RIFIUTI. Veicoli fuori uso e cessazione della qualifica di rifiuto: il codice EER 16 01 alla luce dei criteri di legge. Cassazione Penale n. 36817/2022.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 36817 del 29 settembre 2022 (ud. del 14 settembre 2022)

Pres. Ramacci, Est. Scarcella

Rifiuti. Veicoli fuori uso. Parti di autoveicoli recuperate. Codice EER 16 01. Allegato D Parte Quarta d. lgs. n. 152/2006. Art. 184-ter d. lgs. n. 152/2006. D. lgs. n. 209/2003. D.M. 5 febbraio 1998.

I veicoli fuori uso e i prodotti del loro smantellamento sono rifiuti ai sensi della voce ‘16 01’ dell’allegato D alla parte quarta del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, richiamato dall’art. 184, comma 5, dello stesso decreto e a norma dell’art. 184-ter, comma 1, d.lgs. 152 del 2006, un rifiuto cessa di essere tale solo quando sia stato sottoposto a un’operazione di recupero e soddisfi i criteri e le condizioni in esso previsti. Sempre il d.lgs. 152 del 2006, art. 184-ter, comma 4, richiama espressamente anche il d.lgs. n. 209 del 2003, secondo il quale le parti di autoveicoli risultanti dalle operazioni di messa in sicurezza di cui allo stesso decreto, provenienti dai centri di raccolta autorizzati di cui al decreto, costituiscono rifiuti trattabili per il recupero in regime semplificato a sensi del D.M. 5 febbraio 1998, sub allegato 1-5.  Ne consegue, dunque, che le parti di autoveicoli recuperate a seguito di messa in sicurezza, da parte del soggetto autorizzato e con il concorso delle condizioni di cui allo stesso d.lgs. 152/2006, art. 184-ter, cessano di essere rifiuti.

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 36817 del 29 settembre 2022 (ud. del 14 settembre 2022)

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza 9.12.2016, la Corte d’appello di Genova ha confermato la sentenza 11.02.2020 del tribunale di Genova, che ha condannato OMISSIS alla pena di 5 mesi di reclusione, con il concorso di attenuanti generiche equivalenti alla contesta aggravante, e ritenuta la continuazione, in ordine ai reati di cui all’art. 259, TUA (spedizione illegale transfrontaliera di rifiuti) e 483, e 61 n. 2, c.p. (falsificazione della bolletta doganale), in relazione a fatti contestati come commessi in data 9.12.2016.

2. Avverso la sentenza impugnata nel presente procedimento, il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i sette motivi di seguito sommariamente indicati.

2.1. Deduce, con il primo motivo di ricorso, quanto al capo a) di natura contravvenzionale, il vizio di violazione della legge processuale in relazione all’art. 360, c.p.p., con conseguente inutilizzabilità degli atti compiuti dall’agenzia delle Dogane di Genova.

In sintesi, si sostiene che la sentenza impugnata sarebbe illegittima laddove ritiene ripetibili gli accertamenti operati nella fattispecie in esame dagli ufficiali doganieri sul corpo del reato. In sostanza, si censura la sentenza laddove ritiene ripetibile l’ispezione dei motori eseguita dall’Agenzia delle dogane in quanto effettuata a campione solo su dieci motori e non sulla totalità dei medesimi, ciò in quanto i motori avrebbero perso i liquidi presenti che sarebbero fuoriusciti dai fori su cui s’installano dagli organi meccanici collegati in quel momento assenti. Era evidente che i motori non si potevano riempire con gli stessi quantitativi presenti all’atto delle verifiche medesime effettuate dai doganieri per accertare se la presenza di olio fosse o meno nella misura consentita dalla legge (d. lgs. 209/2003 cfr. all. I punto 5, lett. e). Diversamente si sarebbe dovuto procedere con incidente probatorio, nel contraddittorio delle parti, trattandosi di operazioni irripetibili al fine di eseguire una misurazione tecnico-ponderale dei liquidi eventualmente presenti nei motori, non trattandosi invece di accertamenti urgenti ex art. 354, c.p.p., come invece sostenuto dai giudici di merito.

2.2. Deduce, con il secondo motivo di ricorso, sempre in relazione al medesimo capo a) della rubrica, il vizio di violazione di legge processuale in ordine all’errata applicazione degli artt. 254, 356, c.p.p. e 114, disp. att. c.p.p., anche in relazione all’art. 24 Cost

In sintesi, si sostiene che, laddove si ritenessero le operazioni svolte dai doganieri come afferenti ad attività ripetibili, sarebbero state svolte in violazione all’art. 354, c.p.p. perché non sarebbero stati conservati i pezzi di ricambio in questione né si sarebbe provveduto al loro sequestro, venendo smaltiti su disposizione dell’agenzia delle dogane nella loro totalità dai magazzini in cui erano allocati, in ottemperanza ad un protocollo siglato con la Procura di Genova. I predetti materiali non sono stati smaltiti dall’imputato ma da una ditta diversa, come ritiene apoditticamente la sentenza a pag. 7. Dunque non solo il corpo del reato è stato disperso, ma le verifiche svolte dai doganieri sarebbero avvenute senza alcuna nomina difensiva in favore dell’imputato, come era necessario ex art. 356, c.p.p., assenza comprovata dalla verifica dell’avviso ex art. 415-bis, c.p.p., in cui risulta nominati all’imputato un difensore d’ufficio, con conseguente compromissione del diritto di difesa ex art. 114 disp. att., c.p.p. e 24 Cost.

