Inquinamento acustico. Rumore, accertamento della tollerabilità delle immissioni, mezzi di prova, art. 844 c.c., art. 659 c.p., art. 674 c.p. . Cassazione Civile n. 1606/2017

Cass. Civ., Sez. II, sentenza n. 1606 del 20 gennaio 2017 (ud. 29 novembre 2016)

Pres. Mazzacane, Est. Scarpa

Inquinamento acustico. Rumore. Accertamento della intollerabilità delle immissioni rumorose. Criterio valutabile caso per caso o criterio comparativo – Situazione ambientale. Poteri del giudice di merito. Accorgimenti idonei o tecnici per ridurre le immissioni. Livello di normale tollerabilità previsto dall’art. 844 c.c. – Accertamento e mezzi di prova esperibili – Accertamenti di natura tecnica e prova testimoniale. Artt. 844, 2043 e 1226 c.c. . Art. 659 c.p. . Art. 674 c.p. . Giurisprudenza.

Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c., diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale. Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa, supponendo tale accertamento un’indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame l’intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. II, Sentenza n. 17051 del 05/08/2011; Cass. Sez. II, Sentenza n. 3438 del 12/02/2010; Cass. Sez. II, Sentenza n. 17281 del 25/08/2005).
I mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall’art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza tecnica d’ufficio con funzione “percipiente”, in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l’intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone. Mentre, in tale materia, la prova testimoniale rimane ammissibile soltanto quando verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, e non si riveli espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai testi: cfr. Cass. Sez. II, Sentenza n. 1245 del 04/03/1981; Cass. Sez. II, Sentenza n. 2166 del 31/01/2006).
In tema di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o all’intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art. 844 c.c., e non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell’art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (Cass. Sez. II, Sentenza n. 6223 del 29/04/2002; Cass. Sez. VI – 2, Ordinanza n. 2319 del O 1/02/2011; Cass. Sez. II, Sentenza n. 10735 del 03/08/2001; Cass. Sez. II, Sentenza n. 5697 del 18/04/2001; Cass. Sez. II, Sentenza n. 939 del 17/01/2011 ). Sicché, i criteri dettati dal d.m. 16 marzo 1998 attengono, al superamento dei valori limite differenziali di immissione di rumore nell’esercizio o nell’impiego di sorgente di emissioni sonore, di cui all’art. 6, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, e sono volti a proteggere la salute pubblica mediante predisposizione di apposito illecito amministrativo (Cass. Sez. II, Sentenza n. 28386 del 22/12/2011; Cass. Sez. II, Sentenza n. 26738 del 13/12/2006).
Il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi a seguito della cd. “comunitarizzazione” della Cedu (Cass. Sez. III, Sentenza n. 20927 del 16/10/2015; Cass. Sez. III, Sentenza n. 26899 del 19/12/2014).
In tema di comunione, vale in principio, per cui ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un’utilità maggiore e più intensa di quella tratta eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purchè non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso, e senza che tale uso più intenso sconfini nell’esercizio di una vera e propria servitù. Pertanto, la sostituzione di un muro di confine comune con un cancello non viola ex se l’art. 1102 c.c., trattandosi soltanto di utilizzo più intenso della cosa comune, secondo la sua naturale destinazione (delimitazione perimetrale e protezione/isolamento dell’esterno delle proprietà), che ne consente il pari uso ( cfr. Cass. Sez. II, Sentenza n. 22341 del 21/10/2009; Cass. Sez. II, Sentenza n. 4900 del 01/04/2003 ). L’accertare se gli atti e le opere dei singoli condomini, miranti ad un’intensificazione del proprio godimento della cosa comune, siano conformi o meno alla destinazione della cosa comune, in considerazione dei limiti imposti dall’art.1102 c.c., è compito del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato.
