SICUREZZA SUL LAVORO. Ruolo e obblighi del RSPP in relazione al DVR. Cassazione Penale n. 39283/2018.

Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 39283 del 30 agosto 2018 (ud. del 5 giugno 2018)

Pres. Piccialli, Est. Bruno

Sicurezza sul lavoro. Infortunio sul lavoro. Scoppio in fabbrica di vernici e morte di quattro operai. Valutazione dei rischi e obbligo di periodico aggiornamento del DVR. Art. 28 d. lgs. n. 81/2008.

Anche nell’ambito temporale ristretto nel quale si sostiene abbia operato il ricorrente (dal febbraio 2000 al giugno 2000) egli, quale soggetto munito di specifica delega in materia di sicurezza, avrebbe avuto il preciso compito di informare la dirigenza delle gravi carenze esistenti nell’impianto, di cui era perfettamente a conoscenza anche in virtù delle pregresse esperienze acquisite presso l’unità operativa, come dimostra il documento di valutazione dei rischi n. 17 del 1999 nel quale veniva formalmente investito della qualifica di RSPP. Quindi, il pur breve periodo messo in rilievo dalla difesa, risulta congruo ai fini della definizione della sua responsabilità, in considerazione delle precedenti conoscenze acquisite dal ricorrente per l’attività espletata nell’azienda, sempre in qualità di responsabile tecnico della unità operativa locale.

In tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro non solo ha l’obbligo di redigere il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, analizzando ed individuando con il massimo grado di specificità – secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica – tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, ma è tenuto anche a sottoporre a periodico aggiornamento il suddetto documento (ex multis Sez. 4, n. 20129 del 10/3/2016, Rv. 267253).
E’ quindi contraria ad ogni logica giuridica la possibilità di concepire un documento di valutazione dei rischi immodificabile.

COMMENTO:

La figura del RSPP ha l’obbligo giuridico di collaborare con il datore di lavoro, con precisa ed esplicita delega di funzioni, per individuare i rischi connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa, fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli ed informando la dirigenza degli inconvenienti dell’impianto, che costituivano un rischio per la sicurezza dei lavoratori. Proprio in relazione a tale attività, è fondamentale che tra l’RSPP ed il datore di lavoro si instauri un legame comunicativo per il quale il primo debba indicare senza ritardi le situazioni di rischio riguardanti l’impianto produttivo, invitando il datore di lavoro ad attivarsi per la risoluzione delle problematiche riscontrate. La precipua posizione di garanzia di entrambi i soggetti, suddivisa per ruolo, rende evidente che la violazione della segnalazione delle problematiche aziendali (nella specie, le misure di sicurezza da adottarsi per il serbatoio dell’impianto), hanno impedito ai vertici aziendali di individuare le criticità del sistema di gestione della sicurezza, sì da poter adottare contromisure per prevenire l’insorgenza di situazioni di pericolo, da introdurre nel Documento di Valutazione dei Rischi.

La verifica concreta della mansione esercitata dal RSPP consente inoltre di evidenziare se lo stesso sia o meno in grado di conoscere e riconoscere le anomalie del sistema di gestione della sicurezza aziendale, anche in relazione alle pregresse esperienze lavorative: ciò senza estendere la questione ad elementi valutativi estranei al fatto concreto, ma per meglio identificare l’aspetto inerente la consapevolezza delle condizioni di rischio potenziale in cui versasse l’impianto produttivo e a cui i lavoratori fossero sottoposti.

Per quanto riguarda il DVR, inoltre, è bene ricordare che tale documento è per sua natura dinamico, non essendo concepibile una sua formulazione in termini immodificabili proprio per la sua intrinseca natura evolutiva, programmatica e quindi duttile. Una tale impostazione non solo è avulsa e lontana dalla stessa concezione e ruolo del documento stesso, ma altresì comporta la necessaria conseguenza che lo strumento di valutazione del rischio aziendale, prescritto dall’art. 28 del d. lgs. n. 81/2008, comprende l’analisi e l’individuazione, con il massimo livello di specificità consentita dal vigente progresso tecnico-scientifico, di tutti i fattori di rischio concretamente ravvisabili nella struttura aziendale, e pertanto è sempre modificabile e migliorabile ogni volta che se ne ravvisi la necessità.

 

Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 39283 del 30 agosto 2018 (ud. del 5 giugno 2018)

Fatto

1. Con sentenza emessa in data 4 ottobre 2016, la Corte d’appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia resa dal Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Afragola, in data 16 dicembre 2012, ha rideterminato la pena inflitta agli imputati I.O.B., B.M., F.R. e B.D. in quella di anni due mesi tre di reclusione ciascuno ed all’imputato R.G. in quella di anni tre di reclusione.
I fatti oggetto del giudizio traggono origine dallo scoppio di un serbatoio (denominato B03) contenente azoto, avvenuto il 13 aprile 2003, collocato nella stabilimento industriale della soc. P.P.G. Industries Italia s.r.l. (denominata brevemente P.P.G.) di Caivano, in seguito al quale decedevano M.F.A.,DS.F., DC.V. (dipendenti della predetta società e addetti alla centrale termica) e M.G., tecnico manutentore della soc. Air Liquide Service (denominata brevemente A.L.).
Gli aspetti più significativi della complessa vicenda illustrati in sentenza, riguardanti le cause dello scoppio ed i profili di responsabilità ravvisati dai giudici di merito a carico degli imputati possono essere così riassunti.
L’incidente si verificava nell’impianto di produzione e stoccaggio di azoto della soc. Air Liquide che era ubicato in un’area recintata posta all’interno dello stabilimento della soc. P.P.G.
L’impianto forniva azoto che era immesso nel gasdotto della stabilimento P.P.G. dove era utilizzato per vari processi chimici ed era composto da un generatore di azoto denominato “AMSA/FLOXAL” che produceva azoto allo stato gassoso. L’azoto prodotto dal generatore confluiva nel serbatoio interessato dallo scoppio, costruito in acciaio e carbonio, destinato a contenere solo azoto gassoso. All’interno di tale serbatoio non confluiva solo l’azoto generato dall’apparecchiatura AMSA/FLOXAL ma anche altro azoto gassoso proveniente da due serbatoi criogenici che conservavano azoto liquido. Prima di essere immesso nel serbatoio B03, l’azoto liquido era sottoposto ad un processo di vaporizzazione in un apposito apparecchio (detto scambiatore o evaporatore) che produceva azoto gassoso di purezza maggiore di quello dell’AMSA-FLOXAL. Lo scambiatore era formato al suo interno da una serpentina nella quale era immesso l’azoto liquido che veniva riscaldato attraverso acqua. Altri elementi dell’impianto risultati significativi per la ricostruzione del fatto erano il regolatore di pressione “Tartarini” ed il suo by-pass. La valvola “Tartarini” aveva la funzione di regolare l’afflusso di azoto tra il vaporizzatore ed il serbatoio.
Quando la soc. P.P.G. richiedeva maggiore azoto nei suoi reparti, superiore alla portata massima del generatore AMSA\FLOXAL, si verificava un progressivo svuotamento del serbatoio-polmone, con il conseguente effetto di una riduzione della sua pressione. Alla maggiore richiesta di azoto si sopperiva con l’azoto proveniente dall’impianto criogenico attraverso il vaporizzatore. Quando la pressione del serbatoio-polmone si abbassava al di sotto del livello- bar prestabilito, si verificava l’apertura del riduttore di pressione Tartarini che consentiva l’afflusso di azoto gassoso dal vaporizzatore. Quando l’aumento di pressione nel serbatoio raggiungeva un determinato livello, la valvola Tartarini si chiudeva impedendo il passaggio di ulteriore azoto gassoso dall’evaporatore. Il regolatore di pressione Tartarini era dotato di un by pass, munito di valvola di intercettazione, che permetteva comunque il passaggio di azoto gassoso anche in caso di scollegamento del regolatore di pressione.
Secondo la ricostruzione offerta dai giudici di merito in ordine alle cause dello scoppio, l’esplosione del serbatoio fu una conseguenza del ghiacciamento del vaporizzatore.
Sulla base degli elementi emersi nel corso della complessa istruttoria, confortati dalla consulenza del P.M., la Corte territoriale, conformemente al primo giudice, ha ritenuto che la causa dell’incidente dovesse essere ricercata nel cattivo funzionamento dell’evaporatore che era deputato a trasformare l’azoto liquido in gassoso. In ragione dell’eccessivo afflusso di azoto liquido nel vaporizzatore si verificò un progressivo ghiacciamento dell’evaporatore e della valvola “Tartarini” che determinò l’Ingresso di azoto liquido nel serbatoio, ad una temperatura stimata intorno a -160°/-170°. Il serbatoio B03 che era stato progettato per contenere materiale ad una temperatura non inferiore a -10 gradi, subì un cedimento strutturale dovuto al depositarsi sul fondo della sostanza liquida che si trovava ad una temperatura di molto inferiore a quella sopportabile per la struttura.
I giudici della cognizione hanno condiviso la impostazione accusatoria ed i profili di responsabilità descritti nelle imputazioni elevate a carico degli imputati, tutti esponenti di vertice della società Air Liquide e responsabili della unità tecnica operativa locale.
Alla luce delle emergenze processuali e sulla base degli apporti tecnici e scientifici ricavati dalla consulenza svolta dall’Ing. L.F. e dal Prof. P.C., consulenti nominati dal P.M., i giudici di merito hanno ritenuto che l’aspetto critico nella gestione della sicurezza da parte dei soggetti garanti, fosse da ricercare nella natura ibrida dell’impianto di produzione dell’azoto e nella mancanza di adeguati sistemi di allarme ed accorgimenti atti a segnalare ed impedire il passaggio dell’azoto liquido nel serbatoio-polmone. Ciò era risultato evidente anche in considerazione di precedenti episodi, richiamati nelle sentenze di merito, in occasione dei quali si era già verificato il ghiacciamento dell’evaporatore, della valvola Tartarini e di parte dello stesso serbatoio.
Tali episodi di “ghiacciamento” erano accaduti il 25 dicembre 1997 ed il 13 agosto 2002. In ordine al primo episodio, verificatosi quando già era installato il sistema Floxal, è stata raccolta in dibattimento la testimonianza di I.D., responsabile della manutenzione degli impianti della P.P.G., che ha dichiarato che il ghiacciamento era stato completo, avendo interessato l’evaporatore e tutto il sistema a valle. Era stata avvertita in tale occasione la soc. A.L. che aveva “suggerito” di usare acqua per riscaldare il blocco di ghiaccio che si era formato. Quanto all’episodio del 13 agosto del 2002, dal rapporto di intervento redatto da S.N., è emerso che si era verificato il ghiacciamento dell’evaporatore, della valvola Tartarini (trovata ghiacciata e aperta) ed anche di metà serbatoio B03. La causa del ghiacciamento era stata individuata nella mancanza di afflusso di acqua nel vaporizzatore.
