RIFIUTI. Spedizioni transfrontaliere e integrazione tra norma italiana e regolamenti comunitari. Cassazione Penale n. 1429/2020.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 1429 del 15 gennaio 2020 (ud. del 19 settembre 2019)
Pres. Di Nicola, Est. Andreazza

Rifiuti. Spedizioni transfrontaliere. Integrazione tra normativa italiana e regolamenti comunitari. Art. 194 d. lgs. n. 152/2006. Reg. CEE n. 259/93. Reg. CE n. 1013/2006.
Il rinvio operato dall’ art. 194 del d. lgs. n. 152 del 2006  alle regole che discendono dai regolamenti comunitari che regolano la materia, e dagli accordi bilaterali di cui all’art. 19 Reg. CEE n. 259, 1/2/93, deve intendersi esteso ai regolamenti della Comunità o dell’Unione che hanno integrato o modificato tale disciplina, a partire dal Reg CE 2006/1013 del Parlamento e del Consiglio in data 14/6/06 (GUE 14/7/06), per arrivare ai Reg. CE 2007/1418 del 29/11/07 (GUE 4/12/07) e, limitatamente alla valenza interpretativa del meccanismo di formazione della legge, al Reg. UE del 23/9/10 (GU della Unione Europea del 24/9/2010). Ne consegue che la normativa italiana in materia di spedizioni transfrontaliere di rifiuti deve ritenersi integrata da quella adottata dalla istituzione europea mediante regolamenti aventi efficacia esecutiva e dagli accordi bilaterali perfezionatisi, ex art. 19, Reg. 1993/259, e ai sensi dei regolamenti successivi. Inoltre, la struttura dei regolamenti europei comporta il recepimento delle risposte che gli Stati non OCSE hanno fornito al questionario ad essi inviato e ai periodici aggiornamenti di tali risposte, avendo la istituzione europea ritenuto di fare proprie su base pattizia la determinazione e la disciplina che il singolo Stato non membro intende applicare ai rifiuti non pericolosi, inclusi nella lista verde, provenienti dall’area comunitaria, rifiuti soggetti, in via generale, a procedure semplificate.

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 1429 del 15 gennaio 2020 (ud. del 19 settembre 2019)

RITENUTO IN FATTO
1. Amendolagine Arcangelo, Amendolagine Emanuele, Recuperi sud s.r.l., Azzarito Domenico,  Gatim S.r.l., Romboli Marco e Schino Annamaria hanno proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce in data 24/01/2018 di conferma della sentenza del G.i.p. del Tribunale della medesima città in data 14/11/2014 di condanna di Amendolagine Arcangelo, Amendolagine Emanuele e Schino Annamaria  per i reati di cui agli artt. 416, commi 1 e 2, cod. pen. e 4 l.n. 146 del 2006 (capo A.1), 256, comma 1 lett. a) e 260 d. lgs. n. 152 del 2006 (capo B.1) e 483 cod. pen. per i fatti commessi dall’1/5/2009 in poi (capo C.1), di condanna di Azzarito Domenico per i reati di cui agli artt. 416, commi 1 e 2, cod. pen. e 4 l.n. 146 del 2006 (capo A.2 e A.3.), 256, comma 1 lett. a) e 260 d. lgs. n. 152 del 2006 (capo B.2 e B.3.) e 483 cod. pen. (capo C.2 e C.3.),  di condanna di Romboli Marco per i reati di cui agli artt. 256, comma 1 lett. a), e 260 d. lgs. n. 152 del 2006 (capo D) e 483 cod. pen. (capo E), e di irrogazione di sanzione amministrativa alla Recuperi Sud S.r.l. per gli illeciti amministrativi di cui agli artt. 24 ter, comma 2, 25 undecies, comma 2, lett. b), e), f) del d. lgs. n. 231 del 2001 (capo V)  e alla Gatim S.r.l. per gli illeciti amministrativi di cui agli artt. 24 ter, comma 2, 25 undecies, comma 2, lett. b), e), f) del d. lgs. n. 231 del 2001 (capi L e M).
La sentenza ha inoltre dichiarato non doversi procedere nei confronti di Amendolagine Emanuele e Arcangelo nonché di Schino Annamaria in ordine ai fatti contestati al capo C.1 limitatamente ai fatti commessi sino all’aprile del 2009 perché estinti per prescrizione.
Le condotte per cui è intervenuta condanna sono essenzialmente consistite nella partecipazione ad associazione a delinquere di tipo “transnazionale” dedita alla commissione di più delitti di attività organizzate per il traffico illecito di ingenti quantitativi di rifiuti speciali nonché di falsità ideologica in atti pubblici (art. 416 cod. pen.) e nella realizzazione di detti reati –fine (artt. 256 e 260 del d. lgs. n. 152 del 2006, unitariamente considerati, nonché art. 483  cod. pen.).
2. Amendolagine Arcangelo, Amendolagine Emanuele e la Recuperi Sud s.r.l., con un primo motivo di ricorso, lamentano, deducendo violazione di legge, che la sentenza impugnata ha erroneamente incluso i rifiuti di plastica solida esportati composti da teli agricoli codice di Basilea B3010 tra i rottami di plastica  indicati nell’allegato al regolamento CE 1418/2007 nella colonna d) di pag. L316/20 e tra le resine della colonna a) e colonna d) stessa pagina; aggiungono come la Corte territoriale non abbia valutato l’intervenuto dissequestro di detta merce proprio in quanto conforme a quanto dichiarato, ovvero materia prima secondaria, ovvero rifiuto recuperato da riciclare destinato ad un ciclo produttivo della plastica. In particolare, anche tenendo conto della definizione di miscela di rifiuti contenuta nel regolamento CE 1013/2006, il rifiuto in esportazione nella specie, ovvero telo agricolo per serre, era da inquadrarsi tra le resine termoplastiche LDPE appartenenti alla famiglia dei polietileni alogenati, ovvero dei polimeri ricavati dalla polimerizzazione dell’etilene, e non rientranti tra quelle soggette a restrizioni di cui alle colonne a) e d) di cui all’allegato di cui sopra. Inoltre la Recuperi Sud s.r.l. operava in regime semplificato ex artt. 214 – 216 del d.lgs. n. 152 del 2006 con conseguente applicazione del d.m. 05/02/1998 allegato I sub allegato I punto 6 relativamente alle caratteristiche delle materie prime secondarie. La Corte avrebbe dunque erroneamente esteso il divieto, riguardante i soli rottami di plastica, di cui alla colonna d), a tutte le resine di plastica, non prestando attenzione neppure alla risposta della Cina al questionario, da cui si ricava l’importazione dei rifiuti termoplastici senza restrizioni.
2.1. Con un secondo motivo lamentano la erronea applicazione dell’art. 260 del d. lgs. n. 152 del 2006 essendo le spedizioni de quibus non soggette  alle restrizioni di cui al regolamento CE 1418/2007 nell’allegato relativo alla voce “Cina” pagg. L316/19-20, e dell’art. 416 cod. pen. difettando gli elementi costitutivi del reato associativo in considerazione della sussistenza unicamente di attività commerciali svolte da ognuno degli imputati e fini a se stesse, da ciò derivando anche l’impossibilità di configurare un concorso tra il reato associativo e quello ex art. 260 cit.. Richiamate in astratto le caratteristiche necessarie dei due reati suddetti, sottolineano che la Recuperi Sud ha recuperato il telo agricolo e lo ha venduto alla Heng Feng Plastic, industria riconosciuta dalla stessa sentenza come esistente e regolarmente autorizzata dal governo cinese ad importare polietilene ed il cui agente italiano era Zhang Xiao Wu, dietro assicurazione dello spedizioniere “Aermar Duesse di Schiavone” della necessità della sola compilazione dell’allegato VII e della inclusione dei rifiuti in quelli assoggettati alle procedure semplificate purché destinati effettivamente al recupero; lo spedizioniere ha organizzato la spedizione su indicazione dell’acquirente posto che la vendita è avvenuta ex works, ovvero franco stabilimento con assunzione dei costi e rischi del trasporto a cura del solo acquirente. Polieco, poi, (ovvero il Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni in polietilene) che non può considerarsi parte danneggiata, avrebbe avallato tutta l’operazione con timbro e sottoscrizione.  In definitiva, vi sarebbe stato un ricavo oggettivo lecito ed il pieno recupero di ciò che si stava esportando. A riprova della insussistenza dei reati contestati richiamano il decreto di archiviazione del G.i.p. del Tribunale di Napoli e il conseguente dissequestro della merce fondati sulla corretta esportazione dei rifiuti plastici in oggetto.  Nessuna consapevolezza di concorrere nel reato di cui all’art.260 cit. è pertanto configurabile nella specie posto che la normativa da applicare era quella delle normali transazioni commerciali.
2.2. Con un terzo motivo lamentano la violazione del divieto di bis in idem in relazione al decreto di archiviazione del G.i.p. del Tribunale di Napoli in data 11/03/2011 perché il fatto non costituisce reato intervenuto con riguardo al delitto di cui all’art. 260 cit. (mai venne infatti ipotizzato il reato associativo) in procedimento iscritto a seguito del sequestro di medesimi  containers oggetto del procedimento in esame instaurato dalla Dda di Lecce nei confronti dei medesimi soggetti.
2.3. Con un quarto motivo lamentano il ritenuto elemento psicologico del reato associativo, in realtà nessuno degli imputati avendo avuto conoscenza dell’esplicazione di un altrui contributo e consapevolezza del vincolo, e inoltre lamentano, non essendo ravvisabile l’ipotesi del comma 1 dell’art. 416 cod. pen., ed essendo la previsione sul raddoppio dei termini di prescrizione di cui all’art. 157 comma 6 cod. pen. relativamente al reato ex art. 260  intervenuta solo successivamente alla consumazione dello stesso, la mancata dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione a fronte della data dell’ultima spedizione in data 19/10/2009.