2.3. Deduce, con il terzo motivo di ricorso, sempre in relazione al capo a), il vizio di violazione di legge in relazione al D.lgs. 209/2003, all. I, punto 5) lett. e), in ordine alla legittima presenza residua di olio nei motori bonificati e quindi sull’erronea qualifica di rifiuto degli stessi.
In sintesi, richiamata la norma in questione, si sostiene che i giudici l’avrebbero ignorata, senza tener conto del fatto che, invece, l’operazione di messa in sicurezza dei motori condotta togliendo per scolatura la maggior quantità possibile di olio o liquido refrigerante era da ritenersi corretta, in quanto la modesta quantità residuale di liquidi che resta all’interno dei motori è indispensabile per il loro successivo reimpiego come parti di ricambio e quindi conforme alle prescrizioni di legge.

2.4. Deduce, con il quarto motivo di ricorso, sempre in relazione al capo a), il vizio di motivazione in merito alla valutazione della c.t.p. e delle prove testimoniali in favore dell’imputato.
In sintesi, si sostiene che i giudici avrebbero fondato il loro giudizio esclusivamente sulle prove d’accusa costituite dagli accertamenti doganali e dalle dichiarazioni dell’ufficiale doganale, senza valutarne la correttezza come invece emergeva dalla c.t. della difesa e dalle dichiarazioni dei testi a difesa che avevano confermato l’intervenuta bonifica. I giudici avrebbero così dimostrato anche l’esistenza della normativa che tollera la presenza di minime quantità di oli e liquidi lubrificanti nei motori bonificati, basandosi sulle dichiarazioni dei testi d’accusa senza procedere all’esistenza di alcuna misurazione ponderale a prova di una cospicua fuoriuscita di materiale oleoso né di c.t. del PM o perizia d’ufficio, pretermettendo quanto dichiarato dai testi a discarico.

2.5. Deduce, con il quinto motivo di ricorso, sempre riferito al capo a) della rubrica, il vizio di violazione di legge in ordine all’erronea applicazione della normativa sulla compravendita ex art. 1470 c.c. e sulle sue conseguenze nonché degli artt. 40, c.p. e 27 Cost. sulla responsabilità penale personale.
In sintesi, si sostiene che il lasso di tempo trascorso tra la consegna allo spedizioniere e l’accertamento dei doganieri unitamente alla mancata titolarità e disponibilità dei beni compravenduti (atteso che la merce sarebbe passata nella proprietà dello spedizioniere, ossia il mandatario egiziano, non potendo qualificarsi come responsabile la OMISSIS, e quindi il l.r. OMISSIS) escluderebbero qualsiasi responsabilità in capo al ricorrente.

2.6. Deduce, con il sesto motivo di ricorso, articolato in relazione al capo b) relativo al delitto di falsità ideologica, il vizio di carenza ed illogicità della motivazione.

In sintesi, si sostiene che il mero fugace riferimento al motivo di appello relativo alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, alla luce della struttura della società del ricorrente, non sarebbe sufficiente a confermarne la responsabilità penale per difetto di motivazione circa l’esistenza del dolo del reato, non essendovi prova che il ricorrente fosse a conoscenza della circostanza che i motori non fossero bonificati.

2.7. Deduce, con il settimo motivo di ricorso, in relazione ad entrambi i capi di imputazione, il vizio di motivazione in merito alla mancata applicazione dell’art. 131-bis, c.p.

In sintesi, si sostiene che la motivazione sul punto da parte dei giudici di appello sarebbe carente, perché avrebbe fatto riferimento alla natura professionale della spedizione ed alla sua entità, senza invece valorizzare quella serie di elementi a difesa (dalla c.t.p. alle dichiarazioni difensive, all’esistenza di un metodo procedimentalizzato in azienda, fino alle qualità umane e professionali del ricorrente) che invece avrebbero consentito di pervenire ad un giudizio di particolare tenuità del fatto.

3. In data 16.07.2022, con requisitoria scritta depositata in via telematica, il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

In particolare, in relazione al primo motivo di ricorso, si rileva che la sentenza impugnata correttamente richiama le considerazioni svolte dal giudice di prime cure, circa la natura non irripetibile degli accertamenti svolti dalla PG operante, nell’alveo dell’art. 354 cod. proc. pen., evidenziando come si fosse trattato di una verifica “a campione” effettuata su un numero limitato di motori, tale da non pregiudicare in alcun modo la possibilità di ripetizione degli accertamenti sul restante quantitativo di motori rimasti nella disponibilità delle parti.

