gennaio 2019. E si evidenzia la assenza di sigillatura, e di preavviso della data di analisi, così come la mancata consegna di una aliquota agli indagati.
9. Con il secondo motivo deduce il vizio ex art. 606 comma 1 lett. c) cod. proc. pen. con riguardo all’art. 223 disp. att. cod. proc. pen., lamentando in ogni caso l’assenza delle prescrizioni previste dalla citata disposizione in funzione del regolare svolgimento delle analisi ivi previste. Con riguardo all’omesso avviso della data delle analisi.
10. Con il terzo motivo deduce la violazione dell’art. 256 del Dlgs. 152/06 per assenza di prova della pericolosità del rifiuto, e la violazione degli artt. 191 e 195 cod. proc. pen. per l’utilizzazione di testimonianze fondate su atti nulli, quali le analisi effettuate sul materiale in contestazione. Nonché il vizio di motivazione per travisamento della prova laddove si assume erroneamente che i testimoni avrebbero illustrato il risultato delle analisi. Essendosi essi limitati, piuttosto, a riferire il carattere pericoloso della sostanza, senza indicare nello specifico i risultati analitici a base della loro valutazione.
11. Con il quarto motivo rappresenta la violazione dell’art. 256 del Dlgs. 152/06 per assenza di colpa in capo al ricorrente, e il vizio di motivazione circa l’elemento soggettivo del reato. La tesi circa la colpa del ricorrente muoverebbe dalla considerazione, ritenuta erronea dalla difesa, per cui i big bags rinvenuti avrebbero contenuto la sostanza pericolosa definita “polverino”. Dato erroneo, posto che gli operanti analizzarono solo tre sacchi a fronte della esistenza di molteplici contenitori. In tale quadro il ricorrente non avrebbe potuto cogliere il carattere pericoloso del rifiuto a causa del codice ingannevole attribuito al medesimo né avrebbe potuto cogliere la durata del relativo deposito, trattandosi di sacchi mischiati ad altri, rispetto ai quali la società era autorizzata allo stoccaggio.
12. Con il quinto motivo deduce la violazione dell’art. 318 bis comma 2 del Dlgs. 152/06 e il vizio
di motivazione per travisamento della prova sul pericolo per l’ambiente.
Si contesta la decisione della corte, per cui la procedura ex art. 318 bis citato non sarebbe stata applicata per la sussistenza di conseguenze pericolose per l’ambiente, sebbene un teste abbia escluso, secondo la difesa, tale circostanza. Si evidenzia, quindi, l’intervenuto smaltimento e la presenza dei sacchi solo all’interno dell’azienda, per cui il ricorrente avrebbe dovuto essere ammesso alla procedura estintiva in questione come richiesto alla prima udienza del 21.9.2020.
13. Con il sesto motivo deduce vizi di violazione di legge e di motivazione, per la mancata applicazione dell’art. 131 bis cod. pen. Si sottolinea che la sostanza era detenuta solo in tre sacchi e non sarebbe stata determinata la durata del deposito e che peraltro la società era autorizzata alla gestione di rifiuti speciali. Inoltre, il prolungamento del deposito oltre l’anno non configurerebbe una attività abituale bensì il reato contestato. Pertanto, i giudici avrebbero violato la norma in parola e comunque non avrebbero esaminato gli altri parametri di cui all’art. 133 cod. pen., quali la intervenuta eliminazione della contravvenzione, l’assenza di danno o pericolo di danno, la ridotta parte di sostanza pericolosa rispetto a quella complessivamente depositata.
CONSIDERATO IN DIRITTO.