Secondo i giudici di merito i predetti episodi avrebbero dovuto costituire per la società A.L. un grave e significativo campanello di allarme di una situazione di alto rischio che, tuttavia, non indusse ad adottare alcun intervento risolutivo.
2. In ordine alle singole posizioni ed ai profili di responsabilità individuati a carico di ciascun imputato, salvo quanto si dirà in modo particolareggiato in prosieguo, la Corte di merito ha posto in evidenza i seguenti aspetti.
Con riferimento ad I.O.B., Direttore Generale della soc. Air Liquide Italia a fare data dal 1999, la Corte territoriale, conformandosi alla decisione del primo giudice ha ritenuto di rilevante importanza ai fini della pronuncia di responsabilità dell’imputato la procura conferitagli in data 27 giugno 2001 allorquando, fermi restando i poteri inerenti alla carica di Direttore generale, gli erano stati attribuiti specifici compiti di vigilanza e di controllo in materia di sicurezza sul lavoro. Tale previsione, in assenza di deleghe conferite ad altri, avrebbe determinato il suo diretto coinvolgimento nei fatti, avendo egli assunto una posizione di garanzia che gli avrebbe imposto di sollecitare o disporre autonome verifiche sulla sicurezza dell’impianto.
Con riferimento alla posizione di R.G., la Corte stessa ha evidenziato come costui, in qualità di direttore e responsabile della struttura territoriale interessata dallo scoppio del serbatoio, godesse di ampia autonomia gestionale, anche in relazione ad aspetti relativi alla sicurezza degli impianti e prevenzionistici, essendogli state conferite espresse deleghe in materia (tra cui quella rilasciatagli in data 27 settembre 1995 che attribuiva al R.G., nell’ambito delle mansioni assegnategli, pieni poteri gestionali, autonomia finanziaria ed una delega in materia di sicurezza sul lavoro del tutto analoga a quella conferita al direttore di divisione). In qualità di datore di lavoro e responsabile dell’unità operativa di Napoli, relativamente all’impianto esistente presso la P.P.G. di Caivano, aveva redatto e sottoscritto in data 20\6\99, in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, F.R., il documento di valutazione dei rischi, ai sensi dell’allora vigente art. 4 d.lgs 626\94, nell’ambito del quale il rischio scoppio per bassa temperatura veniva ritenuto “non credibile” e, pertanto, fortemente sottovalutato.
Ha rilevato la Corte territoriale che il R.G. si era astenuto dall’effettuare una qualunque attività di verifica, interlocuzione e controllo circa le esigenze manutentive insorte nell’impianto, trascurando in particolare di valutare le implicazioni delle frequenti interruzioni del sistema AMSA-FLOXAL, più volte verificatesi nel corso del funzionamento dell’impianto. Ha evidenziato altresì che il R.G. non si era attivato per interessare i vertici dell’azienda in ordine agli inconvenienti rilevati nell’impianto ed al disuso dell’unico elemento dì allarme di bassa temperatura collegato ad esso, oggetto di specifica segnalazione, risalente all’ottobre 2002, effettuata dal tecnico M.G., deceduto nel tragico evento.
Con riferimento alla posizione di F.R. e B.D. la Corte di merito ha evidenziato come costoro, in qualità di tecnici responsabili dell’unità operativa, essendo referenti diretti dei rapporti di manutenzione ed organizzatori delle attività che riguardavano gli interventi tecnici da operarsi sull’impianto per mantenerlo in condizione di efficienza, avrebbero dovuto segnalare ai superiori le caratteristiche degli interventi che venivano eseguiti sull’impianto, onde consentire un adeguato monitoraggio del suo funzionamento, tanto più che erano emerse ripetute necessità di taratura della valvola e blocchi frequenti del sistema AMSA FLOXAL, durati anche molte ore.
Quanto alla posizione di B.M., quale Direttore dell’Attività Gas e Servizi della Soc. A.L. Italia srl, si evidenzia in sentenza che il predetto aveva sottoscritto la “Convenzione di fornitura per azoto floxal” stipulata tra la A.L. e la P.P.G. il 10 maggio 1996. Tale convenzione prevedeva la duplice modalità di produzione dell’azoto, destinato a confluire nel medesimo serbatoio-polmone, il quale tuttavia era strutturalmente inidoneo a sopportare temperature inferiori ad una determinata soglia, poiché realizzato in acciaio al carbonio e non in acciaio inossidabile. L’affermazione di responsabilità pronunciata a suo carico è stata ricondotta alla posizione di garanzia derivante dalla delega allo stesso conferita in data 24 giugno 1994, in ragione della quale, le unità operative locali, tra cui quella di Napoli, rispondevano al predetto. Tale delega prevedeva in capo al B.M. anche poteri di controllo in materia di sicurezza.
3. Avverso la sentenza di condanna hanno proposto ricorso per Cassazione gli imputati, a mezzo dei rispettivi difensori.
Gli imputati , direttore generale della Soc. Air Liquide Italia s.r.l., e B.D., responsabile tecnico dell’unità operativa di Napoli della medesima società, hanno proposto separati ricorsi nei quali tuttavia sono contenuti motivi di doglianza comuni. Tali motivi possono essere riassunti come segue.
3.1 Con il primo motivo di ricorso, la difesa deduce la indeterminatezza del capo di imputazione evidenziando violazione di legge per inosservanza dell’art. 429, comma primo, lett. c) cod. proc. pen., tempestivamente eccepita innanzi al giudice di primo grado che l’aveva rigettata e riproposta innanzi alla Corte d’appello.
Si legge nell’atto di ricorso che il capo A) della imputazione del decreto di citazione a giudizio per il quale è stata confermata la pronuncia di condanna di primo grado a carico di entrambi i ricorrenti, vedeva originariamente imputati 14 soggetti “ciascuno nella rispettiva qualità sopra indicata”. Tali qualità, tuttavia, non erano specificate, per cui non era possibile evincersi quali cariche o mansioni avessero ricoperto e svolto. Tale omissione appare particolarmente grave e pregiudizievole per i diritti della difesa, considerato che neppure una lettura complessiva delle imputazioni consente di comprendere, secondo la prospettazione difensiva, a quale titolo le numerose violazioni delle norme antinfortunìstiche, indistintamente contestate a tutti gli imputati, siano riferibili a ciascuno.
La Corte d’appello aveva ritenuto di superare l’eccezione affermando che si trattava di qualità ben note a ciascun imputato, anche in relazione alla durata della carica. Quanto poi ai profili di colpa, gli stessi sarebbero stati portati a conoscenza dei ricorrenti in quanto, ciò che rileva ai fini dell’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato sia stato posto in condizione di conoscere tutti gli estremi dei comportamenti colposi evincibili dagli atti processuali.
Tale motivazione, secondo la difesa, sarebbe del tutto illogica e sarebbe stata assunta in violazione di legge. Non è sostenibile, si legge nei ricorsi, che la conoscenza delle proprie qualità e funzioni aziendali da parte degli imputati, sopperisca al criterio normativo della enunciazione in forma chiara e precisa del capo di imputazione. La indicazione del fatto contestato e delle qualità personali dell’imputato, è atto che compete all’Accusa e che deve essere adeguatamente esplicitato, non potendo pretendersi che alla sua mancanza debba supplire lo stesso imputato.
La Corte d’appello ricorrerebbe ad un fallace criterio di risoluzione della questione, affermando che si versa in un caso di errore materiale, poiché le qualità degli imputati erano riportate nella richiesta di rinvio a giudizio e non erano state trascritte nel decreto che dispone il giudizio. A tale errore avrebbe posto rimedio il P.M., facendo legittimamente ricorso all’art. 516 cod. proc. pen.
Ebbene, secondo la difesa, tale assunto non sarebbe condivisibile: il tentativo di sanare il decreto di citazione nullo attraverso l’espediente della modifica integrativa del capo di imputazione oltre a configurarsi come atto abnorme, rivelerebbe la incompletezza originaria del decreto di citazione a giudizio. Innanzi a tale incompletezza, il giudice, in ossequio all’art. 429, comma 2, cod. proc. pen., avrebbe dovuto restituire gli atti al giudice dell’udienza preliminare applicando la disciplina dettata dagli artt. 177 e seguenti cod. proc. pen.
Con riferimento all’art. 516 cod. proc. pen., ricorda la difesa, la Corte di cassazione, con sentenza n. 23832 del 12/5/2016, ha escluso che davanti al giudice del dibattimento possa trovare applcazione tale disciplina in presenza di una eccezione riguardante la indeterminatezza del capo di imputazione, sanzionata con la nullità dall’art. 429 comma 2, cod. proc. pen.
Si fa poi osservare, con particolare riferimento alla posizione di B.D. che, anche a seguito della modifica dell’imputazione avvenuta ad opera del P.M. ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen., permane la condizione di indeterminatezza del capo di imputazione, non essendo stato precisato l’ambito temporale nel quale il B.D. avrebbe rivestito la posizione aziendale oggetto di contestazione.
3.2 Con il secondo motivo, la difesa deduce vizio motivazionale, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità delle argomentazioni poste a sostegno della ricostruzione dell’incidente occorso.
Secondo la prospettazione difensiva lo scoppio del serbatoio si sarebbe verificato non a causa di un malfunzionamento del vaporizzatore V 1000, come si legge nel capo di imputazione, ma a causa di una utilizzazione del vaporizzatore al di sopra delle sue capacità di riscaldamento, avvenuta attraverso un consumo eccessivo e del tutto straordinario dell’azoto proveniente dalla linea criogenica, da parte della società P.P.G.
Tale elevatissimo consumo avvenne attraverso la manomissione della valvola Tartarini con apertura del by pass di cui la valvola era dotata. L’intervento modificò radicalmente l’impostazione di funzionamento dell’impianto vanificando le misure di prevenzione e protezione che erano state adottate da parte dei responsabili dell’azienda.
Tali aspetti, mal valutati dai giudici di merito, avrebbero avuto, secondo la prospettazione difensiva, una incidenza determinante sul legame causale tra le condotte contestate nel capo di imputazione e l’evento per cui è processo.
Sul punto, la Corte d’appello avrebbe espresso una motivazione insoddisfacente, escludendo l’ipotesi della manomissione sulla base della semplice considerazione che essa sarebbe “contraria ad ogni logica” e sottraendosi all’applicazione di un adeguato giudizio controfattuale.
I giudici di merito, in modo illogico ed arbitrario, avrebbero eliminato le specifiche cause prospettate dalla difesa nella ricostruzione del determinismo dell’evento, rendendo viziata ab origine la costruzione di tutto il ragionamento seguito.
Nel dettaglio, avrebbero trascurato di considerare che il Comandante dei Vigili del Fuoco, incaricato della messa in sicurezza dell’impianto, aveva riferito che non era stata riscontrata alcuna avaria del vaporizzatore (l’impianto, una volta scongelato, aveva ripreso a funzionare senza alcun intervento di riparazione) e che, dopo l’incidente il riduttore di pressione era stato ritrovato con i bulloni di serraggio allentati, tanto da potere essere ruotati senza l’ausilio di alcuna attrezzatura.