Non sussistono le violazioni processuali lamentate con il secondo motivo di ricorso in relazione alla mancata conservazione dei pezzi di ricambio ed alla mancata nomina di un difensore. Invero, la Corte territoriale rileva, in conformità al giudice di primo grado, che gli accertamenti preliminari svolti dalla PG operante ed il mancato sequestro del materiale presente all’interno del container (che rimaneva comunque custodito all’interno di un magazzino) non hanno in alcun modo pregiudicato il diritto di difesa dell’imputato, il quale, quantomeno a partire dal 2017, era stato messo a conoscenza dell’esito delle indagini, attraverso la notifica dell’avviso di cui all’art. 515 bis cod. proc. pen. , e, dunque, sarebbe stato perfettamente in grado di richiedere qualsivoglia ulteriore accertamento, ove lo avesse ritenuto necessario. La sentenza impugnata correttamente precisa, poi, che l’attività svolta dai funzionari delle dogane non necessitava neppure di preavviso al difensore, salvo il diritto di assistervi ex art. 356 cod. proc. pen.

Quanto al terzo motivo di ricorso, non ricorre la dedotta violazione del D.lgs. 209/2003, allegato I, punto 5, lett. e), posto che i giudici di merito hanno correttamente richiamato la normativa vigente in materia di veicoli fuori uso e del loro smantellamento. La sentenza impugnata esamina anche il profilo della presenza residua di olio nei motori bonificati, rilevando, con considerazioni immuni da censure rilevabili in questa sede, che la testimonianza del funzionario doganale (confermata dal corredo fotografico acquisito in atti) è stata estremamente chiara nel descrivere la “presenza di oli in misura cospicua e comunque certamente superiore al limite di tolleranza”. Il ricorrente oppone alla valutazione dei giudici di ben due gradi di merito una rilettura degli elementi di fatto che travalica i limiti del giudizio di legittimità.

Anche le doglianze difensive contenute nel quarto motivo di ricorso, concernenti la mancata considerazione degli atti prodotti dalla difesa, si risolvono in questioni di merito, attinenti alla valutazione del fatto e sono, pertanto, precluse al giudizio di legittimità. Non si ravvisa nella sentenza impugnata alcun vizio motivazionale, posto che la Corte territoriale ha ritenuto i rilievi difensivi, espressi nella consulenza tecnica di parte, non condivisibili, motivando adeguatamente sul punto. Va, al riguardo, richiamato il principio di diritto affermato da codesta Corte secondo cui «il giudice, se ha indicato esaurientemente le ragioni del proprio convincimento, non è tenuto a rispondere in motivazione a tutti i rilievi del consulente tecnico della difesa, in quanto la consulenza tecnica costituisce solo un contributo tecnico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudice deve necessariamente prendere in esame in modo autonomo». (v. da ultimo Sez. 2, Sentenza n. 15248 del 24/01/2020 Ud. (dep. 18/05/2020) Rv. 279062 – 01). Con un percorso motivazionale logico e coerente, è stato osservato come il ricorrente non abbia assolto all’onere probatorio di dimostrare il compimento delle operazioni di recupero che comportano la cessazione della qualità di “rifiuto” e come le testimonianze di OMISSIS (che, secondo la tesi difensiva, dovrebbero confermare l’avvenuta bonifica dei motori) non fossero idonee a confutare l’ipotesi accusatoria in assenza di sufficienti riscontri documentali, stante l’esistenza di prove obiettive di segno contrario.

Anche le doglianze oggetto del quinto motivo di ricorso si risolvono in questioni di merito e, comunque, risultano contraddette da quanto accertato dal giudice di primo grado e ribadito nella sentenza impugnata laddove si rileva che “la gran parte della merce stivata all’interno del container era sicuramente riferibile alla OMISSIS S.r.l.; in particolare, la maggioranza dei motori è stato identificato attraverso il numero seriale, riportato in fattura” e che “la bolletta doganale (la cui falsità ideologica è contestata nel capo B) di imputazione) contiene l’attestazione indubbiamente riferibile alla OMISSIS S.r.l. circa la presenza di parti e accessori di autoveicoli bonificati”. La penale responsabilità dell’imputato è stata, pertanto, affermata in conformità alla costante giurisprudenza di legittimità relativa all’applicazione ed interpretazione dell’art. 530, comma 2 cod. proc. pen.
Non sussiste il vizio motivazionale dedotto nel sesto motivo di ricorso. La sentenza impugnata, richiamando le considerazioni svolte relativamente al capo A) di imputazione, con un percorso motivazionale logico e coerente, ravvisa la volontà e consapevolezza di commettere il reato di cui all’art. 483 c.p. in capo all’imputato, nella sua qualità di rappresentante legale della società a responsabilità limitata.