1. Devono essere esaminati innanzitutto i motivi comuni proposti.
2. Quanto alla violazione degli artt. 220 e 223 disp. att. cod. proc. pen. si osserva quanto segue. Va premesso che in materia di attività ispettive di vigilanza di natura amministrativa, il momento a partire dal quale, nel corso di tale attività, sorge l’obbligo di rispettare le garanzie del codice di procedura penale è quello nel quale è possibile attribuire rilevanza penale al fatto, emergendone tutti gli elementi costitutivi, anche se ancora non possa essere ascritto a persona determinata (Sez. 3 – n. 31223 del 04/06/2019 Rv. 276679 – 01). Coerente con tale indirizzo appare la spiegazione fornita dai giudici circa la non operatività della norma in questione, atteso che emerge una mera verifica conoscitiva, in assenza dei presupposti suddetti, la cui natura certamente non può mutare solo perchè i Carabinieri del Noe che chiesero la verifica agli operatori dell’Arpac vantavano, nel loro bagaglio esperienziale, la conoscenza del tema relativo alla possibile esistenza, rispetto alla tipologia del materiale rinvenuto, di caratteri tali da farlo considerare pericoloso; tanto più ove si consideri che tale ultima caratteristica non poteva che desumersi da una verifica analitica. Cosicchè, il mero sospetto non può certamente assurgere a base della configurazione di un quadro indiziario tale da far ritenere gli attuali ricorrenti indagati o indagabili. Né può valorizzarsi seriamente il contenuto del verbale di identificazione, posto che, da una parte, la decisione sulla qualità di un soggetto come indagato o indagabile spetta all’Autorità Giudiziaria e non certo a quella di polizia, e posto, altresì, che essa dipende dalla sussistenza di un quadro obiettivo che, per quanto sopra osservato, non esisteva al momento del prelievo, campionamento e successiva analisi. Questa Corte ha sottolineato, proprio in ordine al tema della emersione di presupposti funzionali alla attivazione delle garanzie difensive in materia di analisi di rifiuti, con riguardo alla assunzione della qualità di indagato, che in tema di iscrizione nel registro degli indagati tale attività si fonda sulle autonome valutazioni del pubblico ministero e non può ricondursi a date o momenti asseritamente e genericamente ritenuti dalla difesa come sintomatici del coinvolgimento dell’imputato nella commissione dei reati contestati (cfr. in motivazione, Sez. 3 – n. 39952 del 16/04/2019 Rv. 278531 – 01).
Quanto al rilievo, subordinato, circa la violazione, comunque, dell’art. 223 disp. att. cod. proc. pen., si deve premettere che a norma dell’art. 223 co. 1^ disp. att. c.p.p., le analisi di campioni debbono essere precedute, a pena di nullità di ordine generale a regime intermedio, dall’avviso, anche orale, all’interessato, del giorno, dell’ora e del luogo in cui saranno effettuate, solo se trattasi di analisi per le quali non è prevista la revisione. Circostanza che certamente ricorre in presenza di materiale deperibile, atteso che tale caratteristica esclude la revisione che, in caso contrario, ex art. 223 co. 2^ disp. att. c.p.p., può essere realizzata. Per sostanze non deperibili, in altri termini, siccome non vengono in rilievo campioni non suscettibili di analisi in sede di revisione, non opera l’anticipazione del regime garantistico alle operazioni di prima analisi (cfr. in motivazione Sez. 3, n. 46982 del 03/11/2004 Rv. 230527 – 01; Cass. sez. 3^ pen., 7/12/’94, Maldera).
Ebbene, non risulta allo stato degli atti che la sostanza in questione sia deperibile, né ciò risulta dedotto dai ricorrenti, con difetto di specificità sul punto. Neppure risulta che fu mai chiesta una revisione di analisi.
Peraltro, la nullità ricollegabile all’art. 223 e 220 disp. att. cod. proc. pen. in caso, rispettivamente, di mancata comunicazione della data delle analisi, e di omessi avvisi di garanzia nel secondo caso, integra una nullità a regime intermedio da eccepire nel primo atto successivo alla sua integrazione: evenienza quest’ultima non emergente né dedotta.
Con la conseguenza per cui deve ritenersi, nel quadro delle considerazioni complessive sin qui svolte e della emersa assenza di violazioni dell’art. 220 e dell’art. 223 disp. att. cod. proc. pen., che i verbali delle analisi di cui trattasi costituiscono prove perfettamente utilizzabili così come anche le dichiarazioni formulate sulla base degli stessi, ancorchè i predetti verbali non fossero stati acquisiti al fascicolo dibattimentale. Né assume alcun rilievo la circostanza per cui i testi avrebbero riferito in ordine ad atti non redatti dagli stessi, trattandosi della illustrazione di circostanze a loro nota, che come tale non trova alcun ostacolo nella relativa illustrazione. Né deve confondersi il diverso tema della consultabilità, in aiuto della memoria, di atti a firma del teste o cui abbia comunque partecipato. E tantomeno ricorre un caso ex art. 195 cod. proc. pen., come invece dedotto, non emergendo alcuna testimonianza de relato, avendo i testi riferito dati analitici ovvero esiti conclusivi dei medesimi, e non già dichiarazioni altrui (in presenza della quale ultima circostanza, giova rammentarlo, sussiste comunque un onere di immediata richiesta di esame della fonte diretta, che non risulta formulata). L’ulteriore deduzione per cui i testi di polizia giudiziaria avrebbero solo riferito sul carattere pericoloso del materiale, come emerso a seguito delle analisi, senza illustrarne il profilo tecnico-analitico delle medesime, è questione che rimanda esclusivamente al tema della valutazione del peso della testimonianza, affidato al giudice e insindacabile in questa sede.