Di qui la conseguenza logica di un intervento umano volontario diretto a manomettere l’impianto.
3.3 Con il terzo motivo la difesa deduce la inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 40, comma primo e 41, comma secondo, cod. pen. poiché la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione, nella ricostruzione causale dell’evento, le manomissioni intervenute sull’impianto incidentato. La difesa rileva che le argomentazioni riportate alle pagine 78-81 della sentenza impugnata riprendono il ragionamento seguito dal giudice di primo grado, richiamando massime della giurisprudenza di legittimità in base alle quali il giudice non sarebbe tenuto, nell’accertamento del nesso di derivazione causale, a dare conto delle fasi intermedie attraverso le quali la causa abbia prodotto il suo effetto.
Tali argomentazioni, rileva la difesa, per essere valide, dovrebbero avere come premessa logica indispensabile, la prova certa della esclusione della ipotesi di un intervento di manomissione dell’impianto. Diversamente, il Tribunale e la Corte d’appello applicherebbero un giudizio controfattuale erroneo, perché falsato dalla selezione di antecedenti non corretti. Ammettendo che sia intervenuta la sregolazione volontaria della valvola Tartarini e l’apertura volontaria del by pass, la valutazione dell’efficienza causale delle condotte dei ricorrenti rispetto al tragico evento avrebbe dovuto sortire un altro esito logico: l’accertata presenza di interventi manomissivi sull’impianto costituirebbe una causa idonea ad interrompere il nesso causale tra la mancata adozione dei rimedi e degli accorgimenti imputati ai ricorrenti e l’evento verificatosi.
3.4 Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano inosservanza ed erronea applicazione deil’art. 43 cod. pen.
La Corte di appello afferma che l’evento si sarebbe potuto evitare ove si fosse provveduto ad adottare determinate misure tese a prevenire il rischio delle basse temperature. Anche in questo caso, ove si ritenga di non escludere la ipotesi della manomissione, il ragionamento seguito dal giudice diverrebbe non sostenibile. La manomissione, invero, sarebbe un evento del tutto imprevedibile e connotato da un carattere di assoluta straordinarietà.
3.5 Con il quinto motivo la difesa di I.O.B. deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, trattando della posizione di garanzia del ricorrente, afferma la sua responsabilità sul presupposto di un’assenza di delega di funzioni da parte dello stesso, delega che invece sarebbe esistita.
Il ragionamento seguito dalla Corte sarebbe incoerente in quanto, da un lato, richiama il dovere del ricorrente di organizzare ed assicurare la verifica delle macchine disponendo a tale fine i dovuti controlli preventivi, e, dall’altro, assume la omissione di tali controlli. Tali affermazioni sarebbero in contraddizione con quanto sostiene la stessa Corte territoriale nella parte in cui conferma la esistenza di presidi di funzionamento che assistevano il sistema in caso di carenza idrica elettrica e con riferimento alla mancata comunicazione delle unità operative di evenienze critiche dell’impianto: la mancata osservanza delle regole di comunicazione da parte dell’unità locale avrebbe di fatto reso inoperante la posizione di garanzia.
Quanto alla ritenuta inesistenza di deleghe di funzioni con riferimento alla sicurezza e alla vigilanza dell’impianto, la difesa del ricorrente I.O.B. rileva che dalla compiuta istruttoria era emerso che il ricorrente, subentrato a D.R. nella funzione di direttore generale, aveva constatato la preesistenza di deleghe in materia di prevenzione e sicurezza che aveva inteso fare proprie.
3.6 Sesto motivo, comune ad entrambi i ricorrenti, riguarda il mancato riconoscimento dell’attenuante del risarcimento del danno. Sul punto la difesa evidenzia come la Corte territoriale abbia erroneamente ritenuto che il risarcimento sia stato posto in essere solo in favore dei congiunti della vittima M.G..
E’ inoltre avversata la interpretazione secondo la quale non sarebbe riconoscibile l’attenuante del risarcimento perché l’esborso delle somme non avvenne ad opera dei ricorrenti ma della società assicuratrice. Tale interpretazione si porrebbe in contrasto con gli insegnamenti delle Sezioni Unite (sent. n. 5941/2009).
Da ultimo, i due ricorrenti, in data 18/5/2018, depositavano memorie difensive nelle quali si richiamavano ai principali motivi di ricorso, riepilogandoli.
4. In favore di F.R., nella qualità di responsabile tecnico dell’unità operativa e R.S.P.P. sono state dedotte censure che possono riassumersi come segue.
4.1 Nel primo motivo di ricorso, la difesa dopo avere premesso che il profilo di responsabilità ravvisato a carico del ricorrente si è sostanziato nella circostanza che il F.R. non comunicò alla dirigenza le situazioni di rischio nell’impianto di Caivano in qualità di R.S.P.P., evidenzia come la Corte territoriale, nel definire la responsabilità del ricorrente, abbia fatto riferimento ad un ambito temporale (quello del giugno 1999, a cui risale il documento di valutazione rischi n.17), diverso rispetto a quello del capo di imputazione, che riguarda il periodo successivo al 14 febbraio 2000. Da qui deriverebbe un difetto di correlazione tra accusa e sentenza suscettibile di inficiare la decisione assunta dalla Corte territoriale.
4.2 Nel secondo motivo di ricorso la difesa lamenta un vizio di motivazione, sotto il profilo della contraddittorietà e della carenza motivazionale, rappresentando che il proprio assistito era rimasto del tutto estraneo ai due episodi citatati in sentenza occorsi nell’anno 1997 e 2002.
Fa osservare la difesa che i documenti di valutazione rischi acquisiti al fascicolo erano predisposti dalla Direzione rischi e non erano modificabili; la funzione di R.S.P.P. attribuita al responsabile era palesemente in contrasto con le disposizioni previste in materia di sicurezza dal D.lgs. 626/94 perché, di fatto, attribuivano al controllato il ruolo di controllore.
La sentenza impugnata cadrebbe in errore nella parte in cui, sposando la tesi del primo giudice, assume che la Air Liquide aveva ritenuto il rischio scoppio per basse temperature non credibile e, soprattutto, dove afferma che tale aspetto era desumibile dal documento valutazione rischi del 20 giugno 1999, sottoscritto da Giuseppe R.G., nel quale era attribuita al F.R. la qualifica di R.S.P.P.
Tale conclusione sarebbe frutto di un acritico recepimento ad opera della Corte di appello di una deduzione errata e scollata dal dato documentale che invece attesterebbe il contrario.
Il rischio di scoppio era invece contemplato nel D.V.R., sebbene non specificamente collegato alle basse temperature.
4.3 Nel terzo motivo il ricorrente deduce la mancata assunzione di una prova decisiva. La difesa aveva chiesto di acquisire presso gli uffici della Soc. Air Liquide documentazione utile per chiarire la posizione di garanzia del F.R., con particolare riferimento alla tipologia dell’incarico acquisito ed alla sua durata. La circostanza era rilevante avendo egli svolto le mansioni di R.S.P.P. per pochissimi mesi, antecedenti di oltre tre anni rispetto ai fatti per cui è processo. La Corte territoriale autorizzava l’acquisizione ma la documentazione non era reperita presso la Società, che manifestava di non potere dare corso alla richiesta della parte. La Corte d’appello, dopo avere mostrato interesse all’acquisizione di tale documentazione, all’udienza del 2/2/2016, acquisito il parere negativo del P.M., riteneva non necessaria tale documentazione per la decisione, rigettando la richiesta.
Tale passaggio, afferma la difesa, è frutto di una evidente contraddizione logica. Inoltre, nella motivazione, dove è approfondito l’argomento del rigetto non si cita il F.R. ma solo l’imputato R.G..
4.4 Quarto motivo: mancata assunzione di una prova decisiva. Con specifico motivo di appello la difesa aveva chiesto alla Corte territoriale di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale per conferire incarico di perizia sulle cause dello scoppio e sulla eventuale esistenza di interventi di manomissione dell’impianto. Sul punto la Corte d’appello non si era pronunciata.
4.5 Quinto motivo: violazione di legge in relazione agli artt. 61, 62, 62-bis, 69 cod. pen.
La difesa si duole del mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. affermando che la motivazione espressa dalla Corte territoriale sul punto doveva ritenersi erronea, perché adottata in aperto contrasto con la decisione assunta dalla Corte Costituzionale (sent. N. 138/1998) che, sgombrando il campo da qualunque finalità rieducativa della norma, aveva affermato che l’attenuante prescinde dall’atteggiamento psicologico del reo e da ogni profilo volontaristico dell’imputato. Fa poi osservare che tale risarcimento aveva riguardato tutte le persone lese, come risultava dalle quietanze in atti.
Sempre con riferimento al trattamento sanzionatorio, la difesa si duole del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in rapporto di prevalenza rispetto alle aggravanti affermando che la decisione del diniego è fondata su una motivazione del tutto inadeguata.
5. La difesa di R.G., ha avanzato motivi di ricorso del tutto analoghi a quelli proposti in favore di F.R..
5.1 Nel primo motivo lamenta carenza e contraddittorietà della motivazione risultante dagli atti del procedimento. La Corte d’appello, afferma la difesa, aveva ritenuto il R.G. responsabile di avere del tutto trascurato, in qualità di datore di lavoro, il rischio dello scoppio del serbatoio collegato alle basse temperature, evidenziando che nel documento di valutazione del rischio, redatto e sottoscritto in data 20.06.1999 dal ricorrente, tale rischio veniva ritenuto “non credibile”.
L’assunto, secondo la difesa, sarebbe inesatto. I modelli di valutazione del rischio menzionati e acquisiti agli atti, erano documenti “standard”, appositamente predisposti dalla Direzione Rìschi, che andavano compilati unicamente in talune parti (quali, ad esempio, quelle riguardanti il nominativo dei preposti locali), senza alcuna possibilità di essere modificati nei contenuti. Inoltre, rileva la difesa, alla scheda in questione non poteva attribuirsi il valore di un documento di valutazione dei rischi per l’impianto Floxal e per il gruppo serbatoio-vaporizzatore: sulla base della organizzazione aziendale la valutazione del rischio suddetto era al di fuori delle competenze e delle responsabilità delle funzioni incaricate a livello locale.
Sebbene nella scheda di valutazione del rischio n. 17 del 20 giugno 1999, non si faccia menzione di un rischio da “scoppio per basse temperature”, tuttavia, afferma la difesa, l’evento oggetto del presente procedimento, era riconducibile ad uno scoppio determinato dalla pressione, causato dal cedimento della struttura del serbatoio per infragilimento da freddo. Lo “scoppio”, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, era tra i pericoli contemplati dal DVR con il massimo grado di valutazione. Per quanto riguarda invece il pericolo dovuto al “freddo”, esso era previsto con riferimento alla possibilità che un operatore potesse venire in contatto con superfici, sostanze e atmosfere fredde. Tale ultimo pericolo era stato valutato di grado medio. Pertanto, il rischio richiamato dalla Corte territoriale (“scoppio per basse temperature”), benché non menzionato nella scheda di valutazione del 20/6/1999, poteva essere ricondotto alla concomitante presenza dei due rischi riportati nella scheda (alto rischio di scoppio dovuto alla pressione, medio rischio per il contatto con atmosfere fredde). Ne deriverebbe l’erroneità dell’assunto della Corte territoriale secondo il quale il rischio scoppio da basse temperature non era stato valutato dal ricorrente.