Manifestamente infondato è anche il settimo motivo di ricorso relativo alla mancata applicazione dell’istituto di cui all’art. 131 bis c.p. Giova ribadire che «ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità dell’offesa dev’essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen., ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti» ( da ultimo Sez. 7, Ordinanza n. 10481 del 19/01/2022 Cc. (dep. 24/03/2022) Rv. 283044 – 01). Ebbene, i giudici d’appello rilevano l’inesistenza dei presupposti per l’applicazione dell’istituto de quo, affermando che dev’essere considerata rilevante l’offesa al bene giuridico protetto, avuto riguardo, in particolare, alla natura “professionale” della spedizione- posta in essere dal soggetto qualificato nel settore in quanto titolare di impresa operante nel ramo specifico- e all’entità della stessa. Nella sentenza impugnata, pertanto, risultano affrontate tutte le questioni dedotte nel ricorso e che peraltro erano già state proposte in appello. Nel ricorso si prospettano esclusivamente valutazioni (in parte vertenti su elementi di fatto non deducibili in questa sede) divergenti da quelle cui è pervenuto il giudice d’appello con motivazioni congrue ed esaustive, previo specifico esame degli argomenti difensivi attualmente riproposti.

4. In data 7.09.2022, la difesa del ricorrente, in replica alle conclusioni del PG di inammissibilità, ha insistito invece per l’accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, trattato ai sensi dell’art. 23, comma 8 del D.L. n.137/20 e successive modd. ed integr., è inammissibile.

2. Il primo motivo è generico e manifestamente infondato.

2.1. L’impostazione difensiva non è condivisibile, né convincente. Sono, invece, da ritenersi favorevolmente apprezzabili le argomentazioni svolte sul punto dal primo giudice, il quale ha correttamente evidenziato la natura non irripetibile degli accertamenti svolti dalla P.G. operante, svoltasi legittimamente nell’alveo disciplinato dall’art. 354 c.p.p.

Invero, come riportato dalla sentenza di appello (pag. 7), “l’attività dei funzionari delle dogane, operanti quali ufficiali di P.G., si è limitata all’acquisizione di dati a campione sul materiale reperito, con descrizione delle caratteristiche riscontrate”, attività questa che di per sé non necessitava neppure di preavviso al difensore, salvo il diritto per quest’ultimo di assistervi ex art. 356 c.p.p. Si è trattato, infatti, di una verifica “a campione”, effettuata su un numero limitato di motori (rispetto al quantitativo, assai superiore, sottoposto poi a fermo amministrativo) che non ha pregiudicato in alcun modo la possibilità di ripetizione degli accertamenti sul restante (di gran lunga maggiore) quantitativo di motori, o altre parti di veicoli ed accessori descritti in imputazione, rimasti nella disponibilità delle parti, ed in relazione al quale ben avrebbe potuto l’imputato presentare richiesta di ulteriori accertamenti “garantiti” (ibidem, sentenza di appello). È utile, infatti, rilevare che solo il successivo smaltimento, effettuato a cura dello stesso imputato in epoca di molto successiva ai preliminari accertamenti (sulla base della documentazione prodotta dallo stesso OMISSIS, tale attività si è esaurita solo nel marzo 2018), ha reso in concreto irripetibile ogni ulteriore verifica. Come ben evidenziato anche dal primo giudice, oltre che dalla Corte di Appello di Genova (pag. 7 sentenza di appello), “i preliminari accertamenti svolti dalla P.G. operante ed il mancato sequestro del container non hanno in alcun modo pregiudicato il diritto di difesa dell’imputato, il quale, quantomeno a partire dal 2017, era stato messo a conoscenza dell’esito delle indagini, attraverso la notifica dell’A.C.I.P., e dunque sarebbe stato perfettamente in grado di richiedere qualsivoglia ulteriore accertamento, ove lo avesse ritenuto necessario”.

Considerando anche le motivazioni della sentenza di primo grado (che, in base a pacifica giurisprudenza, costituisce tutt’uno con quelle della sentenza di appello in casi specifici, come quello in esame, per cui, ex multis, cfr. Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993 – dep. 04/02/1994, Albergamo ed altro, Rv. 197250; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011 – dep. 12/04/2012, Valerio, Rv. 252615), va evidenziato che “la verifica doganale si è articolata in due momenti: lo svuotamento del container (operazione che avveniva dal 19 gennaio al 25 gennaio 2017) e, a seguito di comunicazione trasmessa da legale di parte circa l’avvenuta bonifica della merce e il suo possibile reimpiego, l’ispezione sui motori”, tale attività essendosi “concretizzata nella verifica della corrispondenza tra le matricole dei motori e quelli riportati in fattura (e, quindi, sulla riconducibilità della merce alla OMISSIS s.r.l.), nonché nell’accertamento circa la presenza di olio nei motori stessi”. Peraltro, “tutte le operazioni sono state svolte nel contraddittorio della parte, alla presenza di incaricato della OMISSIS s.r.l., rappresentata da collaboratore della società CAD di Genova, in ottemperanza a quanto previsto dal codice doganale nell’ambito delle attività di verifica” (pag. 4 sentenza di primo grado).