2.4. Con un quinto motivo ribadiscono la mancata notifica al difensore Avv. Ricca per la Reuperi Sud dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415 bis cod. proc. pen. e la mancata notifica di detto avviso a Amendolagine Emanuele, quale persona fisica, nel caso in cui egli avesse ricevuto l’avviso solo quale amministratore della Recuperi Sud.
2.5. Con un sesto motivo lamentano la mancata riduzione al minimo edittale della pena principale irrogata e delle pene accessorie applicate nonché della sanzione amministrativa irrogata alla Recuperi Sud a fronte, oltre che delle modalità dei fatti, di una fattispecie di difficile interpretazione, come del resto dimostrato dal proscioglimento disposto dal G.i.p. del Tribunale di Napoli; lamentano inoltre che, essendo la merce stata dissequestrata, l’art. 19 del d. lgs. n. 231 del 2001 non era applicabile.
2.6. Con un settimo motivo lamentano la ritenuta legittimazione del Polieco alla costituzione di parte civile pur in presenza non di una fattispecie di smaltimento di rifiuti (che legittimerebbe per legge le funzioni consortili e, dunque, di controllo  per il riciclaggio di rifiuti di beni in polietilene) bensì di rifiuti recuperati MPS e pur non vigendo alcun obbligo di concerto con Polieco per le spedizioni transfrontaliere di rifiuti non essendo la decisione statutaria di Polieco mai stata approvata con decreto ministeriale secondo il procedimento ex art. 234, comma 3, del d. lgs. n. 152 del 2006.
3. Con un primo motivo di ricorso Azzarito Domenico e Gatim S.r.l. hanno eccepito la violazione dell’art. 552 cod. proc. pen. per mancata valutazione, da parte della sentenza, delle eccezioni di parziale nullità dei capi di imputazione sub A2, B2, C2, A3, C3 per omessa indicazione del luogo e del momento di consumazione  e dei titoli abilitativi mancanti facendo la contestazione solo generico riferimento alle pagg. 586-616 della annotazione di P.G.
3.1. Con un secondo motivo lamentano la violazione degli artt. 125, 192, 238 bis, 546 e 649 cod. proc. pen. per avere la sentenza omesso di motivare in ordine all’eccepito giudicato formatosi in altro procedimento sui fatti di cui ai capi A3, B3 e C3 e rappresentato da sentenza di assoluzione del Tribunale di Palmi. In particolare tale sentenza ha assolto Azzarito con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste dal reato di cui all’art. 259 in relazione agli stessi fatti contestati ai capi B3 e C3, accertando come lecita la spedizione transfrontaliera in Corea del Sud. L’identità dei fatti sarebbe in particolare data dalla medesima tipologia di rifiuto (pfu), dal medesimo porto di partenza (Gioia Tauro) e dal medesimo porto di destinazione (Corea del Sud); inoltre la data di spedizione indicata nella sentenza del Tribunale di Palmi (ovvero 28/01/2010) coinciderebbe con quella ricavabile dalla sentenza di Lecce (ove, solo per un refuso, è stato in realtà scritto 28/10/2010).
3.2. Con un terzo motivo lamentano violazione di legge e travisamento del fatto quanto all’esistenza di titoli abilitativi da parte della Gatim  a svolgere le attività di recupero dei rifiuti speciali non pericolosi e alla liceità delle spedizioni in Corea del Sud. Premesso che il tipo di rifiuti esportato è il triturato di pneumatici fuori uso di cui all’allegato D Parte quarta del d. lgs. n. 152 del 2006 con codice 16.01.03., quale rifiuto non pericoloso, sottolinea che la Gatim era autorizzata a sottoporre i rifiuti ad una delle operazioni indicate nei punti da R1 a R12 e, dunque, anche ad inviare il triturato sia per il riciclo (R3) in Malesia sia per il recupero energetico (R1) in Corea del Sud, con conseguente inconfigurabilità dei reati contestati; nessuna iscrizione all’albo dei gestori ambientali era invece dovuta, non effettuando la società alcuna raccolta e trasporto di rifiuti. Inoltre, a norma sia della Convenzione di Basilea del 22/3/1989, sia del regolamento CEE 1013 del 2006 sia del regolamento CEE 1418 del 2007, era consentita l’esportazione di rifiuti non pericolosi sia verso la Corea che la Malesia. Sicché del tutto lecita era la spedizione al cementificio della Ssangyong che si trova appunto in Corea del Sud, mentre la Corte territoriale non ha saputo indicare quale normativa renda illecita tale ultima destinazione, inoltre errando nell’analizzare il contenuto della sentenza del Tribunale di Palmi, che, contrariamente a quanto opinato dai giudici dell’appello, ha ritenuta lecita quest’ultima. Di qui, dunque, l’omessa valutazione della prova decisiva in atti data dai provvedimenti autorizzativi prodotti.
3.3. Con un quarto motivo lamentano violazione di legge e mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione alla affermazione di responsabilità per il reato associativo e per quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. Sarebbe infatti mancata ogni motivazione quanto alle produzioni documentali e deduzioni difensive sulla liceità della “triangolazione” di cui al capo A.3 dell’imputazione Corea del sud – Jwasan – Ssangyong, nonché sulla liceità della “triangolazione” di cui al capo A.2 dell’imputazione posto che, quanto alla responsabilità dell’imputato in ordine alla destinazione finale, illecita, della spedizione in Vietnam la sentenza ha reso una motivazione del tutto illogica in ordine al contenuto dell’intercettazione del 27/10/2009 tra Pagnanelli ed Azzarito, dimostrativa infatti, con evidenza, secondo quanto già sottolineato dal Tribunale del riesame, e come confermato dalle dichiarazioni di Marinaro Giuseppe e Pagnanelli Antonio, del fatto che Azzarito era addirittura contrario a spedire in Vietnam. Anche con riguardo al profitto che la Gatim s.r.l. avrebbe ricevuto dall’operazione, consistito nel risparmio dei costi di smaltimento in Italia, la sentenza non ha considerato la documentazione prodotta confermativa dei costi invece notevoli sostenuti per la spedizione all’estero.
3.4. Con un quinto motivo lamentano la violazione di legge e la motivazione contraddittoria ed illogica quanto alla sussistenza del reato associativo per mancata individuazione degli elementi costitutivi della partecipazione alle attività organizzate dirette al traffico illecito di rifiuti. Nessuna dimostrazione logica del reato anzitutto rubricato al capo A.3 e ai reati – fine collegati  potrebbe ricavarsi, come affermato in sentenza, dal fatto che Azzarito conoscesse Schiavone e Peter Lee e, addirittura, del tutto incompatibile con la consapevolezza di partecipare ad un accordo diretto a realizzare un programma delinquenziale è l’affermazione in sentenza di un “mancato controllo” da parte sua del fatto che la Jwasan non avesse in realtà un impianto di smaltimento, essendo tale la motivazione illogica resa per i reati contestati sia al capo A.2 che al capo A.3, peraltro del tutto contrastante con quanto già ritenuto a suo tempo dal Tribunale del riesame. Contraddittoria sarebbe poi la conclusione circa l’affermazione di responsabilità di Azzarito per gli stessi fatti contestati a Santagati e per i quali, invece, la sentenza impugnata ha confermato la pronuncia di assoluzione, semplicemente rilevando l’elemento dell’intercettazione a carico di Azzarito, dato in realtà non solo neutro ma, addirittura, favorevole all’imputato.
3.6. Con un settimo motivo lamentano la violazione di legge in relazione all’eccessiva entità della pena irrogata anche con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche e alla determinazione effettuata per la continuazione, non essendosi tenuto conto dello stato di incensuratezza e della risultata volontà di non spedire i rifiuti in Vietnam.
3.7. Con un ottavo motivo lamentano la violazione di legge in relazione all’affermazione di responsabilità amministrativa e all’applicazione della conseguenti sanzioni sulla base di un reato che al momento delle spedizioni non era incluso nel catalogo dei reati-presupposto.  In particolare, lamenta che l’art. 25 undecies, comma 2, del d. lgs. n. 231 del 2001 che richiama il reato ex art. 260 del d. lgs. n. 152 del 2006 è stato introdotto solamente con il d. lgs. n. 211 del 2011 entrato in vigore il 16/08/2011 mentre l’ultima spedizione, attenente a 4 containers destinati a Jwasan effettuata dalla Gatim risale, come da motivazione della sentenza, al 28/10/2010 (rectius, 28/1/2010). Analogamente deduce per l’art. 25 undecies, comma 7, relativo alle sanzioni interdittive (per effetto del richiamo all’art. 9, comma 2, del d. lgs. n. 231 del 2001), introdotto solo con il d. lgs. n. 121 del 2011 e per la confisca per equivalente di cui all’art. 19 del d. lgs. n. 231 del 2001, non suscettibile di essere applicata in relazione a reati commessi prima della loro configurabilità come presupposto della responsabilità amministrativa; né varrebbe richiamare il reato associativo, atteso che il profitto oggetto dell’ablazione è stato determinato dai giudici di merito con riferimento ai delitti di illecita esportazione e non con riferimento al reato associativo. In ogni caso, con riferimento al profitto, contestano la erronea quantificazione dello stesso, non essendosi tenuto conto dei costi che si sarebbero dovuti sostenere ed essendovi nella specie stato solo un presunto e determinato mancato esborso ma non un introito.