5.2 Nel secondo motivo di ricorso, analogamente a quanto evidenziato per il F.R., la difesa del R.G. si duole della mancata rinnovazione della istruttoria dibattimentale finalizzata all’acquisizione di documentazione esistente presso la società, idonea a meglio definire la posizione di garanzia dell’imputato. Con tale documentazione la difesa intendeva dimostrare che R.G., pur se responsabile di profili commerciali e dì sicurezza con riferimento alla produzione ordinaria dell’Air Liquide, era, invece, esente da responsabilità quanto al controllo ed alla vigilanza che riguardavano le produzioni e le applicazioni non standard, che ricadevano sotto l’esclusivo controllo della Divisione Floxal. Gli aspetti afferenti alla sicurezza dell’impianto di Caivano interessato dalla esplosione gli erano estranei, occupandosi R.G., per conto dell’Air Liquide, della sola parte commerciale: la parte progettuale, di impiantistica e di sicurezza era sotto la diretta responsabilità della Divisione Floxal che si avvaleva a tal fine di specialisti.
Evidenzia la difesa, come già sostenuto in favore di F.R. e con identiche argomentazioni, la contraddittorietà della decisione della Corte territoriale di rigettare la richiesta di acquisire d’ufficio la suddetta documentazione, dopo avere mostrato interesse ad essa, accordando alla difesa un rinvio per consentirne la produzione a cui non era stato possibile dare seguito, stante il rifiuto opposto dalla società al rilascio della copia degli atti.
5.3 Con il terzo motivo la difesa si duole della mancata assunzione di una prova decisiva, rappresentata dallo svolgimento di una perizia sulle cause dell’incidente, finalizzata all’approfondimento dell’aspetto riguardante eventuali interventi di manomissione sull’impianto. Deduce che la Corte territoriale non si era pronunciata su tale richiesta.
5.4 Con il quarto motivo lamenta violazione di legge per la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in rapporto di prevalenza sulle contestate aggravanti e la mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen., sulla base di argomentazioni del tutto analoghe a quelle espresse nel ricorso in favore di F.R..
6. La difesa di B.M., Direttore dell’attività Gas e servizi della A.L. Italia e firmatario della stipula della convenzione con la soc. P.P.G., articola i seguenti motivi di ricorso.
6.1 Con il primo motivo lamenta vizio di motivazione, deducendo la contraddittorietà della motivazione assunta dalla Corte territoriale che fonda la responsabilità del ricorrente sulla mancata considerazione dei rischi derivanti dalle possibili interferenze tra i due tipi di produzioni di azoto e sull’assenza di un progetto dell’impianto idoneo ad eliminare ogni forma di pericolo collegata al funzionamento ibrido.
Il giudice, attraverso ampi richiami alle argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado, ritiene che il B.M., nel momento in cui sottoscrisse la convenzione in rappresentanza della Air Liquide Italia s.r.L, nel maggio 1996, non si assicurò che il progetto dell’impianto escludesse il rischio che l’azoto liquido confluisse nel serbatoio provocandone il cedimento. L’assunto dei giudici di merito, secondo la difesa, si fonderebbe su un ragionamento fallace. In sentenza si afferma che, poiché il serbatoio dell’impianto non aveva resistito alle basse temperature dell’azoto liquido, il B.M. avrebbe dovuto provvedere, al momento della stipula della convenzione (o almeno fino a quando egli non rassegnò le dimissioni), affinchè il serbatoio avesse caratteristiche di resistenza adeguate alla evenienza di una immissione di azoto liquido al suo interno. A tal riguardo la difesa rileva che è la stessa sentenza impugnata a prendere atto dell’esistenza di altri tre impianti analoghi in Campania che prevedono un serbatoio polmone solo per l’azoto autoprodotto proveniente dall’impianto Amsa, mentre per quello gasificato è prevista la diretta immissione nella rete di distribuzione dell’utente (come previsto dallo schema semplificato e nell’elaborato di progetto alternativo presente sul sito internet della società).
La circostanza dimostrerebbe che si potevano realizzare impianti sicuri senza necessariamente utilizzare un serbatoio polmone resistente alle basse temperature dell’azoto liquido e che, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di merito, la fase della realizzazione degli impianti utilizzati dalla A.L. Italia era determinante per escludere concretamente la confluenza dell’azoto liquido nel serbatoio polmone.
Nel ricorso, si evidenziano poi ulteriori aspetti asseritamente mal interpretati dalla Corte territoriale, che possono sintetizzarsi come segue.
La difesa non ha mai voluto dimostrare che vi era differenza tra ciò che era stato progettato e ciò che fu realizzato. Ha invece sostenuto che progettazione ed installazione sono due fasi ontologicamente diverse. Nel caso in esame si era progettato di fare convivere due diversi sistemi di forniture di azoto gassoso, ma la loro “convivenza” poteva essere resa sicura solo nel momento della fase della realizzazione dell’opera da parte di coloro che erano preposti a questa attività e non all’atto della stipula della convenzione di fornitura.
Anche valutando la questione sotto il profilo della diligenza dovuta (e quindi comprendendo anche la previsione dell’art. 2087 cod.civ.), risulterebbe errato affermare che, per escludere ogni rischio, si sarebbe dovuto prevedere l’utilizzazione di un serbatoio resistente alla temperatura dell’azoto liquido perché, in tal modo, si dovrebbero ritenere fuori norma anche gli altri tre impianti della Soc. A.L.
6.2 Secondo motivo: violazione dell’art. 16 d.lgs. 81/2008 e dei suoi principi applicativi. Contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza di un obbligo di garanzia in ragione della delega ricevuta dal ricorrente.
La Corte territoriale, afferma la difesa, fa discendere la responsabilità del B.M., nella sua qualità di Direttore dell’azienda A.L., dalla delega conferitagli in data 24/6/1994 in ragione della quale le 18 Unità Operative locali, tra cui quella di Napoli, rispondevano al ricorrente. Tuttavia, osserva la difesa, quando l’impianto fu installato, l’imputato non era più dirigente della società Air Liquide Italia, avendo lasciato tale incarico in data 17/2/1997. Pertanto, egli si trovava nella impossibilità oggettiva di svolgere la funzione (delegata) di ricevere le risposte e le segnalazioni da parte delle Unità operative. In ordine al contenuto delle delega la Corte territoriale, dopo aver descritto la struttura organizzativa della società, evidenzia che B.M. aveva ricevuto un’ampia delega in materia di sicurezza dovendo egli “controllare e provvedere affinchè tutte le normative in materia di sicurezza … siano rigorosamente rispettate e così tra l’altro la rispondenza degli impianti e segnalazioni antinfortunistiche alle norme vigenti e alle regole della buona tecnica: provvedere direttamente all’acquisto dei dispositivi antinfortunistici… o comunque segnalare la loro necessità agli organi preposti … organizzare e promuovere la massima informazione dei lavoratori in ordine alle norme di sicurezza e … agii eventuali rischi connessi alla lavorazione cui possono essere esposti … sviluppare ogni azione inerente alle previdenze antinfortunistiche nell’ambito delle unità'”. Tuttavia, evidenzia la difesa, si tratta di attività intrinsecamente collegate alla preesistenza di un impianto ed alla sua messa in funzione. Il B.M., che aveva dato le dimissioni nel febbraio 1997, allorquando l’impianto non era stato ancora realizzato, non avrebbe potuto attuare le direttive presenti nella delega in materia di sicurezza, diversamente dal R.G. (Datore di lavoro e responsabile dell’U.O. di Caivano) che, all’epoca dei fatti, era destinatario di una delega del tutto analoga a quella di B.M. ed in grado di esercitare effettivamente i poteri che gli erano stati attribuiti in materia di sicurezza.
6.3 Terzo motivo: violazione dell’art. 43 cod. pen. e motivazione contraddittoria in ordine alla prevedibilità dell’evento. Il giudice d’appello sostiene che i precedenti episodi di ghiacciamento del vaporizzatore avrebbero dimostrato che questo non fosse in grado di riscaldare adeguatamente l’azoto liquido. Tale assunto, secondo la difesa, si pone in evidente contrasto con la situazione di fatto, posto che il B.M. era uscito dalla società ben prima che si verificassero i precedenti evocati in sentenza. Dunque, per il ricorrente, essi non possono rappresentare un presupposto della prevedibilità dell’evento.

Diritto
1. I motivi di doglianza proposti nell’interesse di R.G., F.R. e B.D. risultano infondati: i rispettivi ricorsi devono essere pertanto rigettati.
Diversa valutazione va fatta invece con riferimento alle posizioni di I.O.B. e B.M. per i quali si impone, per le ragioni che saranno di seguito illustrate, l’annullamento della impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli per nuovo esame.
Prima di andare oltre nella disamina dei motivi di impugnazione proposti da ciascun ricorrente, occorre rilevare come la Corte territoriale abbia offerto una ricostruzione logica dei fatti e delle cause dello scoppio del serbatoio, ampiamente supportata dai dati tecnici e scientifici ricavati dalla consulenza espletata in fase di indagini dai consulenti nominati dal P.M., professori L.F. e P.C., rendendo ampia e convincente motivazione dell’affidabilità dell’esito di tale elaborato.
E’ piuttosto evidente come tale aspetto, su cui si appuntano le critiche difensive di taluni ricorrenti, in particolare degli imputati I.O.B. e B.D., costituisca la necessaria premessa logica di ogni successivo sviluppo argomentativo riguardante la individuazione delle condotte colpose degli imputati ed il nesso di causalità con l’evento verificatosi.
Appare quindi opportuno nella disamina del fatto e nella scansione della trattazione dei motivi di impugnazione, prendere le mosse dall’esame dei ricorsi di I.O.B. e B.D., che richiamano l’attenzione di questa Corte su possibili alternative cause dello scoppio, da individuarsi, secondo le prospettazioni difensive, in una manomissione della valvola di chiusura che consentiva l’accesso dell’azoto liquido proveniente dall’impianto criogenico al serbatoio interessato dallo scoppio.
2. Come si è detto in precedenza i ricorrenti I.O.B. e B.D. sostengono, con motivi di ricorso del tutto speculari (illustrati nel motivo secondo dei rispettivi atti di impugnazione), che la causa dello scoppio del serbatoio non andrebbe individuata nel cattivo funzionamento del vaporizzatore V1000 ma nella manomissione del riduttore di pressione Tartarini e nell’apertura volontaria del by pass di cui lo stesso era dotato.