 
 
Cass. Civ., Sez. II, sentenza n. 1606 del 20 gennaio 2017 (ud. 29 novembre 2016)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis 
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 13846-2012 proposto da:
PAVAN ERMENEGILDO PVNRGNSOC27H523X, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA AJACCIO 14, presso lo studio dell’avvocato STEFANO QUEIROLO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANNI TAFFARELLO;
– ricorrente –
contro
PAVAN GERMANA, PAVAN ALESSANNDRO, PAVAN BRUNO, ZAGO M.ATILDE, elettivamente domiciliati in ROMA, V.TRIONFALE 5697, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO BATTISTA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato FEDERICO VIANELLI;
– controricorrenti –
nonchè
sul ricorso 13846-2012 proposto da:
PAVAN GERMANA, PAVAN ALESSANDRO, PAVAN BRUNO, ZAGO MATILDE, elettivamente domiciliati in ROMA, V.TRIONFALE 5697, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO BATTISTA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato FEDERICO VIANELLI;
– ricorrenti incidentali –
contro
PAVAN ERMENEGILDO PVNRGN50C27H523X, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA AJACCIO 14, presso lo studio dell’avvocato STEFANO QUEIROLO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANNI TAFFARELLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1098/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 04/05/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/11/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;
uditi gli Avvocati Queirolo e Vianelli;
udito il P.M. in persona dcl Sostituto Procuratore Generale Dott. ALBERTO CELESTE, il quale ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 21 marzo 1995 Bruno Pavan, la moglie di questo Matilde Zago e i loro figli Germana Pavan e Alessandro Pavan, confermando davanti al Tribunale di Treviso Ermenegildo Pavan, fratello del primo degli attori, lamentando la violazione dell’art. 1102 c.c. con riguardo all’area antistante le rispettive limitrofe proprietà, in relazione all’abbattimento di un muro divisorio ed all’apertura di un cancello automatico, e chiedendo la condanna del convenuto al risarcimento dei danni patrimoniali e morali conseguenti alle immissioni provenienti dal suo fondo, nonché la cessazione dell’attività ivi svolta da Ermenegildo Pavan, consistente in un’officina di lavorazione del ferro, al fine di impedirgli l’uso di un maglio ad aria, di un carroponte e l’accesso di automezzi al suo capannone. In particolare, le immissioni contestate attenevano agli strumenti rumorosi impiegati nell’officina nonché ai gas nocivi derivanti dai lavori di verniciatura. Ermenegildo Pavan si costituiva contestando le pretese avversarie, chiedendo la sospensione per pregiudizialità dalla causa con riguardo al pendente giudizio di scioglimento della comunione e proponendo domanda riconvenzionale per ottenere il pagamento della somma di € 10.000,00 dal fratello Bruno Pavan.
Il Tribunale di Treviso, con sentenza del 5 ottobre 2007, accoglieva le domande degli attori e condannava Ermenegildo Pavan a rimuovere il carroponte, ad astenersi dall’invadere l’area comune, alla cessazione delle immissioni acustiche con inibizione all’uso di determinati macchinari ed al risarcimento dei danni. Ermenegildo Pavan proponeva appello in via principale, mentre Bruno Pavan, Matilde Zago, Germana Pavan e Alessandro Pavan proponevano appello incidentale.
Con sentenza n. 1098/2011 del 4 maggio 201 1, la Corte d’Appello di Venezia accoglieva unicamente la censura in ordine alla mancata parziale compensazione delle spese processuali nel giudizio di primo grado, confermando per il resto la sentenza del Tribunale. Osservava la Corte di Venezia che fosse sufficiente a decidere la lite l’espletata CTU, la quale aveva valutato l’intollerabilità delle immissioni sulla base della soglia dei 3 dB oltre il rumore di fondo, mentre era irrilevante accertare per quante ore al giorno venissero utilizzati gli strumenti rumorosi, ledendo comunque le accertate immissioni la normale qualità della vita dei vicini.
I giudici d’appello negavano poi ogni ultrapetizione della sentenza di primo grado in riferimento agli strumenti di cui era stato impedito l’utilizzo; escludevano che fosse cessata la materia del contendere circa la rimozione del carroponte; ribadivano la violazione dell’art. 1102 c.c. in relazione all’occupazione dell’area comune da parte di Ermenegildo Pavan con materiali di lavorazione e mezzi pesanti; confermavano l ‘inconfigurabilità di un contrasto col medesimo art. 1102 c.c. dell’apertura sull’area comune, previo abbattimento del preesistente muretto, di un cancello carraio; affermavano che, pur in assenza di documentazione medica, le intollerabili immissioni acustiche provenienti dall’attività di fabbro di Ermenegildo Pavan avessero leso, secondo massime di comune esperienza, il diritto di Bruno Pavan, Matilde Zago, Germana Pavan e Alessandro Pavan alla salute, ovvero ad una dignitosa qualità della vita; ribadivano la ravvisabilità degli estremi del reato di cui all’art. 659 c.p. ed escludevano, per contro, quella degli estremi del reato di cui all’art. 674 c.p..
