Inquinamento atmosferico. Ristorante, molestie olfattive, emissioni in atmosfera, criteri della normale e stretta tollerabilità. Cassazione Penale.

Cass. Pen., Sez. VII, ord. n. 44257 del 26 settembre 2017 (ud. del 13 luglio 2017)
Pres. Savani, Est. Mengoni
Aria. Inquinamento atmosferico. Ristorante. Emissione di fumi e vapori maleodoranti. Molestie olfattive promananti da impianto munito di autorizzazione. Emissioni in atmosfera. Criteri della normale tollerabilità e stretta tollerabilità. Cortile condominale. Art. 674 c.p. . Art. 844 c.c. . Giurisprudenza.
A mente del quale il reato di cui all’art. 674 cod. pen. (Getto pericoloso di cose) è configurabile anche in presenza di “molestie olfattive” promananti da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera (e rispettoso dei relativi limiti, come nel caso di specie), e ciò perché non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche – e, quindi, valori soglia – in materia di odori (Sez. 3, n. 37037 del 29/5/2012, Guzzo); con conseguente individuazione del criterio della “stretta tollerabilità” quale parametro di legalità dell’emissione, attesa l’inidoneità ad approntare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana di quello della “normale tollerabilità”, previsto dall’art. 844 cod. civ. in un’ottica strettamente individualistica (Sez. 3, n. 2475 del 9/10/2007, Alghisi). Nel caso in esame, trovano applicazione i seguenti principi, enunciati dalla giurisprudenza: a) l’evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo sufficiente quello del limite della stretta tollerabilità; b) qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l’intensità delle emissioni, il giudizio sull’esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti (per tutte, Sez. 3, n. 19206 del 27/3/2008, Crupi; in termini, anche Sez. 3, n. 12019 del 10/2/2015, Pippi).
Cass. Pen., Sez. VII, ord. n. 44257 del 26 settembre 2017 (ud. del 13 luglio 2017)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SETTIMA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
PAGLIARO GIOVANNI nato il 14/07/1976 a CATANZARO
avverso la sentenza del 09/02/2016 del TRIBUNALE di ROMA
dato avviso alle parti;
sentita la relazione svolta dal Consigliere ENRICO MENGONI;
comunque inquadrabili nella cornice di cui all’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., avendo riguardo – al di là dell’apparente nomen iuris – alle reali intenzioni dell’impugnante ed all’effettivo contenuto dell’atto di gravame, con la conseguenza che, ove dall’esame di tale atto si tragga la conclusione che l’impugnante abbia effettivamente voluto ed esattamente denominato il mezzo di impugnazione non consentito dalla legge, l’appello deve essere dichiarato inammissibile (Sez. U, n. 16 del 26/11/1997, n. Nexhi, Rv. 209336; Sez. 2, n. 47051 del 25/9/2013, Ercolano, Rv. 257481; Sez. 5, n. 35442 del 3/7 /2009, Mazzola, Rv. 245150).
4. Tutto ciò premesso, ritiene il Collegio che tale conversione sia inammissibile nel caso di specie, atteso che l’appello proposto – al pari dei motivi aggiunti – contiene prevalentemente censure in fatto, legate alla sussistenza della condotta, alla sua riferibilità all’imputato ed all’assenza – in suo capo – dell’elemento soggettivo del reato. Censure che, dunque, questa Corte non può verificare, atteso il costante principio per cui il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247).
5. Quanto precede, peraltro, con l’annotazione che la sentenza in esame ha fatto buon governo del principio – costantemente affermato in questa sede di legittimità – a mente del quale il reato di cui all’art. 674 cod. pen. (Getto pericoloso di cose) è configurabile anche in presenza di “molestie olfattive” promananti da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera (e rispettoso dei relativi limiti, come nel caso di specie), e ciò perché non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche – e, quindi, valori soglia – in materia di odori (Sez. 3, n. 37037 del 29/5/2012, Guzzo, Rv. 253675); con conseguente individuazione del criterio della “stretta tollerabilità” quale parametro di legalità dell’emissione, attesa l’inidoneità ad approntare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana di quello della “normale tollerabilità”, previsto dall’art. 844 cod. civ. in un’ottica strettamente individualistica (Sez. 3, n. 2475 del 9/10/2007, Alghisi, Rv. 238447).
Da quanto precede, dunque, deriva che, nel caso in esame, trovano applicazione i seguenti principi, enunciati dalla giurisprudenza sopra richiamata: a) l’evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo sufficiente quello del limite della stretta tollerabilità; b) qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l’intensità delle emissioni, il giudizio sull’esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti (per tutte, Sez. 3, n. 19206 del
27/3/2008, Crupi, Rv. 239874; in termini, anche Sez. 3, n. 12019 del 10/2/2015, Pippi, non massimata).