Ebbene, tale evenienza è stata considerata dalla Corte territoriale ed esclusa con una motivazione precisa e coerente sul piano logico, del tutto immune dai vizi denunciati dalla difesa. Nella sentenza si afferma che non si individuano ragioni giustificative di tale manomissione e che la ipotesi prospettata dalla difesa secondo la quale si sarebbe verificata una improvvisa impennata dei consumi di azoto da parte della società servente P.P.G., nella notte dell’incidente, sarebbe risolutamente da escludersi. Fa notare sul punto la Corte territoriale che lo scoppio è avvenuto nella notte tra il sabato e la domenica, allorquando i reparti della soc. P.P.G. che usufruivano dell’azoto erano tutti chiusi, ad eccezione di quello che si occupava della produzione delle resine. Era quindi da escludersi la ipotesi ventilata dalla difesa di un incremento improvviso del fabbisogno di azoto da parte della società P.P.G. e di una manomissione volontaria della valvola finalizzata evidentemente a consentire maggiore afflusso di azoto nel serbatoio.
Ad ogni modo la Corte territoriale correttamente evidenzia come l’impianto versasse in una condizione di alto rischio, essendo del tutto sfornito di idonei presidi di sicurezza atti a rilevare e segnalare l’ingresso di azoto liquido nel serbatoio. Quindi, anche a volere ammettere la ipotesi della manomissione sostenuta dalla difesa, se fossero stati adottati tali presidi di rilevamento e di allarme, ci sarebbe stata la possibilità di intervenire tempestivamente e di scongiurare l’evento dello scoppio.
In proposito, particolarmente degne di nota appaiono le considerazioni svolte dalla Corte territoriale a pagina 79 della sentenza impugnata, in cui si legge: “L’impianto è risultato privo: – di un sistema di blocco di prelievo di azoto liquido dai serbatoi criogenici, in caso di malfunzionamento dei vaporizzatore idrico; – di una valvola di regolazione sulla mandata dello scambiatore, volta ad impedire che lo scambiatore fosse utilizzato ai di sopra delle sue prestazioni; – di componenti di sicurezza che, nell’eventualità di un malfunzionamento dello scambiatore, impedissero all’azoto liquido di arrivare al regolatore di pressione Tartarini; – di un efficiente ed adeguato sistema di allarme di bassa temperatura , laddove non appare insignificante che un siffatto allarme, così ammettendo di fatto un rischio da basse temperature, fosse stato predisposto sebbene poi scollegato; – della installazione di un serbatoio-polmone costruito con materiale inidoneo, in assenza di una progettazione volta a contrastare il verificarsi di eventi di rischio per bassa temperatura, dovuto ad un possibile passaggio di azoto freddo dall’evaporatore, nemmeno munito, come si é detto, di un termostato di blocco. Si rammenti a tale ultimo proposito quanto evidenziato in sentenza, cui si fa integrale richiamo, in ordine alla omessa redazione della relazione tecnica prescritta dell’art. 9 del D.M. 21\5\1974 . Si rammenti altresì che i consulenti del P.M. hanno evidenziato che gli altri tre impianti della AL in Campania che usano il sistema Floxal prevedono un serbatoio-polmone solo per l’azoto autoprodotto proveniente dall’impianto Amsa mentre quello gasificato confluisce direttamente sulla rete di distribuzione dell’utente, come peraltro previsto nello schema semplificato e nell’elaborato del “progetto” alternativo presente sul sito internet della società; dopo l’incidente é stato realizzato presso l’impianto di Caivano un sistema di allarme sulla temperatura della linea di azoto (-10° e – 20°) che allerta il personale di portineria, in sostanza riattivando quanto in precedenza predisposto ma non mantenuto in efficienza”.
Tale ragionamento, ineccepibile sul piano logico, perché agganciato a dati concreti non smentiti da diverse acquisizioni e frutto di considerazioni del tutto adeguate, non contraddittorie, nè incoerenti, supera ampiamente le critiche difensive che si muovono su un piano ipotetico e di esclusivo merito: nella sostanza, la difesa ripropone una diversa ricostruzione del fatto in ordine alla quale, in assenza di evidenti aporie logiche della Corte d’appello, non è consentito nella sede di legittimità esercitare alcuna forma di rivisitazione. Come è noto, le Sezioni Unite di questa Corte, hanno precisato che esula dai poteri del giudice dì legittimità quello di operare una “rilettura” degli elementi dì fatto posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207945). La Corte regolatrice ha evidenziato che anche dopo la modifica dell’art.606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge 20 febbraio 2006 n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo precluso, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Sez. 5, n. 17905 del 23/03/2006, Baratta, Rv. 234109). Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, Candita, Rv.244181).
Data la validità del ragionamento seguito dal giudice in premessa sull’origine della esplosione, tutte le successive censure difensive riguardanti la valutazione del nesso causale effettuata dalla Corte territoriale e la non prevedibilità dell’evento devono ritenersi infondate (motivi terzo e quarto dei rispettivi ricorsi di I.O.B. e B.D.).
Come accertato in sede di merito, la causa dello scoppio era da ravvisarsi nel ghiacciamento della valvola Tartarini e le evidenti criticità dell’impianto erano da individuarsi: nella esistenza di un sistema ibrido di produzione dell’azoto non munito di adeguati sistemi atti ad impedire l’ingresso dell’azoto liquido nel serbatoio; nel materiale con cui era stato realizzato il serbatoio inidoneo a sopportare temperature inferiori a -10 gradi; nella mancata adozione di sistemi di allarme in grado di rivelare il passaggio di azoto liquido nel serbatoio. Orbene, muovendo da tali presupposti fattuali, ogni ulteriore conseguente concatenazione logica del pensiero espresso dalla Corte territoriale in tema di nesso causale, appare sorretta da valutazioni adeguate e coerenti.
Il ragionamento esplicativo, correttamente attuato, ha consentito la elaborazione di un affidabile giudizio controfattuale: la previsione degli accorgimenti e dei sistemi di sicurezza indicati dalla Corte territoriale avrebbe certamente evitato l’evento dello scoppio del serbatoio, anche in caso di volontaria manomissione dell’impianto perché avrebbe consentito un tempestivo intervento di blocco dell’afflusso di azoto liquido nel serbatoio.
La prevedibilità in concreto dell’evento risulta opportunamente sottolineata in sentenza attraverso il richiamo ad altri episodi analoghi avvenuti prima dello scoppio del serbatoio, che avevano riguardato sempre il ghiacciamento della valvola Tartarini e del by pass collegato alla valvola, stadio prodromico all’afflusso di azoto liquido nel serbatoio B03.
Alla luce di tali elementi, riportati in sentenza in maniera coerente e logica, possono dirsi rispettati I principi stabiliti in materia di causalità dalla giurisprudenza di legittimità, espressi nella sentenza delle Sezioni Unite, Franzese (Sez. U. n. 30328 del 10.7.2002, Rv. 222138) e, più recentemente, nella sentenza sul caso Thyssenkrupp, secondo cui nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Sez. Un. n. 38343 del 24.4.2014, Espenhahn e altri, Rv. 261103). Ancorata a dati concreti, la rilevazione del rapporto di causalità consente di evitare generalizzazioni frutto di ragionamenti puramente deduttivi, che si fondano esclusivamente sulla nozione di elevata probabilità logica, suscettibili, come si legge nella sentenza Espenhahn, di rimanere altamente incerti quanto al carattere salvifico delle condotte mancate.
Nel caso in esame l’analisi puntuale delle peculiari circostanze di fatto nelle quali si è prodotto l’evento ha consentito alla Corte territoriale di pervenire ad un esatto inquadramento della vicenda anche sotto il profilo dell’elemento causale.
Occorre pertanto concludere sul punto affermando che la linea difensiva secondo la quale la causa dello scoppio sarebbe imputabile ad una manomissione dell’impianto, è circostanza non riscontrata e non plausibile sul piano logico e che, se anche si volesse accedere a tale ipotesi, sarebbero parimenti riconducibili alle omissioni individuate dalla Corte territoriale le ragioni dello scoppio e del decesso degli operai.
Quanto alla preferenza accordata agli esiti della consulenza disposta dal P.M. in fase di indagini, in linea generale, deve precisarsi che, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito, pur in assenza di una perizia d’ufficio, può scegliere tra le diverse tesi prospettate dai consulenti delle parti quella che ritiene maggiormente attendibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni della scelta, nonché, del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti. Corollario necessitato di questo principio – largamente condiviso dalla giurisprudenza di legittimità – è quello in base al quale, ove la valutazione del giudice di merito sia effettuata in modo congruo, è inibito alla Corte regolatrice dì procedere ad una differente valutazione, trattandosi di accertamento di fatto e, come tale insindacabile in sede di legittimità (cfr. ex multis Sez. 4 n. 8527 del 13/02/2015, Rv. 263435; Sez. 4, n. 34747 del 17/05/2012, Rv. 253512).
Si è altresì affermato che, qualora il giudice indichi esaurientemente le ragioni del proprio convincimento, non è tenuto a rispondere in motivazione a tutti rilievi del consulente tecnico della difesa, in quanto questi ultimi costituiscono soltanto un contributo tecnico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudice deve necessariamente prendere in esame in modo autonomo (così Sez. 5, n. 42821 del 19/06/2014, Rv. 262111). Ne deriva che la sentenza non è censurabile in sede di legittimità per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (così Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Rv. 256340).
Comune ai due ricorrenti è, altresì, la doglianza riguardante la indeterminatezza del capo di imputazione (motivo primo di entrambi i ricorsi).
L’apparato argomentativo che supporta la doglianza è infondato quanto alla lesione del diritto di difesa, e la risposta fornita ai ricorrenti dalla Corte territoriale appare congrua ed in linea con i principi espressi in sede di legittimità. Come osservato dal giudice di merito, le qualifiche attribuite ai ricorrenti, presenti nella richiesta di rinvio a giudizio, non erano state riportate nel decreto di citazione a giudizio. Ebbene, è del tutto evidente che trattasi di lacuna riconducibile ad un mero errore di trascrizione, tale da non determinare alcuna menomazione del diritto di difesa: gli imputati, invero, erano ben al corrente di tale parte della imputazione, inserita nella richiesta di rinvio a giudizio.
Peraltro, come sostenuto condivisibilmente dalla Corte territoriale, la indicazione di tali qualifiche era un elemento non essenziale ab origine, essendo descritte nella imputazione in modo analitico le condotte contestate ed essendo note agli imputati le mansioni svolte all’Interno dell’azienda. La questione induce a soffermarsi sulla nozione della completezza del capo di imputazione e sui criteri elaborati in materia da questa Corte.