4. Con un primo motivo Schino Annamaria lamenta violazione di legge ed omessa motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità del reato di cui all’art. 260 del d. lgs. n. 152 del 2006 e dei connessi falsi ideologici. Premesso che i fatti addebitati devono riguardare unicamente, come ricavabile dalla sentenza di primo grado, l’episodio della spedizione afferente sette containers del 16/05/2008, deduce come nessuna documentazione relativa alle spedizioni possa essere ritenuta ideologicamente falsa, correttamente venendo indicata, sia nel contratto che nell’allegato VII  al reg. CE 1013/2006, la Cina sia come destinazione della merce sia come impianto di recupero; e ciò è tanto vero che in data 12/09/2008 venne disposto il dissequestro dei predetti containers. Di qui la non configurabilità del delitto in oggetto, sia per la presenza, al più, di una mera colpa (mentre la norma richiede il dolo specifico), sia per la presenza di un solo episodio (il reato in oggetto invece presupponendo la continuità della attività illecita).  Né il dolo specifico in capo alla ricorrente potrebbe essere ricavato dalla sussistenza di un introito per la ditta, tanto più in mancanza di una partecipazione della ricorrente Schino alla triangolazione contestata, addebitatale solo oggettivamente in virtù della carica di legale rappresentante rivestita (quasi che l’attività illecita fosse l’oggetto sociale della ditta) e della riconosciuta estraneità all’associazione per delinquere (da cui, evidentemente, sarebbero derivati i ricavi illeciti). Denuncia sul punto la palese contraddittorietà della sentenza di primo grado che ha desunto  la consapevolezza e volontà di effettuare plurime esportazioni illegali (necessaria per potere affermare la responsabilità sia per il reato ex art. 260 cit. che per il reato di falso) dalla mancata osservanza dell’obbligo di verifica della regolarità e correttezza delle spedizioni.
Contesta inoltre la qualifica di rifiuti attribuita dalla sentenza ai cascami e ritagli di plastica; come argomentato nei motivi di appello, non considerati, si è invece trattato di residui di lavorazioni industriali per il cui recupero e riutilizzo il d.m. 05/02/1998 vigente all’epoca prevedeva la sola asportazione delle sostanze estranee ed il trattamento per l’ottenimento di materiali plastici conformi alle specifiche Uniplast Uni 10667; sicché, a seguito delle operazioni di recupero  (per le quali la ditta era autorizzata), il materiale avrebbe perso la natura di rifiuto per trasformarsi in MPS disciplinate dagli artt. 181 bis e 183 del d. lgs. n. 152 del 2006. Su tali questioni, tuttavia, così come sull’applicabilità dell’art. 184 ter dello stesso decreto in ordine alla cessazione della qualità di rifiuto, la sentenza impugnata non avrebbe argomentato in alcun modo, nulla in particolare precisando quanto al quadro normativo di riferimento.
4.1. Con un secondo motivo, lamenta esattamente la mancata applicazione nella specie degli artt. 184 bis e 184 ter avendo in particolare erroneamente la Corte territoriale ritenuto non retroattivamente applicabile il quadro normativo introdotto dal d. lgs. n. 205 del 2010; al contrario, facendo riferimento la norma incriminatrice ad una definizione (quella di rifiuto) medio tempore mutata, le modifiche di tale nozione non potrebbero non retroagire ex art. 2 cod. pen. a fronte della conseguente abolitio criminis così attuata.
4.2. Con un terzo motivo lamenta la violazione dell’art. 597 cod. proc. pen. per avere la Corte ritenuto sussistente la circostanza aggravante della “transnazionalità” dell’art. 4 del d.lgs. n. 146 del 2006, già esclusa dal G.i.p., in assenza di impugnazione del P.M..
4.3. Con un quarto motivo deduce in ogni caso la inconfigurabilità della suddetta circostanza posto che la ricorrente è stata unicamente ritenuta concorrente dei reati non associata mentre dalla sentenza delle Sez. U., n. 18374 del 2013 si ricaverebbe che la circostanza sia applicabile al concorrente non associato solo laddove  il gruppo organizzato transnazionale non sia composto da alcun concorrente nel reato. E nella specie, anzi, vi sarebbe coincidenza tra sodalizio transnazionale e associazione per delinquere di cui la Schino non fa parte.
4.4. Con un quinto motivo, infine, lamenta la violazione dell’art. 157 cod. pen. in relazione alla non rilevata prescrizione dei reati ascrittile; infatti, una volta ritenuta non configurabile la predetta aggravante, il termine di prescrizione del reato di cui all’art. 260, consumato, da ultimo, nel maggio 2008, sarebbe interamente decorso. Quanto al reato di falso, in nessun passo della sentenza si farebbe riferimento alla data di consumazione dell’aprile 2009 (menzionata dalla Corte d’appello) con riguardo a condotte attribuibili alla ricorrente ed anzi, l’ultimo (e unico episodio) sarebbe quello del maggio 2008; sicché,anche a tenere conto della sospensione indicata dal collegio pari ad anni uno, mesi quattro e giorni tre, la prescrizione sarebbe maturata, al più tardi, nel mese di marzo 2017.
5. Con un primo motivo Romboli Marco deduce il mancato rilievo della incompetenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Lecce, essendo competente, per i reati di cui ai capi d) ed e), quella di Livorno, contestando la diversa conclusione dei giudici di merito fondata sulla vis atractiva esercitata dal reato associativo in forza del rapporto tra il ricorrente e la moglie di uno dei sodali dell’associazione (tale Enzo).
5.1. Con un secondo motivo contesta le argomentazioni utilizzate dalla sentenza impugnata per dimostrare la consapevolezza del ricorrente in ordine ai reati contestati, ovvero l’esistenza del bonifico di euro 19.133,40 del 31/12/2009 effettuato alla Ramplast  s.a.s. dalla Hang Feng Plastic, ditta diversa dalla Saic con cui Romboli aveva avuto il contatto di fornitura; in particolare deduce che la Ramplast, che ebbe a trattare i rifiuti, così come dichiarato in dogana, era autorizzata dalla Provincia di Pisa ad attività di recupero; inoltre, deduce omessa motivazione sul fatto che l’annotazione sulle bollette del codice Cer 150102 e la destinazione verso la Cina, entrambe manoscritte,  sarebbero state formate anche dalla Ramplast e non dalla sola Saic. Contesta, altresì, la logicità dell’affermazione per cui la restituzione parziale, e non totale, a Saic della somma ricevuta da Hang Feng Plastic proverebbe che la Ramplast era a conoscenza che quest’ultima era il reale destinatario finale.
5.2. Infine, con un terzo motivo, lamenta la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, non avendo la Corte territoriale tenuto conto dello stato di incensuratezza dell’imputato e della durata di appena due mesi, per limitatissimi quantitativi, del rapporto commerciale nella specie intrattenuto.
6. Successivamente, con nota difensiva, il Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni in polietilene (Polieco), già costituito parte civile, ha chiesto l’inammissibilità o il rigetto del ricorso  proposto da Amendolagine Emanuele e Arcangelo.
7. Infine, la Procura generale ha depositato memoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Muovendo anzitutto dal ricorso presentato da Amendolagine Arcangelo e Emanuele, ai fini di un corretto inquadramento giuridico delle condotte poste in essere e della loro, conseguente abusività, va anzitutto premesso che, come già affermato da questa Corte (tra le altre, Sez. 3, n. 54703 del 09/11/2018, Di Cataldo, Rv. 274211 nonché Sez. 3, n. 39827 del 05/07/2012, Del Prete, non mass.), il rinvio operato dall’ art. 194 del d. lgs. n. 152 del 2006  alle regole che discendono dai regolamenti comunitari che regolano la materia, e dagli accordi bilaterali di cui all’art. 19 Reg. CEE n. 259, 1/2/93, deve intendersi esteso ai regolamenti della Comunità o dell’Unione che hanno integrato o modificato tale disciplina, a partire dal Reg CE 2006/1013 del Parlamento e del Consiglio in data 14/6/06 (GUE 14/7/06), per arrivare ai Reg. CE 2007/1418 del 29/11/07 (GUE 4/12/07) e, limitatamente alla valenza interpretativa del meccanismo di formazione della legge, al Reg. UE del 23/9/10 (GU della Unione Europea del 24/9/2010).
Ne consegue che la normativa italiana in materia di spedizioni transfrontaliere di rifiuti deve ritenersi integrata da quella adottata dalla istituzione europea mediante regolamenti aventi efficacia esecutiva e dagli accordi bilaterali perfezionatisi, ex art. 19, Reg. 1993/259, e ai sensi dei regolamenti successivi. Inoltre, la struttura dei regolamenti europei comporta il recepimento delle risposte che gli Stati non OCSE hanno fornito al questionario ad essi inviato e ai periodici aggiornamenti di tali risposte, avendo la istituzione europea ritenuto di fare proprie su base pattizia la determinazione e la disciplina che il singolo Stato non membro intende applicare ai rifiuti non pericolosi, inclusi nella lista verde, provenienti dall’area comunitaria, rifiuti soggetti, in via generale, a procedure semplificate.
Detta impostazione emerge chiaramente dal contenuto degli artt. 35, 36 e 37 del Reg. n. 1013 del 2006, cui deve farsi riferimento anche in vigenza delle integrazioni successive, nonché dai principi generali contenuti nel successivo art. 49, disposizione che fa obbligo a tutti i privati coinvolti nelle spedizioni di operare nel rispetto dei principi di trasparenza e tracciabilità e della salubrità delle operazioni, e fa carico alla istituzione europea e ai singoli Paesi membri di adoperarsi per garantire la regolarità delle fasi e dei contenuti delle spedizioni e di assicurarsi del rispetto di detti principi, anche avendo riguardo alle caratteristiche dell’impianto estero di destinazione, che curerà il recupero, fino a vietare il trasporto ove le garanzie necessarie non siano assicurate.