6. Con riguardo, di seguito, alla causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., osserva il Collegio che la stessa – pur già in vigore – non è stata richiesta in sede di merito, non potendo quindi formare oggetto di esame, per la prima volta, innanzi a questa Corte (in tal senso, tra le altre, Sez. 7, n. 43838 del 27/5/2016, V., Rv. 268281 ).
7. Ancora, quanto al trattamento sanzionatorio, si rileva che l’applicazione dell’art. 133-bis cod. pen. è stata correttamente motivata con riguardo alle presunte capacità economiche del ricorrente (gestore di un avviato ristorante nel centro di Roma) ed ai riscontrati lavori intrapresi e documentati nel corso del giudizio; sì da pervenire ad un argomento congruo e non censurabile in questa sede.
9. Da ultimo, con riferimento all’eccezione di incostituzionalità sollecitata con i motivi aggiunti, si osserva che la manifesta infondatezza della stessa è stata già affermata da questa Corte – tra le altre – con sentenze nn. 14087 del 24/1/2013, Mendala (Rv. 255047), n. 27366 del 23/5/2001, Feletto (Rv. 219985) e n. 8340 del 18/12/2000, Trapletti (Rv. 218194), alle quali integralmente si rinvia; in quest’ultima, in particolare, si è sostenuto che il diritto all’appello non è stato costituzionalizzato, sicché esso non può ritenersi imposto dall’art. 24 Cost., né la suddetta limitazione confligge con il principio di ragionevolezza desunto dall’art. 3 Cost., in quanto il legislatore può ragionevolmente escludere l’appello per il caso in cui il giudice abbia condannato il contravventore alla sola pena dell’ammenda e conservarlo per il caso in cui il giudice abbia irrogato la pena dell’arresto: la diversità di trattamento è giustificata dalla diversa valutazione giudiziaria della gravità del reato.
8. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 9 febbraio 2016, il Tribunale di Roma dichiarava Giovanni Pagliaro colpevole della contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen. e, per l’effetto, lo condannava alla pena di 500,00 euro di ammenda; allo stesso, quale titolare del ristorante “La Barcaccia”, era contestato di aver provocato l’emissione di fumi e vapori maleodoranti nel cortile condominale, atti a molestare i soggetti indicati nel capo di imputazione.
2. Propone appello il Pagliaro, poi convertito in ricorso per cassazione, chiedendo l’assoluzione. Il Tribunale avrebbe affermato la colpevolezza in forza di un criterio – quello della stretta tollerabilità degli odori – non corretto, dovendosi invece preferire quello della normale tollerabilità. Del pari, sarebbero state erroneamente valutate plurime emergenze istruttorie, quali le deposizioni Polzelli, Chiais, Balsamo e Di Nicola, diffusamente riportate; dal che, ancora, il difetto dell’elemento soggettivo del reato. Da ultimo, si contesta la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., in uno con l’eccessività della pena.
Con memoria depositata il 27/6/2017, il ricorrente insiste nelle stesse argomentazioni, invitando peraltro la Corte a sollevare questione di legittimità costituzionale con riguardo all’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 111 Cast., per non consentire l’appello nei casi di condanna alla sola pena dell’ammenda.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Occorre premettere che, ai sensi dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., sono inappellabili le sentenze di condanna con le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda, come nel caso di specie; ne consegue che – qualora tale impugnazione sia invece proposta – deve verificarsi l’effettiva possibilità di convertire l’atto di appello in ricorso per cassazione, analizzando il concreto contenuto dello stesso e la natura delle doglianze ivi sollevate. In particolare, la Corte di appello – prescindendo da qualsiasi analisi valutativa in ordine alla indicazione di parte, se frutto cioè di errore ostativo o di scelta deliberata – deve limitarsi a prendere atto della voluntas impugnationis (elemento minimo che dà esistenza giuridica all’atto proposto) e trasmettere gli atti al Giudice competente (in tal senso, Sez. U, n. 45371 del 31/10/2011, Bonaventura, Rv. 220221; tra le altre, successivamente, Sez. 5, n. 7403 del 26/9/2013, Bergantini, Rv. 259532; Sez. 1, n. 33782 dell’S/4/2013, Arena, Rv. 257117); questa Corte di legittimità, di seguito, deve invece verificare se le doglianze proposte con il gravame siano quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 13 luglio 2017