Tradizionalmente si afferma che il decreto di citazione a giudizio è nullo per incertezza assoluta del fatto oggetto dell’Imputazione soltanto quando l’imputato non sia stato posto in grado di intendere i termini concreti dell’accusa e di predisporre un’adeguata difesa (Sez. 1, n. 966 dei 19/02/1986, Rv. 172665). Secondo l’univoca interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, per “fatto contestato” si intende il complesso degli elementi di fatto portati a conoscenza dell’imputato nel corso del processo, sui quali egli è chiamato a difendersi e che risultano dagli atti facenti parte dell’Incarto processuale. Come affermato in un risalente, ma tuttora valido arresto di questa Corte, «la nullità prevista per il caso in cui vi sia incertezza assoluta “sui fatti che determinano l’imputazione” non è configurabile allorché questa, anche se formulata in termini concisi e senza dettagliata enunciazione dei dati di accusa, sia idonea a rappresentare l’oggetto della incolpazione in relazione alle risultanze del processo, conosciute o conoscibili dall’imputato, e rispetto alla quale egli si sia difeso o sia stato posto nella condizione di difendersi» (Sez. 3, n. 5778 del 10/04/1985 – dep. 13/06/1985, Gonnelli, Rv. 169740). Tale principio è pienamente in linea con le più recenti decisioni di questa Corte in materia che – sia pure in relazione al diverso profilo della mancata enunciazione nel decreto che dispone il rinvio a giudizio dell’ambito spaziale e temporale delle condotte e degli elementi specificatori dell’oggetto materiale del reato – affermano che l’omissione è improduttiva di conseguenze giuridiche quando dagli altri elementi enunciati e, dai richiami contenuti nel decreto ed eventualmente anche in altri provvedimenti, risultino chiari i profili fondamentali del “fatto” per il quale il giudizio è stato disposto (Sez. 1, n. 20628 del 12/02/2008, Pietroleonardo, Rv. 239986; Sez. 3, n. 42537 del 21/05/2014, Caputo, Rv. 261147).
A ciò deve aggiungersi che nelle contestazioni riguardanti i reati colposi, più elastica deve intendersi la nozione di indeterminatezza o genericità della imputazione, ben potendo il giudice, in relazione a condotte riconducibili a tale categoria, come avvenuto nel caso in esame, ravvisare profili di colpa diversi rispetto a quelli contenuti nel capo di imputazione, senza che ciò si traduca nella equazione di una mancata corrispondenza tra accusa e sentenza (ex multis Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014, Rv. 260161).
La ratio di tale interpretazione, si legge nella motivazione della sentenza da ultimo citata, va ricercata nella natura stessa dei reati colposi, specie di quelli omissivi, nei quali la condotta colposa «può essere identificata solo attraverso la Integrazione del dato fattuale e di quello normativo, con un continuo trascorrere dal primo al secondo e viceversa».
Inquadrata nei predetti termini la questione posta dalla difesa, deve ritenersi, conformemente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, del tutto inconferente il richiamo operato negli atti d’impugnazione all’art. 429, comma 2, cod. proc. pen., non ricorrendo la ipotesi della indeterminatezza del capo di imputazione.
La difesa sostiene altresì che nel caso in esame si sarebbe fatto un uso illegittimo dell’art. 516 cod. proc. pen., avendo il giudice di primo grado consentito al P.M. di precisare nel corso del dibattimento la qualifica posseduta da ciascun imputato ed il periodo temporale in cui i ricorrenti avevano rivestito le loro mansioni, pure in presenza di una eccezione di nullità del decreto che dispone il giudizio per genericità del capo di imputazione, che avrebbe imposto la regressione degli atti del processo.
L’assunto difensivo è infondato in quanto, come si è detto in precedenza, il capo di imputazione non risulta affetto da genericità.
Quanto all’art. 516 cod. proc. pen. è noto che, in base alla suddetta norma, è consentito al P.M. di provvedere alla modifica della imputazione “Se nel corso dell’istruzione dibattimentale il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio”.
Ebbene, come già evidenziato dalla Corte territoriale, è da escludersi che nel caso in esame si sia proceduto alla contestazione di un fatto diverso, avendo il P.M. provveduto ad effettuare mere precisazioni che risultavano essere estrinsecazione di elementi già presenti in atti. L’avere adoperato a questo fine la modalità prevista dall’art. 516 cod. proc. pen. non ha dato luogo ad un atto abnorme e non è censurabile sul piano della correttezza processuale.
3. Con particolare riferimento al ricorrente I.O.B. la motivazione della sentenza impugnata, come argomentato dalla difesa nel quinto motivo di ricorso, soffre, invece, effettivamente di una crasi logica nello sviluppo del ragionamento che attiene alla individuazione dei profili di responsabilità che vengono addebitati al suddetto imputato.
Si legge nella sentenza impugnata che I.O.B., il quale rivestiva la qualifica di Direttore Generale dell’azienda, era stato investito dal consiglio di amministrazione, ai sensi del d.lgs. 626/94, di specifici compiti in materia di sicurezza e vigilanza.
In particolare, ricorda la Corte territoriale, nella procura rilasciatagli in data 27 giugno 2001, era previsto che l’I.O.B. dovesse occuparsi di “organizzare e assicurare la verifica delle macchine” in modo da garantire la loro costante conformità alle disposizioni di legge antinfortunistiche. Era altresì stabilito che il medesimo dovesse “organizzare la predisposizione delle misure di sicurezza previste dalla legge o rese necessarie dalla natura o dall’andamento delle lavorazioni”.
Ebbene la Corte territoriale, pur attribuendo al ricorrente una responsabilità omissiva che si è estrinsecata nella mancata attivazione dei suoi poteri di vigilanza e di intervento rispetto alla preoccupante situazione locale dell’Impianto, ha, nel contempo, dato atto in sentenza di un assoluto difetto di flussi di informazioni provenienti dalle unità operative esistenti nello stabilimento nei confronti dei vertici della società.
Quindi, pure avendo rimarcato che non erano state effettuate adeguate verifiche in ordine al corretto funzionamento dello specifico impianto, insite nel dovere dì vigilanza incombente su I.O.B., ha evidenziato che erano del tutto mancate le necessarie comunicazioni da parte delle unità operative, riguardanti gli inconvenienti registrati nel funzionamento dell’impianto. Tali inconvenienti, si legge nella sentenza, erano stati accertati nel corso della istruttoria attraverso l’acquisizione di diversi rapporti di manutenzione che attestavano frequenti arresti ed anomalie dell’impianto AMSA FLOXAL, con conseguente attivazione dell’impianto criogenico.
Su tale punto si impone pertanto l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza. Il giudice del rinvio dovrà risolvere l’evidenziata aporia logica di tale segmento argomentativo, spiegando, in particolare, come si concilia l’addebito individuato a carico del ricorrente, cui è attribuita la colpa di non avere avviato autonome verifiche sulla sicurezza dell’impianto, con l’assenza di comunicazioni riguardanti gli inconvenienti registrati sull’impianto AMSA-FLOXAL, da parte del personale tecnico operante sul posto.
L’accoglimento del ricorso in punto di responsabilità, riveste carattere assorbente rispetto all’ulteriore doglianza difensiva riguardante la mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen., comune ad altri ricorrenti, per la quale valgono tuttavia i generali principi interpretativi quali saranno enunciati nel prosieguo della trattazione nell’esaminare analoga doglianza dedotta da altri ricorrenti.
4. Passando all’esame dei residui motivi di ricorso dedotti per B.D., osserva il Collegio che la lettura della motivazione della sentenza di appello e di quella di primo grado ad essa conforme, consente di affermare che sono stati correttamente individuati a carico dell’Imputato i profili di responsabilità nei quali si concretizza la sua condotta colposa in relazione all’evento occorso. Essendo B.D. responsabile tecnico dell’unità operativa della soc. Air Liquide egli era perfettamente a conoscenza delle anomalie manifestatesi nell’impianto nel corso della sua direzione. La Corte territoriale, in proposito, correttamente evidenzia come al B.D. siano da ascriversi quelle omissioni in tema di informazione, verifica ed intervento che sono state alla base del tragico evento: il non essersi attivato in alcuna di tali direzioni, ha indubbiamente contribuito al determinismo causale dello scoppio. Per altro verso, non sembra che l’aspetto riguardante la posizione di garanzia rivestita dai ricorrente ed i profili di responsabilità delineati a suo carico dalla Corte territoriale, siano stati posti concretamente in discussione dalla difesa nell’atto di impugnazione. Il ricorso, invero, come già detto in precedenza, è incentrato prevalentemente su una diversa ricostruzione del fatto dalla quale si vorrebbe far discendere una imprevedibilità assoluta dello scoppio, essendo questo collegato, secondo l’intendimento della difesa, a fatti eccezionali (interventi manomissivi assimilabili ad atti dì sabotaggio), suscettibili dì interrompere ogni sorta di legame tra la condotta omissiva addebitata al B.D. e l’evento.
Ulteriore motivo di doglianza riguardante il B.D. è quello attinente alla precisazione del periodo nel quale il ricorrente ha rivestito la qualifica di responsabile tecnico dell’unità operativa locale all’interno dell’azienda Air Liquide.
La difesa obietta che, anche dopo la intervenuta precisazione del capo di imputazione ad opera dell’Accusa, non sarebbe stato specificato il periodo nel quale il B.D. ha rivestito la sua qualifica aziendale.
Ebbene, come si è già detto in precedenza esaminando la analoga doglianza dedotta dall’I.O.B., la lacuna evidenziata dalla difesa non è suscettibile di incidere sulla determinatezza del capo di imputazione, trattandosi di elemento ben noto al ricorrente, la cui mancanza non produce alcuna menomazione delle prerogative difensive.
Nel quinto e sesto motivo di ricorso la difesa di B.D. si duole del mancato riconoscimento dell’attenuante del risarcimento del danno. Trattasi di motivo comune anche ai ricorrenti F.R. e R.G., le cui posizioni saranno esaminate in prosieguo. Nell’atto di impugnazione si evidenzia che il risarcimento sarebbe stato integralmente corrisposto in favore dei congiunti delle vittime dello scoppio, ad opera di più compagnie assicuratrici e che, per tale motivo, la decisione della Corte territoriale di negare il suddetto beneficio sarebbe erronea, perché in contrasto con il principio affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 5941 del 22/1/2009.
I più recenti orientamenti della Corte regolatrice, alla luce del principio affermato dalla pronuncia delle Sezioni Unite richiamata dalla difesa, ammettono l’attenuante anche quando il risarcimento sia avvenuto ad opera di una compagnia assicuratrice, purché l’imputato dimostri di condividerlo (così Sez. 4, n. 13870 del 06/02/2009, Rv. 243202, così massimata: “Ai fini della sussistenza dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. il risarcimento, ancorché eseguito dalla società assicuratrice, deve ritenersi effettuato personalmente dall’imputato tutte le volte In cui questi ne abbia conoscenza e mostri la volontà di farlo proprio”).