Deve pertanto ritenersi che: la disciplina ricavabile dal contenuto degli allegati ai regolamenti e dalle risposte dei Paesi non membri ai questionari integra la disciplina dei medesimi regolamenti, aventi efficacia immediata nel nostro ordinamento, sulla base del meccanismo disegnato ed attuato col regolamento base 2006/1013, in relazione a quanto previsto anche dall’art. 19 del regolamento 1993/259; il contenuto delle risposte ai questionari, ivi comprese le indicazioni dei rifiuti la cui importazione è vietata o soggetta a restrizioni e controlli, e le indicazioni circa le regole che ogni Paese non membro chiede siano rispettate, è reso pubblico periodicamente dalla istituzione europea ed è, dunque, conoscibile da qualsiasi operatore e rappresenta il riferimento normativo per valutare la regolarità delle operazioni di spedizione dei rifiuti;  tale disciplina è recepita dall’ordinamento italiano sulla base del rinvio alla disciplina europea, contenuto nel d. lgs. n. 152 del 2006, art. 194, cosicché le disposizioni vigenti nel nostro Paese sono  integrate e specificate dal complesso delle disposizioni sopra richiamate e concorrono a definire gli obblighi cui sono tenuti a sottostare gli esportatori e i presupposti delle violazioni penalmente rilevanti.
Così individuate le fonti degli obblighi che si assumono violati, va chiarito che le indicazioni provenienti dalla Repubblica Popolare cinese includono i rifiuti aventi codice internazionale B3010 tra quelli oggetto di attenzione: avendo riguardo al prospetto allegato ai regolamenti, alcuni di essi, cioè le resine, sono presenti nella colonna a), relativa ai prodotti di cui è vietata la importazione, altri, e cioè quelli qualificabili come polimeri o polimezzati, sono presenti nella colonna d), relativa ai prodotti importabili nel territorio cinese nel rispetto dei previsti adempimenti.
Sempre sulla base delle indicazioni provenienti dalla Cina, come rinvenibili nella documentazione pubblicata sul sito della Direzione generale per il commercio della Commissione europea, i cui dati essenziali confluiscono negli allegati ai regolamenti, quanto meno a far data dalla risposta al questionario del 2007, gli adempimenti relativi ai rifiuti non pericolosi consistono nella sottoposizione delle spedizioni ai controlli preventivi CCIC (certificato di ispezione pre-spedizione) e nel rispetto di quanto previsto dalle autorizzazioni/licenze SEPA e AQSIQ. Tali adempimenti, che rispondono alla disciplina cinese operante nell’anno 2007 e che sono confermati nella risposta al questionario operante nell’anno 2008, prevedono che “ogni spedizione di rifiuti deve essere accompagnata dai seguenti documenti”, tra i quali sono specificamente indicate la licenza MEP (rilasciata dal Ministero della protezione ambientale della Cina), la licenza AQSIQ (rilasciata dalla Amministrazione generale di supervisione della qualità, ispezione e quarantena della Cina) e il certificato CCIC (certificato di ispezione pre-spedizione, rilasciato dalla specifica autorità operante per conto delle autorità cinesi presso alcune sedi europee).
L’esame della detta documentazione consente, altresì, di rilevare che le autorità cinesi, ribadita la necessità delle licenze e dei certificati sopra indicati, considerano che nel modello europeo, che deve accompagnare i prodotti durante la spedizione, colui che viene definito “consignee” coincide con l’importatore; che l’impianto di ricezione deve coincidere con l’impianto che opera il riciclaggio; che il notificatore/esportatore deve coincidere con il possessore delle licenze e dei certificati richiesti dalla normativa cinese, con ciò rendendosi evidente che, sia i mittenti, sia gli importatori, sia gli impianti di riciclo, debbono essere in possesso della licenza, quale garanzia della affidabilità del soggetto operante, affidabilità che risponde a specifiche esigenze, quali emergenti dalla complessa modulistica che dette autorità richiedono a coloro che intendono ottenere la licenza AQSIQ.
In definitiva, i trasporti di rifiuti plastici non pericolosi, destinati all’interno della Repubblica Popolare Cinese, debbono rispettare le formalità e le garanzie sopra indicate, con conseguente illiceità, anche per l’ordinamento italiano, delle relative violazioni.
Ciò posto, il primo motivo, volto essenzialmente a censurare, come meglio indicato sopra, la sentenza impugnata per non avere fornito idonea motivazione circa la qualificazione dei teli di plastica di cui alle spedizioni transfrontaliere in Cina tra i rifiuti per i quali vigeva il regime restrittivo di esportazione,  è inammissibile perché manifestamente infondato.
Vanno sul punto richiamate e condivise, a conferma della corretta riconducibilità, nella colonna d) relativa alla Cina dell’allegato al Regolamento CE 1418/2007 (relativo all’esportazione di alcuni rifiuti destinati al recupero, elencati nell’allegato III o III A del regole manto CE n. 1013/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio), dei teli agricoli conferiti dalle varie aziende al termine del loro utilizzo,  le argomentazioni già spese da questa stessa Sezione con riguardo alla medesima doglianza mossa nell’ambito del giudizio cautelare reale a suo tempo celebrato.
Con la sentenza della Sez. 3,  n. 27413 del 26/06/2012, Amendolagine, Rv. 253144, si è infatti osservato che «anche i teloni e i film di protezione dei prodotti agricoli non costituiscono “imballaggio” bensì oggetti a composizione plastica destinati a supportare le attività agricole produttive, con la conseguenza che tali oggetti, indipendentemente dalla operatività del decreto 2/5/2006 del Ministero dell’Ambiente e del Territorio, una volta cessato il loro ciclo di impiego, vanno considerati rifiuti destinati possibilmente al recupero» e ha aggiunto che «in particolare, sia l’esame della tabella allegata al regolamento (CE) 2007/1418, sia di quella allegata al regolamento (CE) 2009/967 consente di includere i “film” e gli altri teloni utilizzati in agricoltura all’interno dei rifiuti previsti dalla colonna d)», soggetti, appunto, alle restrizioni sopra ricordate.
Sicché, correttamente la sentenza impugnata, fondandosi su tale assunto, condiviso dal Collegio, ha escluso che si vertesse nella specie in ipotesi di merce (polimeri) da qualificare come materia prima secondaria anziché, appunto, rifiuto plastico considerando tali teloni, una volta cessato il ciclo di impiego, come rifiuti; del resto, proprio l’assoggettabilità dei teli di plastica alle restrizioni in oggetto e la necessità di disporre di licenza AQSIQ e di certificazione preimbarco CCIC spiega, sotto un profilo anzitutto logico, la ragione della formale spedizione degli stessi ad Hong Kong (ove le materie incluse nella “lista verde”, ivi compresi i teli, non sono sottoposte ai medesimi controlli)  nonostante l’effettivo invio in Cina.
1.1. Anche il secondo motivo è inammissibile giacché formulato in termini fattuali e di invocata, e non consentita in questa sede, caratterizzata dagli stretti limiti propri del giudizio di sola legittimità, “rilettura” delle emergenze probatorie.
Il ricorso, infatti, intende attribuire valore di assoluta liceità alle operazioni poste in essere dagli imputati, risolvendosi tuttavia in tal modo in una mera e assiomatica confutazione del percorso argomentativo della sentenza impugnata che ha ben chiarito come, appunto, le merci venissero di fatto inviate in Cina  eludendo, per il tramite della formale spedizione ad Hong Kong, le restrizioni collegate a tale destinazione (in particolare pagg. 28 – 31) nell’ambito di una serie indefinita di esportazioni con predisposizione degli strumenti tecnici e dei supporti personali necessari per operare un traffico di ingenti dimensioni richiedenti una programmazione includente anche la selezione dei porti da utilizzare, con conseguente idonea spiegazione delle caratteristiche necessarie per la sussistenza sia del reato di cui all’art. 260 cit. che del reato associativo (su cui peraltro nessuna deduzione dotata del necessario carattere di specificità, a ben vedere, i ricorrenti hanno mosso).
Sicché, né può ritenersi, come, peraltro, genericamente prospettato nel motivo, che le condotte siano consistite in null’altro che in normali operazioni commerciali dei cui aspetti illeciti gli imputati fossero addirittura all’oscuro (si vedano sul punto i passaggi della motivazione riportanti le conversazioni tra Amendolagine Arcangelo e lo spedizioniere Schiavone), né si comprende perché il reato di cui all’art. 260 cit. non potrebbe concorrere con quello, associativo, di cui all’art. 416 bis cod. pen..
Su tale secondo punto va in particolare ribadito che tra dette fattispecie, del resto caratterizzate da una diversa oggettività giuridica, da un diverso numero di soggetti richiesto e da un diverso atteggiarsi dell’elemento psicologico, non sussiste un rapporto di specialità, trattandosi di reati che presentano elementi costitutivi diversi, caratterizzandosi, il primo, per una organizzazione anche minima di uomini e mezzi funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti in modo da turbare l’ordine pubblico, e, il secondo, per l’allestimento di mezzi e attività continuative e per il compimento di più operazioni finalizzate alla gestione abusiva di rifiuti così da esporre a pericolo la pubblica incolumità e la tutela dell’ambiente (Sez. 3, n. 5773 del 17/01/2014, Napolitano, Rv. 258906).