2.2. Sostanzialmente, quindi, sebbene la difesa dell’imputato opponga la circostanza che l’ispezione, intervenuta in un momento nel quale erano stati rilevati elementi di reità, comportasse un accertamento tecnico irripetibile, con la necessità di applicare l’art. 360 c.p.p., perché con lo svuotamento dell’olio si determinava l’impossibilità di ripetere l’operazione, l’attività dei funzionari doganali, anche quali ufficiali di polizia giudiziaria, era diretta, prima dell’intervento del Pubblico Ministero, alla raccolta e alla documentazione dei dati pertinenti al reato ai sensi dell’art. 354 c.p.p. e la verifica in questione non determinava affatto uno studio e una valutazione dei dati bensì, appunto, una “descrizione” (così Sez. 2, n. 34149 del 10/07/2009 – dep. 04/09/2009, Rv. 244950, Chiesa e altro). Non vi era, dunque, necessità di preavviso al difensore, fermo comunque, come già detto, il diritto di assistere ai sensi dell’art. 356 c.p.p. Ulteriore elemento da considerare è che la verifica era stata fatta a campione su dieci motori, e non sulla totalità, lasciando così intonsa la possibilità di ripetizione. Gli argomenti utilizzati dalla Corte di Appello di Genova, riprendendo la sentenza di primo grado, sono suffragati dalla costante giurisprudenza di legittimità in materia, secondo cui “il prelievo di un campione (nel caso specifico, di olio minerale denaturato) rientra nella previsione dell’art. 354 cod. proc. pen., risolvendosi in un’attività materiale che non postula il rispetto delle formalità prescritte dall’art. 360 dello stesso codice, sia perché non richiede alcuna discrezionalità o preparazione tecnica per il suo compimento, sia perché attiene ad un oggetto la cui intrinseca consistenza è suscettibile di verifica in ogni momento” (Sez. 3, n. 15826 del 26/11/2014 – dep. 16/04/2015, Rv. 263059, Guerrieri, in relazione ad una fattispecie relativa al reato di cui all’art. 40 d.lgs. n. 504 del 26 ottobre 1995). In tema di accertamenti urgenti sulle cose, inoltre, “i prelievi (nel caso esaminato dalla Suprema Corte, di polvere da sparo), quantunque prodromici all’effettuazione di accertamenti tecnici, non sono tuttavia identificabili con questi ultimi, per cui, pur essendo irripetibili, non richiedono alcuna partecipazione difensiva” (così Sez. 1, n. 45437 del 30/11/2005 – dep. 15/12/2005, Rv. 233354, Fummo e altro: ma si vedano anche Sez. 1, n. 23156 del 09/05/2002 – dep. 17/06/2002, Rv. 221621 – 01, Maisto e altro; Sez. 5, n. 9998 del 21/01/2003 – dep. 05/03/2003, Rv. 226153 – 01, P.G. in proc. Bocchetti).

Il motivo si appalesa, dunque, come generico e manifestamente infondato, in quanto non si confronta né con la convincente motivazione della sentenza ora impugnata, né con la risalente giurisprudenza di legittimità in materia di accertamenti irripetibili.

3. La doglianza difensiva esposta nel secondo motivo deve essere ritenuta manifestamente infondata, in quanto la nullità derivante dalla mancata osservanza degli artt. 354 e 356 c.p.p. è da qualificarsi a regime intermedio e, pertanto, avrebbe dovuto essere eccepita tempestivamente, ossia ex art. 180 c.p.p. prima della sentenza di primo grado (cioè, prima del 26 febbraio 2020).

Orbene, in nessuna delle udienze svolte prima della deliberazione di primo grado (udienza del 5 febbraio 2019; udienza del 9 luglio 2019; udienza del 24 settembre 2019; udienza del 17 dicembre 2019; udienza del 28 gennaio 2020; udienza dell’11 febbraio 2020), tale eccezione è mai stata sollevata.
È, infatti, dato acquisito di legittimità che “l’eccezione, formulata per la prima volta in sede di appello, circa la nullità per violazione del diritto di difesa, dell’accertamento presso il servizio di polizia scientifica (nel caso specifico, relativo al prelievo del guanto di paraffina e alla lettura degli eventuali residui di polvere da sparo), esattamente è disattesa con l’escludere la nullità d’ordine generale ex art. 179 cod. proc. pen., poiché soggetta a regime intermedio e quindi sanata ex art. 180 stesso codice, per non essere stata nella specie eccepita prima della deliberazione della sentenza di primo grado, ed altresì col ritenere, siccome previsto dall’art. 354, comma terzo, cod. proc. pen., l’accertamento urgente, per il quale al difensore non era dovuto preventivo avviso, avendo soltanto facoltà di assistere all’atto (art. 356 successivo)” (ex multis, cfr. Sez. 1, n. 2301 del 23/01/1992 – dep. 02/03/1992, Rv. 189775, Ricciardi).

4. La censura difensiva svolta nel terzo motivo, oltre a figurare come doglianza reiterativa di un motivo già svolto in sede di appello, si appalesa come manifestamente infondata alla luce della convincente argomentazione della Corte d’Appello sul punto.