Tuttavia, nel caso in esame non risulta dagli atti che tale risarcimento sia stato eseguito nei confronti di tutte le vittime (in sentenza si afferma che sono stati risarciti soltanto i congiunti di M.G.) ed al ricorso non sono allegate attestazioni che documentano tale circostanza in ossequio al principio dell’autosufficienza. Il teste C.M., le cui dichiarazioni sono parzialmente riportate nell’atto di impugnazione, riferisce di accordi intervenuti tra diverse compagnie assicuratrici, ma in nessuno dei passaggi della deposizione evidenziati nel ricorso, risulta precisato che sì è provveduto all’effettivo ed integrale pagamento nei confronti di tutti i congiunti delle numerose vittime della esplosione. A ciò deve aggiungersi, come osservato dalla Corte territoriale con rilievo di carattere dirimente, che nessun elemento presente agli atti denota una concreta volontà riparatoria promanante dall’Imputato. Sotto questo profilo è stato evidenziato che il B.D. (come pure il F.R. ed il R.G.) non ha stipulato il contratto assicurativo, non ha contribuito con personali risorse al risarcimento, non ha manifestato con positive condotte la volontà di fare propria l’attività risarcitoria. Nell’atto di ricorso, a questo proposito, la difesa si limita ad affermare che la volontarietà del risarcimento dovrebbe essere desunta dalla disponibilità del B.D. a fare acquisire agli atti del processo le quietanze di pagamento. Tale comportamento, tuttavia, non può ritenersi manifestazione di una concreta volontà di fare proprio il risarcimento intervenuto ad opera della società assicuratrice, essendo esso riferito ad una scelta di carattere processuale dalla quale non possono trarsi indicazioni che attingono alla sfera delle intenzioni della persona dell’imputato.
Stante la necessità che – ai fini del riconoscimeto dell’attenuante in argomento – sia manifestata una concreta volontà riparatoria dell’imputato nel caso di risarcimento avvenuto ad opera di un terzo, condizione più volte ribadita da questa Corte anche in pronunce recenti (si veda da ultimo Sez. 4, n. 6144 del 28/11/2017 Rv. 271969), ne consegue la correttezza della decisione assunta dalla Corte territoriale di negare l’attenuante invocata.
Per completezza argomentativa e, per fonire risposta anche agli ulteriori profili di doglianza evidenziati sul tema dalla difesa di F.R. e R.G., occorre puntualizzare che l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale, in linea con la giurisprudenza di legittimità, non si pone in contrasto con i principi stabiliti in materia dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 138 del 1998, nel giudizio di legittimità costituzionale che ha riguardato l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen.
La risposta alla critica difensiva si rinviene nella motivazione della già citata pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un. n. 5941 del 22/01/2009, Rv. 242215) dove si esamina il profilo dell’applicabilità all’imputato dell’attenuante di cui all’art.62 n. 6 cod. pen. nel caso in cui il risarcimento sia intervenuto ad opera di un terzo, sia pure questi un correo. Prendendo le mosse dalla lettura del testo della norma (“l’avere…riparato interamente il danno mediante il risarcimento…e le restituzioni”), il Supremo consesso evidenza che: «è canone interpretativo comune delle norme penali che le condotte in esse previste, salvo le eccezioni espressamente indicate, debbano essere connotate da volontarietà e che vada osservato e conservato nel concreto, nel suo profilo assiomatico, il valore della locuzione impiegata legislatore. E quindi “l’aver riparato”, per integrarsi, non può consistere solo nella sussistenza dell’evento, ma deve comprendere una volontà di riparazione. Tanto più che riparazione non è locuzione neutra, quale ad esempio estinzione del debito o soddisfacimento dello stesso, ma è voce di segno positivo in funzione del grado di disvalore di cui lo specifico reato costituisce espressione». Dopo avere affermato che tali considerazioni rendono “nominalistica” e “di coda” la disputa sulla natura soggettiva o oggettiva dell’attenuante, le Sezioni Unite aggiungono che «del resto la stessa Corte Costituzionale, che nella sentenza n. 138 del 1998, fondandosi sull’evento richiesto e sull’interesse dell’offeso, ha preso una decisa posizione per la natura oggettiva della circostanza, precisa che è pur sempre necessario che l’intervento risarcitorio sia “comunque riferibile all’imputato”. Riserva indotta dalla necessità di preservare la condotta volontaristica che la norma in esame indica nell’ “aver riparato” e, con essa, il quid di merito della riparazione».
Anche alla luce di tali ulteriori considerazioni risulta quindi del tutto immune da censure la decisione adottata dalla Corte territoriale.
5. In ordine al ricorso proposto da F.R., si osserva quanto segue.
La Corte di merito ha valutato in maniera precisa e adeguata la posizione del ricorrente, rendendo ampia e conferente motivazione in ordine ai profili di responsabilità ravvisati a suo carico, provvedendo in primis a richiamare le mansioni dallo stesso rivestite nel corso degli anni nell’ambito dell’azienda Air Liquide Italia. Ha quindi ricordato che il F.R. era responsabile della direzione tecnica dell’unità operativa interessata dallo scoppio a fare data dal settembre 1998. Nel corso della sua permanenza nell’azienda era stato indicato nel documento di valutazione rischi, redatto da R.G. in data 20\6\1999, quale responsabile del servizio prevenzione e protezione e, successivamente, era stato munito di specifica delega in materia di sicurezza sul lavoro a partire dal 14 febbraio 2000.
L’addebito mosso al F.R. é quello di non avere provveduto a segnalare le situazioni di rischio riguardanti l’impianto, inducendo i superiori gerarchici, titolari di altrettante posizioni di garanzia, ad omettere quelle necessarie misure di sicurezza di cui avrebbe dovuto essere dotato il serbatoio. Tali omissioni, innestandosi sul decorso causale, hanno indubbiamente contribuito alla determinazione dell’evento, secondo la condivisibile ricostruzione del fatto cui è pervenuta la Corte territoriale e di cui si è detto ampiamente in precedenza.
5.1 Il F.R. si duole in primis del fatto che non sarebbe stato rispettato il principio di correlazione tra la contestazione elevata dall’Accusa e la motivazione adottata dalla Corte territoriale. Afferma in proposito il ricorrente che, allorquando i giudici di merito specificano le singole condotte rimproverate, si riferiscono ad un ambito temporale diverso da quello indicato nella imputazione (che riguarda il periodo successivo al 14 febbraio 2000), richiamando il documento di valutazione dei rischi n. 17 del 1999, da cui risulta che il F.R. era stato investito delle mansioni di RSPP. Rileva inoltre il ricorrente che la contestazione elevata a suo carico dovrebbe intendersi limitata ad un ambito molto ristretto, essendo stato il F.R. trasferito ad altro settore nel giugno 2000.
L’assunto è infondato.
Il fatto che le accuse elevate a carico del F.R. nel capo di imputazione siano riferite al periodo successivo al febbraio 2000, non vale ad escludere la sua responsabilità in ordine ai fatti per cui è processo.
Anche nell’ambito temporale ristretto nel quale si sostiene abbia operato il ricorrente (dal febbraio 2000 al giugno 2000) egli, quale soggetto munito di specifica delega in materia di sicurezza, avrebbe avuto il preciso compito di informare la dirigenza delle gravi carenze esistenti nell’impianto, di cui era perfettamente a conoscenza anche in virtù delle pregresse esperienze acquisite presso l’unità operativa, come dimostra il documento di valutazione dei rischi n. 17 del 1999 nel quale veniva formalmente investito della qualifica di RSPP. Quindi, il pur breve periodo messo in rilievo dalla difesa, risulta congruo ai fini della definizione della sua responsabilità, in considerazione delle precedenti conoscenze acquisite dal ricorrente per l’attività espletata nell’azienda, sempre in qualità di responsabile tecnico della unità operativa locale.
Non può affermarsi, come vuole sostenere la difesa, che la Corte territoriale abbia operato una dilatazione del periodo in contestazione, attraverso l’attribuzione al ricorrente di comportamenti che si collocano al di fuori delle coordinate temporali del capo di imputazione. I giudici di merito hanno fatto riferimento alle pregresse esperienze lavorative del F.R. traendo da esse elementi valutativi che rafforzano l’aspetto della consapevolezza del ricorrente della situazione di alto rischio in cui versava l’impianto.
Rimanendo ancorati alla contestazione, che riguarda il periodo successivo al febbraio 2000, risulta evidente che il ricorrente era perfettamente in condizione – per le mansioni esercitate, i poteri che gli erano stati conferiti e l’esperienza pregressa maturata nel settore – di conoscere le anomalie del sistema.
Nella sua qualità RSPP e, successivamente, sulla base della delega conferitagli nell’anno 2002, il F.R. aveva l’obbligo giuridico di collaborare diligentemente con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa, fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli ed informando la dirigenza degli inconvenienti dell’impianto, che costituivano un rischio per la sicurezza dei lavoratori. Tali comportamenti, come affermato dalla Corte territoriale in sentenza, non risultano essere stati posti in essere dal ricorrente. Pertanto, è del tutto corretto l’esito della decisione cui è pervenuto il giudice di merito.
5.2 Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso nel quale si sostiene che il ricorrente avrebbe dovuto essere mandato esente da responsabilità perché i documenti di valutazione del rischio esistenti nell’azienda (tra cui quello n. 17 del 1999, che attribuiva al F.R. la qualifica di RSPP) erano modelli predisposti dalla Direzione della società, che non potevano essere in alcun modo modificati dai sottoscrittori, i quali erano tenuti esclusivamente ad indicare il nominativo delle persone investite delle varie qualifiche e delle funzioni di garanzia.
Si tratta di argomentazione meramente assertiva.
E’ evidente che una simile interpretazione del documento di valutazione del rischio, è ben lontana dalla concezione che di esso si ricava dalla legge: il DVR è uno strumento duttile, suscettibile di essere in ogni momento aggiornato
per essere costantemente al passo con le esigenze di prevenzione che si ricavano dalla pratica giornaliera dell’attività lavorativa.
E’ noto che in tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro non solo ha l’obbligo di redigere il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, analizzando ed individuando con il massimo grado di specificità – secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica – tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, ma è tenuto anche a sottoporre a periodico aggiornamento il suddetto documento (ex multis Sez. 4, n. 20129 del 10/3/2016, Rv. 267253).
E’ quindi contraria ad ogni logica giuridica la possibilità di concepire un documento di valutazione dei rischi immodificabile.
D’altro canto, come evidenziato dalla Corte distrettuale in sentenza, proprio il difetto di comunicazione di informazioni attinenti alle anomalie del sistema riscontrate in loco da coloro che erano addetti alla gestione ed alla manutenzione dell’impianto (tra i quali deve annoverarsi il F.R., unitamente a B.D. e R.G.) hanno impedito alla dirigenza di individuare le carenze e gli aspetti critici del sistema che avrebbero consentito l’adozione di misure atte a individuare e prevenire situazioni di pericolo che dovevano essere recepite nel DVR.
Dalla lettura del documento di cui si tratta, come condivisibilmente sostenuto dalla Corte territoriale, non risulta essere stato previsto un rischio dì scoppio del serbatoio connesso alle basse temperature, sebbene tale tipo di rischio fosse prevedibile e concreto, essendo stato preannunciato da un significativo evento nel corso dei quale si era verificato il ghiacciamento dell’evaporatore.
La prospettazione difensiva secondo cui il rischio predicato dai giudici di merito sarebbe stato contemplato nel documento è erronea. Difetta la specificità della previsione che non può certamente ricavarsi, come lascia intendere la difesa, dalla combinazione di diversi elementi di rischio: quello da contatto con superfici fredde e quello da scoppio a causa di pressione, che riguardano aspetti del tutto differenti rispetto alle problematiche da cui si è generato l’incidente, correttamente evidenziate in sentenza sulla base di coerenti e precise argomentazioni.