1.2. Il terzo motivo, volto a lamentare la violazione del principio del ne bis in idem, è anch’esso inammissibile.
Oltre a doversi rilevare che il motivo appare porsi in termini sostanzialmente confutatori dell’assunto della sentenza impugnata secondo cui il giudizio celebrato a Napoli atterrebbe a containers diversi da quelli oggetto del presente procedimento (il che, evidentemente, già impedirebbe il sorgere di ogni questione di una “duplicazione” del giudizio per gli stessi fatti e nei confronti dei medesimi imputati), va aggiunto che la sentenza di primo grado precisa anche come a Napoli si sia proceduto per le sole ipotesi contravvenzionali della normativa sui rifiuti e non anche per il delitto di cui all’art. 260 cit. oggetto del presente giudizio (e sul punto nessuna doglianza appare sollevata, se non quella genericamente volta ad assumere che i reati fossero gli stessi).
Ancor prima, tuttavia, deve precisarsi che il principio di preclusione processuale di cui all’art. 649 cod. proc. pen., in quanto connesso al presupposto dell’irrevocabilità del provvedimento con cui l’imputato sia stato giudicato per il medesimo fatto, non può operare nei confronti del decreto di archiviazione, caratterizzato dall’impossibilità di divenire irrevocabile a fronte della prevista possibilità di riapertura delle indagini ex art. 414 cod. proc. pen. e, pertanto, dall’assenza di ogni effetto preclusivo nel senso richiesto ai fini dell’operatività del ne bis in idem (con riferimento al previgente codice di rito, Sez.1, n. 6588 del 31/01/1989, Masucci,  Rv. 181208; si veda poi anche, sia pure con riferimento al decreto di archiviazione emesso in altro Stato e sprovvisto di autorità di cosa giudicata, Sez. 3, n. 51221 del 15/06/2018, Feil,  Rv. 275064).
Del resto, anche l’art. 649 cod. proc. pen. non appare contemplare, tra i provvedimenti indicati, il decreto di archiviazione; né a diverse conclusioni potrebbe giungersi valorizzando il dato normativo che richiede che la riapertura delle indagini sia oggetto di apposita autorizzazione del giudice, restando comunque indiscusso, come precisato del resto proprio con riferimento a tale “meccanismo”, da Sez. U., n. del 9 del 22/03/2000, Finocchiaro, Rv. 216004, che il decreto non acquista per ciò solo autorità di res judicata, pur esercitando, in mancanza di autorizzazione, un effetto preclusivo, che, tuttavia, come sottolineato da Sez. U., n. 33885 del 2010, potrebbe valere solo nei confronti dello stesso ufficio del P.M. e non anche, come nella specie, di un P.M. diverso; e ciò appare confermato da Sez.1, n. 29212 del 06/07/2005, P.G. in proc. Baldone e altri, 231659, che, nel ritenere consentita l’integrazione dibattimentale dell’imputazione, ai sensi degli artt. 516, 517 e 518 cod. proc. pen., anche sulla base di fatti per i quali sia in precedenza intervenuto provvedimento di archiviazione, quando questo sia stato adottato dal giudice per le indagini preliminari di un tribunale diverso davanti al quale è in corso il processo, ricollega la necessità dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini svolte nell’ambito della stessa circoscrizione territoriale.
Va aggiunto, infine, che la Corte distrettuale, sul presupposto che il procedimento poi archiviato sarebbe stato iniziato dopo il presente, ha correttamente invocato la pronuncia di Sez. 4, n. 25640 del 21/05/2008, P.M. in proc. Marella, Rv. 240783, quanto all’obbligo di sospendere lo stesso che, se osservato, avrebbe  impedito qualunque questione relativa alla violazione del ne bis in idem.
1.3. Il quarto motivo è inammissibile.
Quanto alla specifica censura in ordine alla motivazione della sentenza impugnata circa la consapevolezza dei ricorrenti  di fare parte di un sodalizio criminoso, la stessa non appare a ben vedere figurare tra i motivi di appello proposti a suo tempo, con conseguente inconfigurabilità di un obbligo di risposta in capo alla Corte territoriale.
In ogni caso, la sentenza impugnata ha, sulla base anche degli elementi di prova già indicati sopra sub § 1.1., illustrato come i rapporti dei ricorrenti con il connubio Schiavone – Zhang Xiao non fossero quelli propri di meri clienti, bensì  di concorso  nella programmazione di una serie indefinita di esportazioni dei rifiuti, nella predisposizione degli strumenti tecnici e  dei supporti necessari per operare un traffico di ingenti dimensioni che richiedeva necessariamente visone strategica e selezione dei porti di volta in volta più adatti.
Quanto alla eccepita prescrizione del reato ex art. 260 cit. che sarebbe maturata prima della data della pronuncia impugnata, la stessa appare manifestamente infondata : se si assume effettivamente, all’interno dell’ampio spettro temporale indicato in imputazione dal gennaio 2008 al dicembre 2011, come ultima data quella del 19/10/2009 come ultima spedizione dei rifiuti  (la sentenza di primo grado menziona infatti, a pag. 29, proprio il 19/10/2009 come data del più recente tra i sequestri intervenuti), allora, non considerando la circostanza aggravante ex art. 4 della l. n. 146 del 2006, che in contestazione appare chiaramente  riguardare il solo reato associativo, la prescrizione sarebbe maturata in data 22/08/2018 (ovvero al termine di anni sette e mesi sei cui vanno aggiunti anni uno, mesi quattro e giorni tre di sospensione come riportata in sentenza e non contestata dai ricorrenti) e, dunque, dopo la sentenza impugnata.
1.4. Il quinto motivo è inammissibile : va precisato che, in base agli atti, accessibili a questa Corte stante la natura processuale della censura, la eccezione di mancata notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari risulta svolta solo con la nota per l’udienza del giudizio di appello del 24/01/2018, sì che, non essendo una tale omissione causa di nullità assoluta, la stessa appare tardiva atteso che essa avrebbe dovuto essere sollevata sino alla deliberazione della sentenza di primo grado (come affermato da Sez. 2, n. 46763 del 27/09/2018, Esposito, Rv. 274475); in ogni caso, quand’anche così non fosse, la eccezione sarebbe comunque sanata dalla proposizione della richiesta di rito abbreviato (Sez. 3, n. 7336 del 31/01/2014, Laneve, Rv. 258813).
1.5. Il sesto motivo, volto a lamentare la mancata riduzione delle pene irrogate e delle sanzioni amministrative applicate, è anzitutto inammissibile quanto alle pene accessorie perché non posto in precedenza.
Quanto invece alle pene principali e alle sanzioni amministrative, a fronte, nella specie, di una pena base fissata, per il reato associativo, in anni tre di reclusione, corrispondenti al minimo edittale, e di una irrogata sanzione, per l’ipotesi ex art. 25 undecies, comma 2, lett. f), del d. lgs. n. 231 del 2001, di 400 quote (da euro 800 ciascuna) a fronte di sanzione edittale ricompresa tra 300 e 500 quote, il motivo appare manifestamente infondato, essendo le sanzioni comunque situate non oltre la media edittale sì che ogni obbligo di motivazione appare correttamente assolto mediante il mero richiamo alla congruità della misura adottata (da ultimo, tare le altre, Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288).
Parimenti appare inammissibile la censura circa l’ impossibilità di operare la confisca a fronte di operato dissequestro in quanto posta, anch’essa, per la prima volta, con il ricorso per cassazione; va in ogni caso ricordato che, laddove effettivamente revocato il sequestro già disposto, non ne sortirebbero le conseguenze prospettate con il motivo posto che, secondo l’incontestato indirizzo di questa Corte, la confisca che, come quella in oggetto, per equivalente, disposta ex art. 19 del d.lgs. n.231 del 2001, abbia natura obbligatoria, non necessariamente deve essere preceduta dal sequestro preventivo (tra le altre, Sez. 3, n. 7079 del 23/01/2013, Buzi, Rv. 254751) sì che, a fortiori, neppure la revoca del sequestro potrebbe ostare alla confisca.
Va solo aggiunto, sul piano della valutazione delle osservazioni formulate dal Procuratore Generale nella sua memoria, che non può condividersi la qualifica di “pena illegale” che dovrebbe attribuirsi a quella irrogata agli imputati per effetto della prospettata, dal P.G., erronea applicazione della circostanza aggravante della transnazionalità di cui all’art.4 della l. n. 146 del 2006.
Va infatti considerato che, per consolidato indirizzo di questa Corte, pena illegale è  quella che si risolve in una pena diversa, per specie, da quella stabilita dalla legge, ovvero quantificata in misura inferiore o superiore ai relativi limiti edittali (tra le altre, Sez. 5, n. 8639 del 20/01/2016, De Paola e altri, Rv. 266080) sicché è evidente come non potrebbe mai, l’eventuale applicazione di una circostanza aggravante regolarmente contestata agli imputati ma che, secondo la prospettazione del P.G., diverrebbe non configurabile esclusivamente per effetto della pronuncia delle Sezioni Unite n. 18374 del 31/01/2013, Adami e altro, Rv. 255035 (che ha infatti stabilito che detta aggravante intanto è applicabile al reato associativo in quanto il gruppo criminale transnazionale non coincida con l’associazione a delinquere), ricondursi, sia pure considerando l’effetto che tale inconfigurabilità avrebbe sulla misura della pena complessiva,  al concetto di “pena illegale”.