In particolare, deve rammentarsi che “i veicoli fuori uso e i prodotti del loro smantellamento sono rifiuti ai sensi della voce ‘16 01’ dell’allegato D alla parte quarta del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, richiamato dall’art. 184, comma 5, dello stesso decreto” e che “a norma dell’art. 184-ter, comma 1, d.lgs. 152 del 2006, un rifiuto cessa di essere tale solo quando sia stato sottoposto a un’operazione di recupero e soddisfi i criteri e le condizioni in esso previsti” (pag. 8 sentenza di appello). Sempre il d.lgs. 152 del 2006, art. 184-ter, comma 4, richiama espressamente anche il d.lgs. n. 209 del 2003, secondo il quale le parti di autoveicoli risultanti dalle operazioni di messa in sicurezza di cui allo stesso decreto, provenienti dai centri di raccolta autorizzati di cui al decreto, costituiscono rifiuti trattabili per il recupero in regime semplificato a sensi del D.M. 5 febbraio 1998, sub allegato 1-5.
Ne consegue, dunque, che le parti di autoveicoli recuperate a seguito di messa in sicurezza, da parte del soggetto autorizzato e con il concorso delle condizioni di cui allo stesso d.lgs. 152/2006, art. 184-ter, cessano di essere rifiuti.

Ciò premesso, l’odierno ricorrente non aveva “assolto all’onere probatorio, non avendo dimostrato di aver correttamente posto in essere tutte le operazioni di recupero che comportano la cessazione della qualità di rifiuto, risultando al contrario l’esatto opposto per l’accertata presenza nel container di parti di autoveicoli integri e, dunque, non bonificati” (pag. 9, sentenza di appello).

A suffragare tali conclusioni, anche il primo giudice aveva ribadito che “le operazioni per la messa in sicurezza dei veicoli fuori uso, necessarie per determinare il loro recupero con conseguente cessazione della qualifica di rifiuto, prevedono la rimozione dell’olio (motore e del circuito idraulico), con un margine di tolleranza minimo (nel senso che, se pure può accettarsi la presenza di minime tracce di sostanza lubrificante, certamente non può essere consentita, al fine di considerare compiuto il recupero e la messa in sicurezza, la fuoriuscita del motore di quantitativi di olio lubrificante non irrilevanti)” (pag. 9, sentenza di appello).

Nel caso di specie, la testimonianza del funzionario Tommaso Moro (confermata anche dal corredo fotografico acquisito in atti) è stata estremamente chiara nel descrivere la presenza all’interno del container di ben 44 motori, 4 parti anteriori complete e una parte posteriore, 31 semiassi con impianto frenante, 105 ammortizzatori, 9 scatole di cambio, 17 sterzi con piantone, non bonificati in quanto risultanti contenere la presenza di oli in misura cospicua e, comunque, certamente superiore al limite di tolleranza indicato. Non è, quindi, possibile supportare le critiche difensive circa lo svolgimento delle operazioni di verifica da parte dell’organo accertatore secondo modalità non adeguate, dovendosi viceversa rilevare il corretto approccio da parte di personale altamente qualificato e risultando, peraltro, indiscutibile il riscontro obiettivo rappresentato dal rinvenimento di un quantitativo di oli lubrificanti certamente superiore a quello minimo riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, limitato a consentire il mantenimento della funzionalità e la conservazione del motore, ed incompatibile, dunque, con una avvenuta bonifica.

Tali conclusioni peraltro paiono in perfetto accordo con la giurisprudenza della Suprema Corte in questo ambito, rappresentativamente indicata da Sez. 3, n. 58312 del 25/10/2018 – dep. 27/12/2018, Caselli, secondo cui a norma dell’art. 184-ter d.lgs. 152/2006 e del d.lgs. 24 giugno 2003, n. 209 (recante, “Attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai veicoli fuori uso”) – v., in particolare, l’Allegato 1, punto 5.1., lett. e) – le operazioni per la messa in sicurezza dei veicoli fuori uso, necessarie per determinare il loro recupero con conseguente cessazione della qualifica di rifiuto, “prevedono la rimozione dell’olio (motore e del circuito idraulico)” e, se pure può accettarsi una piccola tolleranza, vale a dire che ne rimangano tracce, certo “non può ritenersi recuperato e messo in sicurezza un motore usato da cui fuoriescano cospicui spandimenti di olio”, come invece esattamente avvenuto nel caso di specie.