Veniva altresì rigettato l’appello incidentale per difetto di ogni prova sui danni materiali subito dall’immobile di Bruno Pavan, Matilde Zago, Germana Pavan e Alessandro Pavan. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia, Ermenegildo Pavan ha proposto ricorso articolato in sei motivi, mentre Bruno Pavan, Matilde Zago, Germana Pavan e Alessandro Pavan hanno resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale contenente tre motivi, dal quale Ermenegildo Pavan si difende a sua volta con controricorso. Il ricorrente ha presentato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. in data 24 ottobre 2016.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I. Il primo motivo del ricorso di Ermenegildo Pavan deduce violazione degli artt. 61, 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., addebitandosi alla sentenza della Corte d’Appello di Venezia di aver escluso l’ulteriore attività istruttoria richiesta dal ricorrente in primo grado, basando la decisione sulla sola CTU, e di aver omesso l’applicazione del bonus previsto, in presenza di rumore a tempo parziale, dall’art. 16 del Decreto del Ministero dell’Ambiente 16 marzo 1998, bonus che avrebbe comportato che solo due strumenti di lavoro dell’officina determinavano le immissioni lamentate. Tanto più che alla verniciatura dei manufatti nell’officina si procedeva soltanto una volta al mese, il maglio veniva utilizzato solo qualche ora a settimana e la zincatura veniva affidata a imprese esterne.
Il secondo motivo del ricorso di Ermenegildo Pavan deduce violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., nonché degli artt. 844, 2043 e 1226 c.c., per aver la Corte di Venezia contraddittoriamente motivato che fosse irrilevante accertare per quante ore al giorno venissero utilizzati gli strumenti rumorosi, ma poi confermato nell ‘an e nel quantum la lesione al diritto alla salute ed il risarcimento del danno.
Il terzo motivo del ricorso principale denuncia ex art. 360 n. 5 c.p.c. insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate dalla Corte d’Appello con riguardo sempre all’assunta irrilevanza dell’accertamento del numero di ore giornaliere di utilizzo degli strumenti rumorosi ed alla valutazione di intollerabilità dei rumori, definiti ripetuti e diffusi nel corso dell’intera giornata.
Il quarto motivo del ricorso principale denuncia omessa motivazione con riguardo all’assunto che i rumori, definiti ripetuti, inaspettati e diffusi nel corso dell’intera giornata, non potessero essere attutiti.
Il quinto motivo del ricorso di Ermenegildo Pavan (per errore numerato nuovamente come 4) censura l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e la violazione e falsa applicazione degli artt. 844, 2043, 2056, 2697 e 1226 c.c., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c. Si critica la liquidazione dei danni non patrimoniali operata in via equitativa pur in difetto di prova dell’esistenza effettiva dei danni stessi, e dunque compiuta sulla scorta della mera potenzialità lesiva dell’evento.
Il sesto motivo denuncia il v1z10 di motivazione e “la falsa applicazione dell’art. 659, comma 1, c.p. nella fattispecie concreta”, non essendo stati superati i limiti fissati dalla legge n. 447/1995.
1.1. I primi cinque motivi del ricorso di Ermenegildo Pavan, per la connessione che li lega e anche per la ripetitività dei rispettivi assunti, possono essere esaminati congiuntamente e si rivelano tutti infondati.
Sono dapprima impropriamente dedotte nel primo e nel quinto motivo le doglianze relative alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., in astratto configurabile come motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da tale disposizione (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15107 del 17/06/2013; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19064 del 05/09/2006).
Altrettanto, la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice abbia dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta da tale norma, ovvero abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016). Mentre la violazione dell’art. 116 c.p.c. è al più idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360, n. 4, c.p.c., ma ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13960 del 19/06/2014 ).