Ove si concludesse diversamente, del resto, ogni erronea applicazione di una circostanza aggravante o, simmetricamente, ogni erronea esclusione di una circostanza attenuante dovrebbe essere ricondotta al concetto di pena illegale e, pertanto, essere rilevata ex officio da questa Corte secondo il paradigma dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. (anche in presenza, va aggiunto, come nella specie, di ricorso inammissibile ove l’illegalità fosse tale “ab origine” contraria all’assetto normativo vigente al momento consumativo del reato  : tra le altre, Sez. 4, n. 17221 del 02/04/2019, Iacovelli, Rv. 275714; Sez. 5, n.46122 del 13/06/2014, Rv. 262108). Ma, va detto, mai si è affermata la possibilità in capo alla Corte di rilevare d’ufficio situazioni di tale fatta che del resto, nella specie, neppure sarebbero contrassegnate da una una illegalità individuabile appunto “ab origine” giacché la considerazione dell’erronea configurabilità sarebbe discesa dalla sentenza sopra citata delle Sezioni Unite all’esito della risoluzione di un contrasto interpretativo in precedenza formatosi in seno alla Corte.
A conferma di quanto sopra, del resto, vanno richiamate le ipotesi di ritenuta sì illegalità della pena dovuta alla applicazione erronea di una circostanza aggravante, ma in casi nei quali la stessa era entrata in vigore successivamente al fatto commesso (Sez. 5, n. 27945 del 17/05/2018, Bonavita e altri, Rv. 273234), in tal caso venendo, dunque, fondatamente in rilievo l’assoluta estraneità della previsione rispetto all’assetto normativo correttamente applicabile.
La invocazione della “pena illegale” sarebbe, infine, nella specie, operazione ancor più impervia ove si consideri che questa stessa sezione ebbe, con la pronuncia n. 27413 del 26/06/2012, Amendolagine, Rv. 253146, a ritenere, nell’ambito del giudizio cautelare inerente la fattispecie in oggetto, a ritenere correttamente configurata la circostanza aggravante de qua.
1.6. Il settimo motivo, infine, diretto a contestare la legittimità della costituzione quale parte civile del consorzio Polieco, è inammissibile.
Premesso che non è invocabile sul punto, afferente a violazione di legge processuale, il vizio di mancanza di motivazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., suscettibile di riguardare unicamente questioni di fatto, i ricorrenti sembrano fondare la mancanza di legittimazione, da un lato, sul fatto che si verserebbe in ipotesi non di rifiuti ma, sul solco di quanto dedotto con il primo motivo, di materie prime secondarie, e, dall’altro, sulla mancanza di un obbligo di concerto con il Consorzio per le spedizioni transfrontaliere di rifiuti a base di polietilene, non essendo la relativa decisione statutaria mai stata approvata con decreto ministeriale.
Entrambi i profili, tuttavia, non incidono sulla legittimazione a costituirsi del Consorzio : vale infatti, quanto al primo punto, richiamare le ragioni già esposte sopra circa la natura di rifiuti dei teloni di plastica soggetti al regime restrittivo di esportazione, e, quanto al secondo, ribadire, in conformità a quanto a suo tempo affermato dalla sentenza di primo grado, reiterativa della decisione assunta all’udienza del 30/09/2014 in sede di giudizio abbreviato, la natura del Polieco di soggetto dotato di personalità giuridica  e portatore di interessi qualificati in ordine al controllo  e al corretto smaltimento dei rifiuti in plastica a base di polietilene, riconosciuto come tale dall’art. 234 del d. lgs. n. 152 del 2006, indipendentemente, peraltro, dall’adeguamento dello Statuto allo schema – tipo approvato dal Ministro dello sviluppo economico.
1.7. In definitiva, i ricorsi proposti da Amendolagine Emanuele, Amendolagine Arcangelo e Recuperi Sud devono essere dichiarati inammissibili con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle Ammende nonché alla rifusione delle spese processuali in favore della parte civile costituita Polieco, da liquidarsi in complessivi euro 3.500,00 oltre spese generali nella misura del 15%, Iva e Cpa. .
Deve aggiungersi che l’inammissibilità del ricorso, ostando alla formazione del rapporto processuale, impedisce a questa Corte di prendere atto della, nel frattempo, intervenuta prescrizione (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, D. L., Rv. 217266).
Tuttavia, quanto al ricorso della Recuperi Sud, pur a fronte della dichiarata inammissibilità, deve rilevarsi d’ufficio la illegalità delle sanzioni amministrative disposte relativamente ai reati – fine ex art. 260 cit. atteso che la previsione che ha incluso gli stessi tra i reati – presupposto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, è entrata in vigore in data 16/08/2011 per effetto dell’introduzione, nel d.lgs. n. 231 del 2001, dell’art. 25 undecies, e, dunque, solo successivamente alla consumazione dei reati, intervenuta, come detto, in data 28/10/2010.
Ne consegue, solo su detto punto, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con necessario conseguente rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Lecce per la rideterminazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 10, comma 2, della l. 16 marzo 2006, n.146 (la sanzione interdittiva è stata irrogata dal giudice di primo grado per i soli reati ambientali, come chiaramente espresso dalla relativa sentenza), da riparametrarsi per i soli reati associativi.
2. Venendo al ricorso proposto da Azzarito Domenico e dalla Gatim s.r.l., il primo motivo, diretto a sollevare la violazione dell’art. 522 cod. proc. pen., è inammissibile essendo stato richiesto ed ottenuto il rito abbreviato, di per sé preclusivo della possibilità di lamentare la stessa. Va infatti ribadito che l’imputato nel giudizio abbreviato incondizionato non può eccepire il vizio di genericità e indeterminatezza dell’imputazione, perché la richiesta incondizionata di giudizio abbreviato implica necessariamente l’accettazione dell’imputazione formulata dall’accusa (Sez. 4, n. 18776 del 30/09/2016, dep. 2017, Boccuni e altri, Rv. 269880).
2.1. Il secondo motivo è inammissibile.
La doglianza, con cui si lamenta la violazione del principio del ne bis in idem, si fonda sul presupposto che per gli stessi fatti di cui ai capi A3), B3) e C3) sarebbe intervenuta sentenza di assoluzione irrevocabile ad opera del Tribunale di Palmi; sennonché, premesso che la eventuale sovrapposizione delle decisioni dovrebbe essere in realtà limitata al solo reato sub B3) ex art. 260 del d. lgs. n. 152 del 2006  e non anche in relazione al reato associativo di cui al capo A3) e al reato di falso sub C3) (l’assoluzione appare infatti intervenuta solo in relazione alla ipotesi, peraltro qualificata sub art. 259 del d. lgs. n. 152 del 2006, di spedizione dei rifiuti  come evidente solo leggendo il capo d’imputazione), la irrevocabilità appare solo affermata ma né puntualizzata dallo stesso ricorrente nel motivo, con riferimento alla relativa data, né documentata, posto che il motivo richiama la copia della sentenza di cui alla produzione documentale effettuata con l’atto di appello ove, però, una tale attestazione non appare figurare.
2.2. Quanto al terzo motivo, essenzialmente diretto a lamentare la inidonea motivazione della sentenza impugnata circa la mancanza dei titoli abilitativi a svolgere le attività di recupero e di spedizione dei rifiuti costituiti da gomma e pneumatici fuori uso, preso atto della intervenuta, nelle more, prescrizione dei reati ambientali contestati, lo stesso appare fondato.
In atto di appello, si esponeva, infatti, con allegazione della relativa ordinanza del Commissario delegato per l’emergenza ambientale della Regione Calabria in data 01/08/2007, che la Gatim era autorizzata alla messa in riserva di rifiuti per sottoporli ad una delle operazioni indicate nei punti da R1 a R12, in esse dunque rientrando sia l’attività di recupero di materia o riciclo (R3) sia quella di recupero energetico (R 1).
A fronte di ciò, la sentenza impugnata, dopo avere effettivamente preso atto della autorizzazione relativa alla prima attività (così pare di comprendere in effetti leggendo, a pag.39, che “occorre rilevare che non vi è corrispondenza tra il legittimo conferimento per lo smaltimento e quello effettuato per il successivo recupero energetico”), ed avere altresì preso atto che la Gatim era regolarmente autorizzata a spedire in Corea del Sud, appare avere sostanzialmente omesso la risposta in ordine alla tematica posta in ordine alla autorizzazione relativa anche alla seconda attività; da un lato, infatti, ha ricordato che a colui che conferisce regolarmente a terzi rifiuti per il recupero o lo smaltimento si impone comunque l’onere di accertarsi della regolare autorizzazione di questi ultimi allo svolgimento delle operazioni, in tal modo tuttavia dando una risposta non pertinente all’imputazione sub B.3) (che era solo quella di avere fatto figurare la destinazione ad un impianto di recupero R3 di rifiuti in realtà destinati a recupero energetico R1), e trascurando l’onere di confrontarsi con il dolo specifico sorreggente la previsione dell’art. 260 cit.,  e dall’altro appare avere confermato, senza spiegare la compatibilità di tale affermazione con la documentazione presentata (su cui nulla viene detto), che la Gatim s.r.l. era appunto autorizzata solo al conferimento per lo smaltimento, in tal modo, però, fornendo una motivazione assiomatica.
Tale motivazione appare dunque, tanto più evidenziandosi in atto di appello che lo stabilimento-cementificio Ssangyong sarebbe stato regolarmente autorizzato al recupero energetico, sostanzialmente omissiva della necessità di spiegare, rispetto al punto investito dalle censure, la irrilevanza o la inidoneità della documentazione versata con l’atto di appello.
2.3. Anche il quarto motivo, diretto a censurare la motivazione resa quanto all’affermazione di responsabilità per i reati contestati, appare fondato.
Quanto anzitutto al reato di cui al capo B.2), con l’atto di appello l’imputato aveva sottolineato come il contenuto della telefonata del 27/10/2009, intercorsa tra Azzarito e il coindagato  Pagnanelli ed intercettata, fosse indicativa, laddove risultava chiaramente come il primo riferisse al secondo di essersi decisamente rifiutato di accettare la proposta di spedizione dei rifiuti in Vietnam fattagli da Quercia e Marinaro, della sua non consapevole partecipazione agli illeciti contestatigli.