I motivi così esaminati sono dunque infondati.
3. Il terzo motivo proposto da OMISSIS è inammissibile per genericità. Occorre premettere che ai sensi dell’art. 188 del Dlgs. 152/06 è onere del produttore dei rifiuti procedere al relativo smaltimento e tale principio determina l’onere dello svolgimento delle attività prodromiche, tra cui può rientrare, ove ritenuta necessaria rispetto al processo di produzione, ai fini del corretto smaltimento, anche l’analisi dei rifiuti. Che dunque integra un onere di chiunque proceda alla produzione dei rifiuti sin dal primo giorno dello svolgimento della relativa attività. Nel caso in esame pertanto, a fronte del delineato quadro probatorio, non può dedursi a supporto dell’assenza dell’elemento soggettivo del reato in contestazione, una generica impossibilità di verificare la tipologia del rifiuto, ricondotta ad un altrettanto generica impossibilità di effettuare le relative analisi nel corso di due mesi: trattandosi di profili organizzativi attinenti agli oneri connessi all’attività posta a base della produzione del rifiuto. Tanto più ove si assuma come parametro di riferimento, a supporto della tesi della impossibile tempestiva realizzazione, il tempo trascorso per le analisi svolte dall’Arpac: trattandosi di un riferimento incongruo e come tale aspecifico, siccome riferito a verifiche tecniche svolte in una prospettiva, di controllo pubblico dell’altrui attività di impresa, connotata da problematiche, quantità di procedure, e tempistiche ben diverse. Per cui deve ritenersi che, da una parte, i giudici nel far riferimento all’onere di smaltimento realizzabile tempestivamente dal ricorrente abbiano coerentemente incluso, alla luce del citato art. 188, anche ogni altra necessaria o opportuna attività prodromica, come tale affidata per la sua individuazione e realizzazione alla diligente organizzazione dell’interessato. Tanto più che, a ben vedere, la corte di appello non si è limitata solo a rilevare la possibilità di smaltimento in capo al ricorrente ma, ancor prima, ha precisato che lo stesso – così anche espressamente rispondendo alla doglianza in esame – avendo assunto la responsabilità di amministratore avrebbe dovuto “informarsi immediatamente sulla gestione dei materiali di scarto e a sanare immediatamente eventuali irregolarità “. Dall’altra, che in ogni caso, la deduzione formulata in sede di gravame e qui in esame, già risultava generica in quella sede, circostanza questa ben rilevabile da questa Suprema Corte quand’anche non rilevata dai giudici del merito.
4. Quanto al quarto motivo, inerente il vizio di motivazione per travisamento della prova nella parte in cui la sentenza deduce che il rifiuto fosse ammassato in grandi quantità, con conseguente rigetto della doglianza sulla mancata attivazione della procedura ex art. 318 del Dlgs. 152/06, occorre effettuare precisazioni. Dalla prima sentenza, sul punto incontrastata, emerge che i ricorrenti avevano chiesto al primo giudice di “ritrasmettere gli atti all’autorità competente per violazione degli artt. 318 bis del Testo Unico n. 152/2006”. Il primo giudice ha risposto, correttamente, osservando come non sussista alcun obbligo in capo agli accertatori di provvedere attivando la procedura né di avvisare gli indagati della possibilità di farvi ricorso, aggiungendo la mera ipotesi personale per cui la mancata attivazione avrebbe potuto trovare le sue radici in un giudizio negativo degli operanti in ordine alla insussistenza del danno ambientale. Si tratta di un rilievo invero coerente con gli indirizzi di legittimità, secondo i quali in tema di reati ambientali, l’omessa indicazione all’indagato, da parte dell’organo di vigilanza o della polizia giudiziaria, ai sensi degli artt. 318-bis e ss. del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, delle prescrizioni la cui ottemperanza è necessaria per l’estinzione delle contravvenzioni, non è causa di improcedibilità dell’azione penale (Sez. 3 – n. 49718 del 25/09/2019 Rv. 277468 – 01). Inoltre, il tribunale ha anche ha aggiunto che gli imputati, attesa la autonoma e spontanea regolarizzazione poi intervenuta avrebbero potuto chiedere l’ammissione all’oblazione in misura ridotta.