Il ricorrente, nelle sue censure, si limita, invece, a dedurre che la Corte d’Appello di Venezia abbia male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, ovvero che, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, e tali doglianze possono essere fatte valere unicamente ai sensi del numero 5 dell’ art. 360 c.p.c., nella formulazione, qui applicabile, antecedente alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, sempre che comunque non si richieda alla Corte di cassazione di sostituirsi ai giudici del merito per procedere ad un nuovo esame degli apprezzamenti di fatto a quelli spettanti.
Ora, il ricorrente Ermenegildo Pavan si lamenta che la Corte d’Appello abbia dato peso alle sole indagini svolte dal consulente tecnico d’ufficio e non abbia considerato le proprie deduzioni di prova testimoniale. Vertendosi in giudizio relativo ad immissioni (nella specie di rumori ed esalazioni provocati dallo svolgimento di attività di officina fabbrile), i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall’art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza tecnica d’ufficio con funzione “percipiente”, in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l’intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone. Mentre, in tale materia, la prova testimoniale rimane ammissibile soltanto quando verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, e non si riveli espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai testi: cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1245 del 04/03/1981; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2166 del 31/01/2006).
Essenzialmente, Ermenegildo Pavan si lamenta che prima il CTU e poi la Corte d’Appello non abbiano tenuto in debito conto l’art. 16 Allegato A del Decreto Ministero dell’Ambiente 16 marzo 1998, concernente le Tecniche di rilevamento e di misurazione dell’inquinamento acustico, norma che, per il periodo diurno, prende in considerazione la presenza di rumore a tempo parziale nel caso di persistenza dello stesso per un tempo totale non superiore ad un’ora (quale si assume essere il caso per cui è causa) e stabilisce una diminuzione del valore del rumore ambientale di 3 dB(A).
Tale reiterata deduzione del ricorrente trascura il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema, appunto, di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o all’intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art. 844 c.c., e non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell’art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6223 del 29/04/2002; Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 2319 del O 1/02/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10735 del 03/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5697 del 18/04/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 939 del 17IO112011 ).
I criteri dettati dal d.m. 16 marzo 1998 attengono, piuttosto, al superamento dei valori limite differenziali di immissione di rumore nell’esercizio o nell’impiego di sorgente di emissioni sonore, di cui all’art. 6, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, e sono volti a proteggere la salute pubblica mediante predisposizione di apposito illecito amministrativo ( cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28386 del 22/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26738 del 13/12/2006).
Perciò la Corte d’Appello di Venezia ha definito irrilevante accertare per quante ore al giorno venissero utilizzati gli strumenti da lavoro rumorosi, ed ha invece stimato decisiva la verifica, confortata dalle risultanze peritali, che ogni singola macchina adoperata nell’officina fabbrile cagionasse un rumore percepito nell’abitazione dei vicini come eccedente di 3 db rispetto al rumore ambientale di fondo. La sentenza impugnata ha correttamente considerato, in sostanza, prive di significatività le disposizioni ministeriali sulle modalità di rilevamento dei rumori cosiddetti “a tempo parziale”, valutando comunque illecite le immissioni sulla base di un giudizio di tollerabilità formulato ai sensi dell’art. 844 c.c., tenendo presente, fra l’altro, la vicinanza dei luoghi e i possibili effetti dannosi per la salute delle immissioni. Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi ( c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c., diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale. Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa, supponendo tale accertamento un’indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame l’intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17051 del 05/08/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3438 del 12/02/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/08/2005).
Quanto al quinto motivo del ricorso di Ermenegildo Pavan, questa Corte intende dare continuità all’orientamento già da essa espresso, per il quale il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi a seguito della cd. “comunitarizzazione” della Cedu (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20927 del 16/10/2015; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26899 del 19/12/2014). La Corte di Venezia ha proprio affermato l’esistenza di un pregiudizio alla libera e normale esplicazione della personalità ed alla qualità della vita di Bruno Pavan, Matilde Zago, Germana Pavan e Alessandro Pavan, pregiudizio riconducibile allo stress ed al grave disagio provocato dalle immissioni sonore provenienti dalla vicina officina e percepibili nell’abitazione di quelli.