5. Anche il quarto motivo è inammissibile.

La Corte d’Appello, contrariamente a quanto affermato dalla difesa del ricorrente, ha fatto riferimento alla c.t. difensiva ed alle dichiarazioni difensive, ritenendole irrilevanti. Infatti, in primo luogo, “né le testimonianze di OMISSIS (che, in tesi difensiva, dovrebbero confermare l’avvenuta bonifica dei motori) possono consentire di confutare l’ipotesi accusatoria, in assenza di sufficienti riscontri documentali atti ad avvalorarle ed in presenza, anzi, di risultanze obiettive di segno contrario” (pag. 10 sentenza di appello). Sul punto, inoltre, la Corte di Appello afferma che, sebbene secondo il consulente di parte “le verifiche sarebbero state compiute dalla P.G. operante in modo idoneo in quanto i motori sarebbero stati esaminati capovolti o messi su in fianco, in modo tale da alterare la lettura del livello di lubrificante contenuto” e “il quantitativo di liquido lubrificante presente all’interno dei motori esaminati costituiva il minimo indispensabile per consentire il successivo reimpiego del motore stesso (in quanto senza una sufficiente quantità di olio lubrificante le parti interne del motore si ossidano velocemente, rendendo così inservibili i congegni meccanici a cui appartengono le parti metalliche ossidate” (sic, pag. 8 sentenza di appello), nel caso di specie “la testimonianza del funzionario doganale (confermata dal corredo fotografico acquisito in atti) è stata estremamente chiara nel descrivere la presenza all’interno del container di ben 44 motori, 4 parti anteriori complete e 1 parte posteriore, 31 semiassi con impianto frenante, 105 ammortizzatori, 9 scatole di cambio, 17 sterzi con piantone, non bonificati in quanto risultanti contenere la presenza di oli in misura cospicua e comunque certamente superiore al limite di tolleranza in precedenza indicato” (pag. 9 sentenza di appello).

Peraltro, l’aspecificità della censura mossa in sede di legittimità tende ancora una volta a sostenere con argomenti fattuali assolutamente ipotetici vizi motivazionali in realtà non esistenti, sfociando nella genericità. In particolare, infatti, il fatto che “non vi siano ragioni per supportare le illazioni avanzate dalla difesa circa lo svolgimento delle operazioni di verifica da parte dell’organo accertatore secondo modalità non adeguate, dovendosi viceversa presumere un corretto approccio da parte di personale altamente qualificato e risultando peraltro indiscutibile il riscontro obiettivo rappresentato dal rinvenimento di un quantitativo di oli lubrificanti certamente superiore a quello minimo riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità” costituiva adeguata risposta alle doglianze difensive allora mosse ed è limpida testimonianza di un accurato confronto tra gli elementi addotti dalla difesa (consulenze di parte e testi) e gli elementi a carico dell’imputato, riferiti da testi e operatori qualificati.

6. Anche il quinto motivo è inammissibile.

Al netto del fatto che la difesa del ricorrente fa riferimento ad una mera ipotesi ricostruttiva, sganciata da qualsiasi elemento probatorio concreto reperibile in atti (ossia la circostanza che possa esservi stata una manomissione tra il momento della consegna e quello dell’accertamento, pag. 18 ricorso per cassazione OMISSIS), il dato assorbente è costituito dalla circostanza che nella bolletta doganale, oggetto di falso ideologico, è contenuta l’attestazione che tali parti ed accessori di autoveicoli “bonificati” erano riferibili alla OMISSIS s.r.l., così dissolvendo le disquisizioni giuridiche sottese alla asserita violazione dell’art. 1470 c.c.

Peraltro, su questo punto la sentenza di appello specifica che “non vi sono ragioni plausibili per ritenere che fra il momento della stipula contrattuale e quello dell’accertamento sul materiale stivato all’interno del container sono stati realizzati interventi modificativi del materiale in questione (essendo anzi possibile ragionevolmente escludere tale ipotesi), sicchè non può che concludersi ritenendo che detto materiale avesse mantenuto intatte le caratteristiche iniziali” (pag. 11 sentenza di appello).
Anche in questo caso, dunque, le contestazioni difensive scadono in astratte ricostruzioni ipotetiche, non supportate da risultanze o documenti agli atti, non essendo perciò in grado di favorire una lettura “ragionevole” del dubbio cui fa riferimento la tesi difensiva. Peraltro, la Corte di Appello di Genova ha risposto puntualmente anche su questo versante, affermando non solo che “non vi sono dunque ragioni per escludere la riferibilità del dato probatorio alla OMISSIS s.r.l.”, ma anche che “del resto, la bolletta doganale (…) contiene l’attestazione, indubbiamente riferibile alla OMISSIS s.r.l., circa la presenza di parti e accessori di autoveicoli bonificati, risultando la regolare bonifica espressamente affermata da apposita dichiarazione allegata alla bolletta, dimostratasi viceversa essere falsa a seguito degli accertamenti compiuti su materiali e componenti esaminati, risultati classificabili quali rifiuti” (pag. 12 sentenza di appello).

Rimane da osservare, sempre con riguardo alla specifica doglianza in ordine all’erronea applicazione della normativa sulla compravendita ex art. 1470 c.c., che tale contestazione viene formulata in termini specifici per la prima volta solo nel ricorso in cassazione, venendo formulata in termini alquanto generici negli atti di impugnazione precedenti (segnatamente l’atto di appello). Ne consegue, dunque, che la motivazione della sentenza di appello è ben più che sufficiente come risposta alla doglianza allora mossa in sede di appello e che la riproposizione della questione, sia pur in termini giuridicamente più specifici (in particolare, ancorandosi all’art. 1470 c.c.), costituisca chiaro esempio di motivo inammissibile ex art. 606, comma 3, c.p.p., per violazioni di legge non dedotte con motivi di appello.