Rispetto a tale risposta emerge, dalla seconda sentenza, la censura di gravame degli imputati, promossa nel senso per cui il giudice non avrebbe fornito una spiegazione sulla mancata attivazione della procedura estintiva pur a fronte della autonoma e spontanea regolarizzazione. La Corte di appello, da parte sua, ha ribadito l’ipotesi già formulata dal primo giudice, sottolineando l’esistenza in concreto di un danno a fronte di un deposito incontrollato, conseguente anche alla presenza di numerosi contenitori del rifiuto pericoloso.
Ebbene, a fronte di tali risposte dei giudici di merito, si deve evidenziare che i motivi proposti alfine in questa sede e in esame in questo paragrafo, si incentrano nella contestazione del giudizio di sussistenza del danno ambientale formulato da entrambi i giudici come ipotetica ragione della mancata attivazione della procedura citata da parte degli operanti, lamentando quindi la mancata attivazione della procedura estintiva medesima.
Occorre a questo punto precisare quanto segue.
La procedura estintiva richiamata in ricorso, prevista dalla Parte Sesta-bis del d.lgs. 152\06, introdotta con la legge 68\2015, consente, con modalità analoghe a quelle stabilite dalle disposizioni che regolano la procedura di estinzione delle contravvenzioni in materia di sicurezza ed igiene del lavoro (d.lgs. 19 dicembre 1994, n.758), di pervenire alla definizione delle contravvenzioni sanzionate dal d.lgs. 152\06 (artt. 318-bis — 31 8-octies).
Essa si pone, sostanzialmente, come un’alternativa all’oblazione, più vantaggiosa, almeno per quanto riguarda gli importi da versare.
Il sistema delle prescrizioni, rispetto alla norme gemelle del d.lgs. 758\94, presenta, nell’art. 318-ter, alcuni adattamenti, evidentemente giustificati dalla particolarità della materia, attribuendo il potere di impartire prescrizioni non soltanto all’organo di vigilanza, ma anche alla polizia giudiziaria e stabilendo che la prescrizione sia «asseverata tecnicamente» dall’ente specializzato competente nella materia trattata.
L’art. 318-bis, in particolare, limita l’applicazione della procedura alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale previste dal d.lgs. 152\06 che non abbiano cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette. Si tratta, dunque, di casi di minore rilievo.
La disciplina di cui agli artt. 318-bis e ss. d.lgs. 152/06, inoltre, trova un ulteriore limite nella condizione, espressamente imposta, della insussistenza del danno o pericolo concreto di cui si è già detto.
Va conseguentemente ribadito che gli art. 318-bis e ss. d.lgs. 152/06 non stabiliscono che l’organo di vigilanza o la polizia giudiziaria impartiscano obbligatoriamente una prescrizione per consentire al contravventore l’estinzione del reato e l’eventuale mancato espletamento della procedura di estinzione non comporta l’improcedibilità dell’azione penale.
Ciò premesso, assume importanza la sottolineatura prima elaborata per cui, nel caso di specie, gli imputati hanno lamentato, in primo grado, innescando le contestate risposte dei giudici di merito, solo e semplicemente, di non essere stati messi a conoscenza della possibilità di accedere alla procedura estintiva dagli accertatori con richiesta, rivolta al Tribunale e invero del tutto priva di fondamento per i principi finora illustrati, come già sopra riportato, esclusivamente di “ritrasmettere gli atti all’autorità competente per violazione degli artt. 318 bis del Testo Unico n. 152/2006”.