A fronte di ciò la Corte, pur prendendo atto del contenuto della telefonata, ha ritenuto di disattenderne il valore, spiegandola come “tentativo dell’Azzarito di non compromettersi troppo, contestando platealmente il modo spregiudicato con cui Quercia Sergio e Marinaro Pino gli proponevano l’affare, per poi proseguire le esportazioni per tutto il 2010 con il collaudato sistema delle triangolazioni”.
Tale conclusione, tuttavia, appare, a fronte di un contenuto inequivocabilmente espressivo di un rifiuto dell’Azzarito a prendere parte a spedizioni illecite e, come tale, accettato dalla stessa sentenza, assimilabile, in mancanza di alcun elemento indicativo di un atteggiamento volto ad affermare il contrario di ciò che in quello stesso momento si stesse affermando, ad una vera e propria congettura, di per sé inammissibile, soprattutto ove si tenga conto del fatto che, in  sentenza, non si dà mai atto in alcun modo che Azzarito sapesse o sospettasse che la telefonata fosse intercettata. A ciò aggiungasi avere la sentenza impugnata trascurato di considerare (posto che nessuna menzione ne viene fatta) che lo stesso Marinaro ebbe, come evidenziato con memoria proposta in primo grado, a confermare, in sede di sommarie informazioni ex art. 391 bis cod. proc. pen., che Azzarito si era opposto categoricamente       all’esportazione in Vietnam.
Né si comprende la logica dell’affermazione svolta nella sentenza impugnata, che, per confutare la valenza “scagionante” della conversazione nel senso della inconsapevolezza della spedizione in Vietnam, ha valorizzato in senso contrario il fatto che, anche successivamente a tale telefonata, continuassero le spedizioni, trattandosi tuttavia, come emergente dalla sentenza di primo grado, a pag. 46 (le cui argomentazioni sono infatti state riprese dai giudici di appello), non già delle spedizioni in Vietnam bensì di quelle  in Corea del Sud, che, peraltro, come già visto più sopra, e specificamente in relazione al luogo di destinazione effettivo del cementificio Ssangyong, sono state investite dal terzo, e fondato, motivo di appello sul punto della loro regolarità.
Quanto al profilo del fine del profitto, quale necessario elemento integrante l’aspetto psicologico del reato ex art. 260 cit., e coinvolgente entrambi i reati contestati ai capi B2 e C2, la motivazione della sentenza impugnata appare quanto meno tale da giustificare le censure sul punto, conseguentemente non manifestamente infondate : limitarsi ad affermare in generale, come fa in sostanza la sentenza per affermare la sussistenza di un profitto, e dunque per giustificare la finalità dell’operazione, che i costi di conferimento dei rifiuti all’estero erano pressoché pari a zero contrariamente a quelli di conferimento in Italia, non vale di per sé a far ritenere dimostrato che, nella complessiva considerazione sia dei costi di conferimento (più bassi e pressoché nulli all’estero) sia dei costi di trasporto (molto più alti all’estero), il primo aspetto sopravanzasse di gran lunga il secondo in assenza di dati certi in alcun modo citati.
2.4. Il quinto motivo, avente ad oggetto la motivazione relativa alla responsabilità per il reato associativo,  appare fondato.
La motivazione della sentenza impugnata sul punto, infatti, appare risolversi, essenzialmente, nell’affermare che “l’Azzarito, con la sua società, si è stabilmente prestato (il numero dei trasporti ne è riscontro) al meccanismo della triangolazione per concretizzare il dirottamento dei suoi rifiuti” (v. pag. 42).
Sennonché, da un primo, generale, punto di vista, appare non corretto il ragionamento che trae la sussistenza del reato associativo dalla sovrapposizione della condotta descritta nell’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, con quella richiesta per la configurabilità dell’associazione per delinquere posto; tale secondo reato richiede, infatti, come già affermato da questa Corte, la predisposizione di un’organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella consapevolezza, da parte di singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad operare nel tempo per l’attuazione del programma criminoso comune, che non può certo essere individuata nel mero allestimento di mezzi e attività continuative organizzate e nel compimento di più operazioni finalizzate alla gestione abusiva di rifiuti indicate dall’art. 260 d.lgs. n. 152 del 06, richiedendosi, evidentemente, un’attiva e stabile partecipazione ad un sodalizio criminale per la realizzazione di un indeterminato programma criminoso (Sez.3, n. 5773 del 17/01/2014, Napolitano, Rv. 258906).
Sotto un secondo, più particolare, profilo, poi, il ragionamento manifesta ancor di più la sua debolezza per il fatto che la stessa sentenza, come già visto sopra, sembra avere dedotto la responsabilità del ricorrente per il reato di cui all’art. 260 cit. sulla base di una condotta meramente omissiva e connaturata da aspetti semplicemente colposi, addebitata all’imputato per non avere controllato quali fossero le effettive destinazioni dei rifiuti  (si vedano sul punto i passaggi delle pagg. 39 e 42), benché, poi, a pag.43, sempre la sentenza, in termini che paiono  incoerenti rispetto alle pagine precedenti, finisca per ritenere assiomaticamente accertata una partecipazione dolosa accertata in conseguenza della “consapevole scelta di intermediari pronti a falsificare i documenti di accompagnamento dei rifiuti per fare apparire lecita la spedizione”.
Se ne trae, dunque, complessivamente, una motivazione, da un lato, incerta quanto alla valutazione delle condotte realmente tenute dall’imputato e, dall’altro, in ogni caso, contrastante con la necessità di una netta distinzione tra le condotte sufficienti ai fini di integrare i reati-fine e quelle necessarie, invece, al fine di integrare il reato associativo.
2.5. Il sesto motivo è solo in parte fondato.
Con riferimento anzitutto ai reati associativi, infatti, va escluso che, al momento della pronuncia della sentenza impugnata, fosse maturata l’invocata prescrizione.
Anche a volere muovere infatti dalle date di consumazione indicate dal ricorrente (28/1/2009 per il reato di cui al capo A.3) e 10/6/2009 il reato di cui al capo A.2), i reati associativi di cui all’art. 416 cod. pen. per i quali è stata contestata e ritenuta la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 4 della l. n. 146 del 2006 (v. pag.55 della sentenza di primo grado), non risultano prescritti neppure a tutt’oggi, dovendo, ai sette anni di cui all’art. 157 cod. pen., aggiungersi gli ulteriori periodi per la circostanza aggravante, la interruzione ex art. 161 cod. pen. e la sospensione ex art. 159 cod. pen. (segnatamente, anni sei  + aggravante = anni nove + interruzione = anni undici e mesi tre + sospensione pari a anni uno, mesi quattro e giorni tre) con conseguente termine finale al 31/08/2021 per il reato di cui al capo A.3) e al 13/01/2022  per il reato di cui al capo A.2).
Neppure con riguardo ai reati – fine di cui all’art. 260 cit., la prescrizione poteva essere maturata al momento della sentenza impugnata : preso atto che, secondo quanto espressamente affermato a pag. 43 della sentenza di primo grado, l’ultima spedizione effettuata dalla Gatim s.r.l. deve essere collocata al 28/10/2010, tale data segnando pertanto il momento consumativo del reato abituale in oggetto (si veda, da ultimo, Sez. 3, n. 16036 del 28/02/2019 Zoccoli, Rv. 275395), a fronte del  termine complessivo di anni otto, mesi dieci e giorni tre (anni sette e mesi sei + sospensione, non essendo applicabili le previsioni in tema di raddoppio dei termini, di cui all’art. 51, comma 3 bis, cod. proc. pen., come richiamate dall’art. 157, comma 6, cod. pen., in quanto entrate in vigore nel marzo 2011 e, dunque, successivamente alla commissione dei fatti), il termine è maturato solo in data 01/09/2019 (non potendo, deve aggiungersi, tenersi conto della circostanza aggravante di cui all’art. 4 della l. n. 146 del 2006, chiaramente contestata in imputazione in relazione al solo reato associativo).
Neppure la  prescrizione poteva essere maturata, anche solo in parte, già prima della sentenza impugnata, con riferimento ai reati di falso di cui ai capi C.2 e C.3, reati istantanei rispetto ai quali non può non considerarsi, come data iniziale contestata, quella del 16/04/2009 di cui ai capi di imputazione stessi, con conseguente inizio del termine di prescrizione solo a decorrere dal 19/02/2018.
2.6. Il settimo motivo, relativo alla entità della sanzione irrogata, di per sé inammissibile (sia perché non proposto con l’atto di appello sia perché lo stesso ricorrente riconosce che la pena base è stata applicata in anni due a fronte di una forbice edittale ricompresa tra uno e cinque anni, mentre nulla osserva quanto ai presupposti di concessione delle circostanze attenuanti generiche), deve ritenersi comunque assorbito, dalla necessità di revisione dell’intero trattamento sanzionatorio per effetto della parziale fondatezza di alcuni dei motivi proposti e del conseguente annullamento della sentenza di cui oltre si dirà.
2.7. L’ottavo motivo è inammissibile perché non posto con l’atto di appello, pur dovendosi anticipare sin d’ora la dipendenza del profilo della necessaria rideterminazione delle sanzioni amministrative nei confronti della Gatim s.r.l. dall’annullamento in punto di affermazione di responsabilità della persona fisica Azzarito.