7. Il sesto motivo non sfugge al giudizio di inammissibilità.

A tal proposito, sebbene la sentenza della Corte di Appello si limiti a riportare, in via sintetica come possa “essere ritenuta sussistente la piena consapevolezza dell’OMISSIS circa la natura di rifiuto dei beni oggetto di esportazione” (pagg. 12-13 sentenza di appello) alla luce di quanto sin qui esposto, è necessario riferirsi a quanto esposto nella sentenza di primo grado. In tal caso, pacifica giurisprudenza di legittimità ritiene che le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrino a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare la congruità della motivazione, tanto più ove i giudici di appello, come nel caso in esame, abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (ex multis, Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993 – dep. 04/02/1994, Albergamo ed altro, Rv. 197250; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011 – dep. 12/04/2012, Valerio, Rv. 252615).

Altrettanto rilevante è il principio per cui in tema di integrazione delle motivazioni tra le sentenze conformi di primo e di secondo grado, il giudice di appello può motivare per relazione se l’impugnazione si limita a riproporre questioni di fatto o di diritto già esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, mentre, qualora siano formulate censure specifiche o introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore, è affetta da vizio di motivazione la sentenza di appello che si limiti a respingere le deduzioni proposte con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici rispetto alle risultanze istruttorie (Sez. 6, n. 5224 del 02/10/2019 – dep. 07/02/2020, Rv. 278611).
Tanto premesso, la decisione di primo grado non lascia adito a dubbi.
Si legge infatti che risulta “provato il reato di cui all’art. 483 c.p., funzionalmente collegato al reato ambientale di cui al capo A) di imputazione, in quanto alla bolletta doganale, costituente atto pubblico, è stato attestato contrariamente al vero la presenza di parti e accessori e autoveicoli (la cui regolare bonifica era anche attestata con dichiarazione a corredo della bolletta) a fronte di un carico di rifiuti” (pag. 8 sentenza di primo grado). L’elemento della sottoscrizione della bolletta da parte dell’OMISSIS stesso, unito al carattere di aspecificità del relativo motivo di appello (formulato in termini assai generici e in cui si adducono, per suffragare l’assenza dell’elemento soggettivo in capo all’odierno ricorrente, solo elementi di prassi, quali la mancanza di un “controllo di persona su ogni singolo pezzo a causa delle notevoli dimensioni dell’azienda e l’istituzione di un consolidato modus operandi degli incaricati”, che in tanti anni di attività “non ha mai denotato falle in punto di bonifica”, sic pag. 34 atto di appello), portano a concludere per la genericità del motivo proposto, che, oltre che reiterativo di doglianza già avanzata in precedente grado di giudizio, appare anche aspecifico una volta messo a confronto con la motivazione della sentenza della Corte di Appello di Genova.

8. Anche il settimo ed ultimo motivo solleva censure che possono essere qualificate inammissibili perché aspecifiche, in quanto insistono in un tentativo di rilettura degli stessi elementi valutati dalla Corte d’Appello che però ha, sul punto, fornito una motivazione più che adeguata nel confutare la tesi della riconoscibilità del 131-bis c.p.

Infatti, in applicazione dei tre presupposti relativi a tale istituto (e cioè: 1) limiti della pena edittale; 2) modalità della condotta; 3) gravità dell’offesa), risultano ben motivate, nonché condivisibili, le conclusioni dei giudici di appello sul punto, che hanno ritenuto che i fatti globalmente considerati non potessero essere ritenuti di particolare tenuità, “dovendosi al contrario considerare rilevante l’offesa al bene giuridico protetto, avuto riguardo, in particolare, alla natura ‘professionale’ della spedizione, posta in essere da soggetto qualificato nel settore in quanto titolare di impresa operante nel ramo specifico, ed all’entità della spedizione, trattandosi di motori, parti di veicolo e pezzi di ricambio per un totale complessivo di oltre 14 tonnellate di materiale” (pag. 13 sentenza di appello).
Peraltro, nel caso in esame nemmeno sussiste la necessità di esaminare tutti gli elementi valutabili ex art. 131-bis c.p., a tal proposito potendo valere il richiamo al fatto che gli errori logici e di fatto da cui sono inficiati alcuni degli argomenti enunciati in una sentenza non valgono a determinare l’annullamento della stessa quando altre ragioni ed argomenti incensurabili ed autonomi rispetto a quelli viziati giustificano in modo adeguato la decisione (Sez. 7, ordinanza n. 10481 del 19/01/2022 – dep. 24/03/2022, Rv. 283044, Deplano).

9. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di C 3.000,00.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso, il 14 settembre 2022

Scarica in pdf il testo della sentenza: cass. pen., sez. 3, sent. n. 36817-2022