Gli imputati dunque, non avevano alcun titolo per lamentare la mancata adozione della procedura, attesa la inesistenza di un obbligo specifico in capo agli accertatori di provvedervi, né, tanto meno, di informare i soggetti controllati della possibilità di farvi ricorso. Né la mancata attivazione costituiva né costituisce motivo di impedimento all’esercizio dell’azione penale (Sez. 3 n. 49718 del 25/09/2019 Rv. 277468 – 01) e tantomeno di restituzione quindi degli atti al P.M. per l’avvio della mancata procedura, come richiesto, nella sostanza, dai ricorrenti.
Ed allora, in ultima analisi, quanto al motivo in esame, non è dato comprendere la pertinenza e rilevanza delle censure sollevate rispetto alla motivazione della sentenza e, soprattutto, rispetto alla possibilità di ribaltare il giudizio di condanna, posto che, al di là della fondatezza o meno dei rilievi circa le ragioni che potrebbero avere indotto gli operanti a non attivare la citata procedura (questione del tutto marginale rispetto agli scopi delle censure), appare evidente che il tema così introdotto non è in grado in alcun modo di inficiare il percorso logico-giuridico sotteso alla condanna, in quanto è evidente, in ogni caso, che certamente non era accoglibile la richiesta proposta in primo grado – e cui vanno collegate le censure scaturite al riguardo -, di ritrasmettere gli atti agli operanti, di fatto invalidando il legittimo esercizio dell’azione penale.
Per completezza, si osserva che, come emerge dalla conforme sentenza di primo grado, i giudici, alla luce di analisi operate su campioni prelevati da alcuni big bags hanno ricondotto la qualità così emersa del materiale, quale rifiuto pericoloso, anche agli altri sacchi pure stipati in notevoli quantità nell’azienda. Ed invero, anche dalla lettura di verbali di dichiarazioni allegate, in particolare al ricorso dell’altro coimputato (OMISSIS), la ricostruzione dei giudici appare del tutto lontana da ogni travisamento, posto che il teste Grandi, nell’illustrare la notevole quantità di contenitori di rifiuto ammassata indistintamente su plurime aree, dentro e fuori l’azienda e anche non contemplate nella formale autorizzazione per rifiuto non pericoloso rilasciata all’azienda Remer, ha precisato che i sacchi, indistinti e senza etichettatura, “parecchi contenevano il polverino questo rifiuto pericoloso …..la panoramica dell’interno….piena di sacconi nella maggior parte con questo materiale lanuginoso ……qui c’era un’altra panoramica interna si vede tutto il materiale con la polvere sopra….qui c’e’ l’altra foto dove c’è ..il materiale campionato dall’Arpa… Pubblico Ministero : quanti ne avete? Testimone Di Grandi: il capannone era stipato di questi sacconi sia all’interno che all’esterno. Ecco magari non erano tutti contenenti rifiuto pericoloso però in buona parte ce n’era a sufficienza diciamo…”. Così che si configura quale mera questione di merito, inammissibile in questa sede, quella volta ad escludere che gli altri analoghi sacchi contenessero il medesimo tipo di rifiuto.
5.Quanto all’ultimo motivo riguardante la violazione dell’art. 131 bis cod. pen., e il vizio di motivazione sulla sussistenza di un danno ambientale, per cui illogicamente la corte, nel valutare l’applicabilità dell’art. 131 bis cod. pen. avrebbe imputato al ricorrente il quantitativo di rifiuto in realtà allocato negli anni anteriori alla assunzione della carica, si deve osservare che la corte di appello ha escluso la fattispecie in esame sul rilievo per cui, pur nel breve tempo compreso tra l’assunzione della carica e l’accertamento del fatto il ricorrente ha tralasciato ogni corretta gestione dell’ingente quantitativo di rifiuto, senza invece attivarsi immediatamente; aggiungendo, altresì, come l’intervenuto smaltimento dei rifiuti pericolosi in parola nel settembre del 2019 costituisce elemento positivo solo ai fini delle attenuanti generiche. Si tratta di motivazione che correttamente valorizza un aspetto rilevante della vicenda, quale la gravità del fatto e la sua persistenza nonostante il cambio di amministratore, di per sé già sufficiente per integrare una valida spiegazione del contestato diniego, in linea con l’indirizzo per cui, ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità dell’offesa dev’essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen., ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti. (Sez. 