2.8. Conclusivamente, dunque, attesa la fondatezza, in particolare, del quarto e del quinto motivo di ricorso, complessivamente coinvolgenti tutti i reati contestati, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Lecce per nuovo esame quanto ai reati associativi di cui ai capi A.2) e A.3), mentre, con riferimento ai reati-fine di cui ai capi B.2), C.2), B.3) e C.3), dovendo prendersi atto che, secondo quanto già sopra indicato, l’ultima spedizione effettuata dalla Gatim s.r.l. risale al 28 ottobre 2010, la prescrizione, sia con riferimento ai reati di cui all’art. 260 cit., sia con riferimento ai reati di falso, appare definitivamente maturata in data 01/09/2019. Ciò comporta che, come già anticipato sopra, debba essere devoluto al giudice di rinvio anche il giudizio in ordine alla responsabilità amministrativa della Gatim S.r.l., e l’eventuale conseguente trattamento sanzionatorio, segnatamente afferente, tuttavia, i soli reati associativi. Infatti, con riguardo ai reati – fine ambientali, osta alla applicazione delle sanzioni amministrative tutte (pecuniarie, interdittive e di confisca), la cui applicabilità dovrebbe residuare, a seguito di una verifica quanto meno incidentale della sussistenza del fatto di reato, pur a fronte di prescrizione ex art. 8 del d.lgs. n. 231 del 2001 (da ultimo, Sez.4, n. 22468 del 21/05/2018, Eurocos., Rv. 273399), come già osservato sopra, la circostanza che la previsione che ha incluso gli stessi tra i reati – presupposto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, sia entrata in vigore in data 16/08/2011 per effetto dell’introduzione, nel d.lgs. n. 231 del 2001, dell’art. 25 undecies, e, dunque, solo successivamente alla consumazione dei reati in data 28/10/2010.
Deve solo precisarsi che il giudizio di rinvio dovrà eventualmente riguardare anche, sempre con riferimento ai soli reati associativi, all’esito della rivalutazione da effettuarsi, la confisca (non invece le sanzioni interdittive, non irrogate dalla sentenza di primo grado per i reati associativi) operata dal giudice di primo grado, che, genericamente riferita dalla sentenza di primo grado al profitto della attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, deve intendersi come comprensiva anche di quello dei reati associativi in forza dell’espresso riferimento operato alla natura trasnfrontaliera delle spedizioni e, dunque, alla transnazionalità quale circostanza aggravante specificamente  contestata per i reati associativi.
3. Venendo al ricorso di Schino Anna Maria, appaiono, in via pregiudiziale rispetto a tutti gli altri, fondati il terzo e quinto motivo, posto che da essi discende la maturata prescrizione dei reati.
Quanto al terzo motivo, va infatti osservato che, come reso evidente dal capo A.1 dell’imputazione, la circostanza di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 146 del 2006 è stata contestata unicamente in relazione al reato associativo dal quale, però, la Schino è stata assolta già in primo grado per non avere commesso il fatto tanto che nessun aumento la sentenza del G.i.p. ha operato a tale titolo sulla pena base irrogata per il reato fine ambientale.
Non ha poi pregio l’osservazione, contenuta nella memoria scritta del P.G., secondo cui la stessa aggravante sarebbe stata contestata “oggettivamente”, dal che, pare di comprendere, dovrebbe desumersi la sua “estensione” anche ai reati – fine : il dato inequivoco della menzione dell’aggravante nel solo capo relativo al reato associativo, non consente, infatti, estensioni di sorta (come del resto ritenuto dallo stesso giudice di primo grado che, significativamente, non ha operato appunto alcun aumento per detta aggravante).
E resta comunque il fatto che, anche laddove la aggravante fosse stata contestata, il giudice di primo grado l’avrebbe, implicitamente, non ritenuta, senza che tal profilo sia stato oggetto di impugnazione da parte del Pubblico Ministero.
Sicché, in definitiva, la sentenza impugnata, laddove, poi, specificamente nel calcolo della prescrizione, ha tenuto conto di tale aggravante, è certamente incorsa nella violazione dell’art. 597 cod. proc. pen..
Non essendo dunque computabile la circostanza aggravante suddetta, deve allora ritenersi fondato il quinto motivo, invocante la prescrizione maturata già al momento della sentenza impugnata.
Premesso infatti che la Corte territoriale ha riconosciuto, a pag. 46 della sentenza, che la data di commissione dei reati di cui all’art. 260 cit. è, al più tardi, collocabile non oltre il mese di settembre 2008 (sembrando, per vero, anzi, a pag. 44, di potersi dedurre che, come invocato dalla ricorrente, la commissione ultima sarebbe intervenuta il 19/05/2008, allorquando intervenne il sequestro degli ultimi sette containers) e aggiunto, come già detto sopra, che non è applicabile alcun raddoppio dei termini, essendo  la previsione dell’art. 51, comma 3 bis, cod. proc. pen., come richiamata dall’art. 157, comma 6, cod. pen. entrata in vigore nel marzo 2011 e, dunque, successivamente alla commissione dei fatti, e che, come già visto, non può tenersi conto della circostanza aggravante di cui all’art. 4 della l. n. 146 del 2006, chiaramente contestata in imputazione in relazione al solo reato associativo, la prescrizione relativa sia ai reati ambientali sia ai reati di falso, al più tardi contestuali ai primi, appare maturata in data 04/07/2017 (anni sette e mesi sei + sospensione pari ad anni uno, mesi quattro e giorni tre).
Sicché, in definitiva, non sussistendo certamente, a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., le condizioni per ritenere, con l’evidenza richiesta dalla norma processuale appena indicata, elementi nel senso della inconfigurabilità dei reati ascritti all’imputata, la sentenza deve essere annullata senza rinvio per estinzione dei reati.
4. Quanto al ricorso di Romboli Marco, lo stesso è inammissibile.
In relazione al primo motivo, volto a sostenere l’incompetenza territoriale del Tribunale di Lecce, lo stesso è inammissibile.
Risulta dagli atti che detta eccezione, dedotta all’udienza preliminare del 05/02/2014, e rigettata, non venne sollevata dall’imputato nel corso del giudizio abbreviato richiesto ed ottenuto all’udienza del 07/02/2014 (pur potendolo fare laddove già svolta nel corso dell’udienza preliminare : v. Sez. U., n. 27996 del  29/03/2012, Forcelli, Rv. 252612), avendo in particolare, nell’udienza del 30/09/2014, l’Avv. Cascione, in sostituzione del Difensore di Romboli, Avv. Cariello, concluso chiedendo l’assoluzione, sicché la stessa non poteva più essere proposta innanzi alla Corte d’Appello né poteva essere riproposta con il presente ricorso per cassazione (v. Sez. 3, n.11054 del 02/02/2017, Onofri e altro, Rv. 269174); né il fatto che la Corte d’appello abbia ugualmente trattato l’eccezione, rigettandola, può evidentemente comportare la “reviviscenza” di un motivo ormai precluso.
4.1. Il secondo motivo è inammissibile perché volto ad ottenere da questa Corte, in contrasto con i limiti cognitivi assegnatile, una rinnovata valutazione del compendio probatorio relativo alla responsabilità dell’imputato per la spedizione contestata di cui si sollecita, fondamentalmente, una lettura diversa da quella, logica, effettuata dai giudici di merito.
La sentenza impugnata, dopo avere affermato che il reale coinvolgimento della Ramplast nell’operazione deriva dall’annotazione sulle bollette degli orari di arrivo e di partenza dei containers, con apposizione del timbro della società a riscontro di quanto veniva spedito con destinazione fittizia ad Hong Kong, ha evidenziato, come già il giudice di primo grado, la mail del 31/12/2009 ed il bonifico di euro 19.133,40 direttamente effettuato dalla Hang Feng Plastic, sita in Cina, alla Ramplast, con conseguente inconsistenza della tesi della inconsapevolezza della reale destinazione finale dei rifiuti; e, quanto alla argomentazione difensiva circa l’essersi verificato un errore, giacché la somma avrebbe dovuto essere bonificata alla Saic, i giudici di appello hanno opposto la restituzione dalla Ramplast alla Saic non dell’intero importo bensì di una sola parte di esso, corrispondente all’opera di intermediazione svolta da detta Saic.
A fronte di tale logica ricostruzione, le deduzioni del ricorrente, da un lato richiamano, in maniera inconferente e generica, l’autorizzazione ad attività di trattamento dei rifiuti (per farli divenire materie prime secondarie) e, dall’altro, “cambiando rotta” rispetto all’atto di appello (ove si prospettava appunto un errore quanto alla destinazione alla Ramplast del bonifico), non contestano il dato della effettiva ricezione del pagamento solo in parte dirottato alla Saic  continuando inoltre a trascurare i dati documentali rappresentati dalla presenza sulle bollette di spedizione ad Hong Kong del timbro della società.
In definitiva, le censure si risolvono in rilievi generici e di carattere confutatorio fondati su una ricostruzione dei fatti diversa da quella, motivata, della sentenza.
4.2. Infine, anche il terzo motivo, diretto a contestare la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, appare inammissibile.
La sentenza impugnata ha valutato sul punto l’inesistenza, nella specie, dei necessari elementi favorevoli, secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui il ricorrente oppone, da un lato l’incensuratezza, di per sé, tuttavia, non dirimente per stesso dettato normativo, e, dall’altro, il ristretto lasso temporale dei fatti, risultando però, dalla sentenza impugnata, che ne ha fatto, dunque corretta valutazione, l’effettuata spedizione, in soli due mesi, di dodici contaìners.
4.3. Vale solo aggiungere che l’inammissibilità del ricorso, ostando alla formazione del rapporto processuale, impedisce a questa Corte di prendere atto della, nel frattempo, intervenuta prescrizione (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, D. L., Rv. 217266).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata [omissis]

Scarica in pdf il testo della sentenza: cass. pen., sez. 3, sent. n. 1429-2020