II. Il sesto motivo del ricorso di Ermenegildo Pavan denuncia il vizio di motivazione e “la falsa applicazione dell’art. 659, comma 1, c.p. nella fattispecie concreta”, non essendo stati superati i limiti fissati dalla legge n. 447/1995. E’ opportuno l’esame congiunto di tale sesto motivo del ricorso principale con il secondo motivo del ricorso incidentale di Bruno Pavan, Matilde Zago, Germana Pavan e Alessandro Pavan, che censura la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 674 c.p. e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la stessa ha negato la configurabilità di tale reato.
II.1. Al riguardo, la Corte di Venezia ha ritenuto nella specie ravvisabili gli estremi del reato di cui all’art. 659 c.p. (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone), sussistendo la potenzialità del rumore ad investire tutti coloro che ne sono a contatto, mentre ha escluso la configurabilità dell’art. 674 c.p. (Getto pericoloso di cose), non essendo verificata l’attitudine del materiale per la verniciatura utilizzato da Ermenegildo Pavan a creare offesa o molestia.
Il sesto motivo del ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale sono infondati in quanto quel che rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale a norma dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 185 c.p., non è che il fatto illecito integri, in concreto, un reato piuttosto che un altro, né occorre una condanna penale passata in giudicato, ma è sufficiente che il fatto stesso sia soltanto astrattamente previsto come reato, sicché è sufficiente a tal fine l’accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza, secondo la legge penale, degli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice ( cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13085 del 2410612015; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22020 del 19/10/2007).
La Corte d’Appello di Venezia ha dunque sostenuto l’astratta configurabilità, a fini risarcitori, del reato cui al comma primo dell’art. 659, c.p., avendo accertato che l’attività di officina veniva svolta con modalità idonee a disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero la pubblica quiete; ha invece negato l’ipotizzabilità del reato di cui all’art 674 c.p., non reputando comprovata l’attitudine delle emissioni di gas, vapori o fumi a molestare persone. Ciò è stato esplicitato dai giudici del merito mediante congrua motivazione sul convincimento maturato al riguardo in base agli elementi probatori disponibili ed in conformità all’interpretazione che di tali due norme esprime questa Corte (Cass. pen. Sez. 3, Sentenza n. 42026 del 18/09/2014; Cass. pen. Sez. 3, Sentenza n. 5735 del 21/01/2015; Cass. pen. Sez. 3, Sentenza n. 760 del 10/12/2002; Cass. pen. Sez. 1, Sentenza n. 5215 del 07/04/1995). I ricorrenti incidentali, peraltro, non rivelano quale interesse abbiano a che la condotta di Ermenegildo Pavan, già valutata dalla Corte d’Appello rilevante ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale perché riferibile al reato di cui all’art. 659 c.p., sia invece qualificata come integrante il diverso reato ex art. 674 c.p., potendo comprendersi l’invocazione di una diversa qualificazione giuridica del fatto di reato rivolta al giudice civile sol quando da essa discendano conseguenze sotto il profilo del diritto al risarcimento, come, ad esempio, agli effetti della durata della prescrizione ex art. 2947, comma 3, c.c.
III. Il primo motivo del ricorso incidentale di Bruno Pavan, Matilde Zago, Germana Pavan e Alessandro Pavan censura la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1102 e 1120, dell’art. 2697 c.c. e l’omessa, insufficiente contraddittoria motivazione circa l’abbattimento del muro comune e la discarica di materiali inerti. I ricorrenti incidentali lamentano che l’abbattimento del muro comune e l’installazione del cancello, con lo scarico dei materiali nel pozzo comune, costituiscano innovazione illegittima perché non consentita dal comproprietario Bruno Pavan.
III.1. Il primo motivo del ricorso incidentale è infondato.
La Corte d’Appello, in proposito, ha sostenuto che l’apertura sull’area comune, previo abbattimento del preesistente muretto, di un cancello carraio non avesse mutato la destinazione del sito né avesse limitato l’accesso di Bruno Pavan, svolgendo il cancello la stessa funzione del preesistente muretto. I giudici di appello hanno pure affermato che nessuna prova era stata fornita quanto alla realizzazione di una discarica abusiva da parte di Ermenegildo Pavan.