6 – n. 55107 del 08/11/2018 Rv. 274647 – 01). Quanto alla ulteriore motivazione, per cui si tratterebbe di un deposito incontrollato, realizzatosi in maniera progressiva e come tale in sostanza abituale, si tratta di affermazione non censurabile nei termini proposti dalla difesa – limitatasi a separare assertivamente, sul piano dell’accatastamento continuativo nel tempo del materiale in questione, la condotta del ricorrente da quella del suo predecessore -, alla luce dell’indirizzo di legittimità per cui il reato di deposito incontrollato di rifiuti di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, può avere natura permanente, nel caso in cui l’attività illecita sia prodromica al successivo recupero o smaltimento dei rifiuti, caratterizzandosi invece come reato di natura istantanea con effetti eventualmente permanenti, nel caso in cui l’anzidetta attività si connoti per una volontà esclusivamente dismissiva del rifiuto, che esaurisce l’intero disvalore della condotta. Inoltre, per stabilire la natura del reato è necessario tener conto delle circostanze del caso concreto, potendo essere indici rivelatori della permanenza la sistematica pluralità di azioni di identico o analogo contenuto, la pertinenza del rifiuto al ciclo produttivo dell’attività imprenditoriale e la reiterata utilizzazione di un unico sito quale punto di rilascio dei rifiuti. (Sez. 3 – n. 8088 del 13/01/2022 Rv. 282916 – 01
6. Quanto a OMISSIS, come già sopra riportato il primo e secondo motivo sono infondati alla luce di quanto rilevato ai paragrafi 1 e 2 delle considerazioni in diritto.
7. Riguardo al terzo motivo, proposto in punto di violazione dell’art. 256 del Dlgs. 152/06 per assenza di prova della pericolosità del rifiuto, nonché di violazione degli artt. 191 e 195 cod. proc. pen. per l’utilizzazione di testimonianze fondate su atti nulli, quali le analisi effettuate sul materiale in contestazione, e ancora di vizio di motivazione per travisamento della prova laddove si assume erroneamente che i testimoni avrebbero illustrato il risultato delle analisi, esso risulta anche infondato alla luce di quanto riportato nei sopra citati paragrafi 1 e 2.
8. Quanto al quarto motivo, circa la violazione dell’art. 256 del Dlgs. 152/06 per assenza di colpa in capo al ricorrente, e circa il vizio di motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato, va osservato che le censure muovono dal rilievo per cui il giudizio di responsabilità sarebbe fondato sull’erroneo rilievo per cui i big bags rinvenuti avrebbero contenuto la sostanza pericolosa definita “polverino” sebbene gli operanti avessero analizzato solo tre sacchi e sebbene l’imputato non avesse potuto cogliere il carattere pericoloso del rifiuto a causa del codice ingannevole attribuito al medesimo né avesse potuto cogliere la durata del relativo deposito trattandosi di sacchi mischiati ad altri, rispetto ai quali la società era autorizzata allo stoccaggio. La manifesta infondatezza di tale motivo si coglie sia alla luce di quanto già rilevato analizzando le censure analoghe dello Schlatter (cui si rinvia), riguardo all’onere di informazione e organizzazione che incombe sul produttore di rifiuti, quale era da ritenersi il ricorrente in ragione della qualità rivestita all’epoca dei fatti quale amministratore dell’azienda, sia perché si tratta di valutazioni di merito, a partire da quelle per cui il campionamento di soli tre sacchi non sarebbe significativo rispetto al fatto complessivo contestato. Tanto più a fronte di una motivazione che dà conto della presenza di plurimi contenitori analoghi a quelli oggetto di prelievo e campionamento.
9. Quanto al quinto motivo, inerente la violazione dell’art. 318 bis comma 2 del Dlgs. 152/06 e il vizio di motivazione per travisamento della prova sul pericolo per l’ambiente, si rimanda a quanto osservato nei confronti dell’altro ricorrente nel paragrafo quattro delle considerazioni in diritto.
10. Riguardo al sesto motivo, riguardante vizi di violazione di legge e di motivazione, per la mancata applicazione dell’art. 131 bis cod. pen., si rimanda alle considerazioni svolte sul medesimo punto per il coimputato Schlatter.
11. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi debbano essere rigettati, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 14/12/2023.
Scarica in pdf il testo della sentenza: cass. pen., sez. 3, sent. n. 15626-2024