Inammissibile è il riferimento fatto dai ricorrenti incidentali all’art. 1120 c.c., norma che disciplina le innovazioni nell’ambito del condominio di edifici, laddove la qualificazione del contesto proprietario risultante dalla sentenza impugnata delinea una semplice comunione dell’area comune, e non un condominio, divergendo, peraltro, le due diverse qualificazioni delle situazioni di contitolarità sulla base di accertamenti di fatto non più eseguibili nel giudizio di legittimità.
Vertendosi, allora, in tema di comunione, vale in principio, osservato dalla Corte d’appello, per cui ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un’utilità maggiore e più intensa di quella tratta eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purchè non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso, e senza che tale uso più intenso sconfini nell’esercizio di una vera e propria servitù.
Pertanto, la sostituzione di un muro di confine comune con un cancello non viola ex se l’art. 1102 c.c., trattandosi soltanto di utilizzo più intenso della cosa comune, secondo la sua naturale destinazione (delimitazione perimetrale e protezione/isolamento dell’esterno delle proprietà), che ne consente il pari uso ( cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22341 del 21/10/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4900 del 01/04/2003 ). L’accertare se gli atti e le opere dei singoli condomini, miranti ad un’intensificazione del proprio godimento della cosa comune, siano conformi o meno alla destinazione della cosa comune, in considerazione dei limiti imposti dall’art.1102 c.c., è compito del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se, come nel caso in esame, congruamente motivato.
IV. Il terzo motivo del ricorso incidentale deduce violazione degli artt. 844, 2043, 2697 c.c., nonché degli artt. 112, 113, 114, 115 e 116 c.p.c., e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Si richiama la censura svolta in sede di appello ai sensi dell’art. 112 c.p.c., avendo il Tribunale omesso di pronunciarsi sulla liquidazione del danno patrimoniale, consistente in crepe alle pareti, cedimenti delle terrazze e scorrimenti dei coppi del tetto della casa di Bruno Pavan. I ricorrenti incidentali affermano di aver riproposto m appello le istanze istruttorie all’uopo avanzate in primo grado.
IV.1. Anche il terzo motivo del ricorso incidentale è del tutto privo di fondamento.
La Corte di Venezia ha rigettato l’appello incidentale sul punto dell’omessa pronuncia del Tribunale circa i danni materiali all’immobile affermando che non era stato “dedotto alcun capitolo di prova al fine di dimostrare la presenza nell ‘abitazione dei convenuti di crepe e, in difetto di tale prova, la richiesta consulenza tecnica ha natura meramente esplorativa ed è, pertanto, come tale inammissibile”.
Le censure qui svolte dai ricorrenti incidentali in relazione alle norme sulla ripartizione dell’onere della prova, la disponibilità delle prove e gli astratti criteri di valutazione delle stesse sono inammissibili, secondo quanto già detto prima a proposito delle identiche censure poste dal ricorrente principale.
Del pari inammissibile è la deduzione della violazione dell’art. 112 c.p.c., giacchè l’omessa pronunzia da parte del giudice di merito suppone un difetto di attività, mentre (come appena visto, e come confermano anche le contestuali denunce che i ricorrenti incidentali, con lo stesso motivo, fanno per violazione di norme di diritto sostanziale e per vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c.) la Corte di Venezia ha preso in esame la questione della domanda di danno patrimoniale e l’ha pure risolta giustificando adeguatamente la decisione resa. L’accertata esposizione ad immissioni intollerabili, del resto, non costituisce di per sé prova dell’esistenza di danno agli immobili limitrofi, rimanendo, pertanto, la relativa risarcibilità subordinata all’accertamento dell’effettiva esistenza di una lesione sofferta dalle strutture statiche del fabbricato. D’altro canto, i ricorrenti incidentali, intendendo denunciare la mancata ammissione di deduzioni istruttorie da parte del giudice di merito, finalizzate a dimostrare i danni patrimoniali subiti, avevano l’onere, agli effetti dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse, controllo che la Corte di cassazione dev’essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative.
V. Conseguono il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale. Stante la reciproca soccombenza, le spese del giudizio di cassazione possono essere compensate tra le parti.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale, e compensa per intero tra le parti le spese sostenute nel giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 29 novembre 2016.