5.3 Con il terzo motivo di ricorso, il F.R. denuncia vizio di contraddittorietà della motivazione assunta dalla Corte territoriale nella ordinanza resa all’udienza del 2 febbraio 2016 con cui era stata rigettata la richiesta di rinnovazione della istruzione dibattimentale per l’acquisizione, presso la soc. Air Liquide di documentazione attinente allo status del dipendente, alle qualifiche dallo stesso ricoperte durante la sua permanenza nella società, alla gestione della divisione Floxal nello stabilimento di Caivano.
La doglianza difensiva è infondata. La illogicità della motivazione viene desunta dalla circostanza che la Corte territoriale dapprima aveva mostrato interesse verso tale documentazione, onerando la difesa della sua acquisizione e, solo successivamente, appresa la risposta negativa della società di rilasciare copia dei documenti richiesti, avrebbe mutato proposito considerando tale documentazione non più necessaria ai fini della decisione.
Ebbene, il diniego espresso dalla Corte territoriale di procedere all’acquisizione della documentazione richiesta dalla difesa, ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen., non è sindacabile nel merito in sede di legittimità. La mancata assunzione di una prova decisiva – quale motivo di impugnazione per cassazione – può essere dedotta solo in relazione a mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma dell’art. 495, secondo comma, cod. proc. penale. Analogo motivo non può essere proposto nel caso in cui la parte abbia invitato il giudice di merito ad avvalersi dei suoi poteri discrezionali di integrazione probatoria, previsti dall’art. 507 cod. proc. pen. ed il giudice l’abbia ritenuta non necessaria ai fini della decisione (così Sez. 5, n. 4672 del 24/11/2016, Rv. 269270).
Il sindacato di legittimità esperibile con riferimento al provvedimento di diniego della rinnovazione del dibattimento ad opera del giudice di appello, ai sensi dell’art. 603, cod. proc. pen., non può mai riguardare la concreta rilevanza dell’atto o della testimonianza da acquisirsi, ma deve essere volto a verificare la congruità della motivazione adottata e, pertanto, deve essere rivolto al contenuto esplicativo del provvedimento (così Sez. 3, n. 7680 del 13/01/2017 Rv. 269373). Nel caso in esame la Corte territoriale ha affermato, con ordinanza resa all’udienza del 2 febbraio 2016, che l’assunzione di detta prova costituiva un approfondimento non necessario ai fini della decisione. La motivazione dell’ordinanza, sebbene concisa, non può essere ritenuta illogica, né possono trarsi in essa elementi di contraddittorietà dalle considerazioni difensive riguardanti l’originaria decisione della Corte territoriale di autorizzare l’acquisizione degli atti.
5.4 Ulteriore doglianza difensiva è quella riguardante l’omessa motivazione sulla richiesta di espletamento di una perizia volta ad accertare le cause dello scoppio ed eventuali interventi manomissivi sulla valvola di pressione Tartarini. La difesa evidenzia che all’udienza del 2 febbraio 2018, la Corte territoriale, nello sciogliere la riserva assunta in precedenza, nulla argomentava su tale richiesta che rimaneva di fatto inevasa.
La lettura degli atti consente di rilevare la infondatezza della censura proposta dal ricorrente. La motivazione della sentenza contiene un implicito rigetto della richiesta difensiva di procedere ad ulteriori approfondimenti peritali sulla ipotesi della manomissione dell’impianto e, in generale sulle cause dell’esplosione. La parte della sentenza dedicata alla ricostruzione dell’evento e delle cause della esplosione, contenuta nelle pagine 62 e seguenti della sentenza impugnata, offre una precisa confutazione della tesi difensiva secondo la quale l’impianto sarebbe stato manomesso. La Corte territoriale ha ritenuto di aderire alla ricostruzione dei fatti offerta dai consulenti del P.M. ed ha rigettato, sulla base di un ragionamento immune da censure, ogni altra versione contrastante con gli esiti a cui sono pervenuti i consulenti del P.M.. Tutto ciò dimostra sul piano logico che la Corte ha ritenuto satisfattive le prove raggiunte attraverso le indagini tecniche effettuate dai consulenti del P.M.
Orbene, può ritenersi che non vi sia difetto di motivazione nella sentenza di appello che non accolga la richiesta di rinnovazione parziale del dibattimento per l’espletamento di una perizia, quando nella decisione, pur non risultando espressamente enunciate le ragioni del rigetto, si fornisca sostanziale giustificazione della ritenuta adeguatezza e completezza degli elementi acquisiti (così Sez. 4, n. 1116 del 30/10/1981, Rv. 152012). Per altro verso, la decisività della prova che connota l’istituto della rinnovazione della istruzione dibattimentale in sede di appello, non può riguardare l’espletamento di una perizia che, avendo un valore neutro sul piano probatorio, non è mai dotata del carattere della decisività. In argomento, si veda Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, Rv. 270936, così massimata: «La mancata effettuazione di un accertamento peritale (nella specie sulla capacità a testimoniare di un minore vittima di violenza sessuale) non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art.606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2, cod.proc.pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività».
5.5 Con il quinto motivo di ricorso la difesa deduce violazione di legge con riferimento al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. ed al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in rapporto di prevalenza con la contestata aggravante.
Valgono, quanto al primo profilo, le considerazioni già espresse in precedenza in relazione ad analoga doglianza dedotta dal ricorrente B.D. (si veda sul punto quanto già argomentato nel paragrafo 4 della parte motiva), da intendersi qui integralmente richiamate onde evitare superflue ripetizioni.
Parimenti infondato è il motivo di ricorso che attiene alla motivazione espressa dalla Corte territoriale con riferimento alla concessione delle attenuanti generiche in rapporto di sola equivalenza, e non prevalenza, rispetto alla contestata aggravante.
La Corte d’appello, condividendo la motivazione del primo giudice, ha ritenuto aderente alla “obiettiva gravità dei fatti, in relazione al rilievo delle condotte addebitate e delle implicazioni connesse, poi sfociate nel plurimo evento mortale” la concessione delle attenuanti generiche in rapporto di equivalenza con la contestata aggravante. La difesa sostiene che tali argomentazioni devono reputarsi insufficienti, avendo il giudice di merito pretermesso qualunque indagine di natura soggettiva che avrebbe consentito un trattamento più benevolo nei confronti dell’imputato, in ragione del breve periodo di tempo a cui è legata la contestazione elevata a suo carico e della circostanza che le funzioni di responsabile tecnico furono dallo stesso ricoperte tre anni prima dell’evento. L’assunto non è condivisibile. E’ noto che in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la determinazione della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Suprema Corte non solo ammette la cosiddetta motivazione implicita (Sez. 6, n. 36382 del 04/07/2003, Dell’Anna, Rv. 227142) o con formule sintetiche (tipo «si ritiene congrua» Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998, Urrata, Rv. 211583), ma afferma anche che la ratio della disposizione di cui all’art. 62 bis cod. pen. non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva ed ogni aspetto rilevante, essendo, invece, sufficiente l’indicazione degli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti (Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826). Si aggiunga che in tema di concorso di circostanze, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra aggravanti ed attenuanti sono censurabili in sede di legittimità soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di un ragionamento illogico e non anche qualora risulti sufficientemente motivata la soluzione dell’equivalenza (Sez. 5 n. 5579 del 26/9/2001 Rv. 258874).
6. I motivi di ricorso proposti in favore di R.G. ricalcano quelli del coimputato F.R.. La Corte territoriale, conformemente a quanto ritenuto dal primo giudice, ai fini della individuazione della responsabilità del ricorrente, ha posto in evidenza le seguenti circostanze: il R.G. era dirigente della sede di Napoli della società A.L.; egli godeva di ampi poteri gestionali anche sul piano della prevenzione e della sicurezza; il documento di valutazione rischi n. 17/1999, dallo stesso sottoscritto in qualità di datore di lavoro, non aveva previsto il rischio di scoppio del serbatoio per basse temperature; nessuna attività di verifica, interlocuzione e controllo era stata posa in essere dal ricorrente in ordine alla esigenze manutentive manifestatesi presso l’impianto, tra le quali, non da ultimo, era da collocarsi il disuso dell’unico sistema di allarme di bassa temperatura presente nell’impianto.
Sulla base di tali elementi, nel delineare la posizione di garanzia del ricorrente, con ragionamento che risulta immune da vizi, la Corte territoriale ha ritenuto di ravvisare a carico di R.G. una corresponsabilità nella determinazione dell’evento che ha stabilito essere di più elevato grado rispetto agli altri coimputati.
Venendo alla disamina dei motivi di ricorso proposti dal ricorrente, si osserva quanto segue.
6.1 Nel primo motivo di ricorso la difesa, analogamente a quanto sostenuto in favore di F.R., rappresenta che il documento di valutazione dei rischi, sottoscritto dal R.G. in qualità di datore di lavoro era un documento “standard”, predisposto dalla Direzione rischi dell’azienda e non modificabile. Sulla base di tale premessa, afferma che il suo contenuto non rientrava nella sfera di competenza del R.G. e che, pur volendo ammettere la riferibilità al ricorrente di detto documento, esso era volta a determinare i rischi afferenti agli stoccaggi criogenici ed al vaporizzatore criogenico (resilienti alle basse temperature), con esclusione del serbatoio interessato dallo scoppio.
La prospettazione difensiva è da ritenersi infondata. In qualità di datore di lavoro e di responsabile dell’unità operativa locale, il R.G. avrebbe dovuto individuare specificamente il rischio di uno scoppio per le basse temperature, collegato all’evenienza dell’ingresso dell’azoto liquido nel serbatoio-polmone, proprio alla luce dei precedenti episodi ricordati dalla Corte territoriale nel corso dei quali si era verificato il ghiacciamento della valvola e si erano raggiunte condizioni di pericolo assimilabili a quelle che determinarono il tragico evento del 2003.
Come già detto in precedenza (si veda quanto illustrato nel precedente paragrafo 5.2 della parte in diritto) è priva di pregio ogni ulteriore argomentazione riguardante la possibilità di desumere la individuazione del fattore di pericolo da cui è dipesa la esplosione, dalla combinazione di altri rischi contemplati nel DVR (quello riguardante le superfici fredde e quello riguardante lo scoppio da pressione).
Per costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte la specificità delle previsioni contenute nel documento di valutazione sono elemento essenziale nella economia della gestione del rischio facente capo al datore di lavoro. Da esso infatti dipende in modo rilevante la definizione del carico di debito di cui è portatrice la qualità datoriale. Si è quindi ripetutamente affermato che il datore di lavoro è tenuto ad individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’Interno dell’azienda. Da tale principio si ricava l’erroneità della prospettazione difensiva in base alla quale il rischio da scoppio per basse temperature potrebbe ricavarsi dalla combinazione di altri diversi fattori, assimilabili al primo: si tratta invero di situazioni che difettano del necessario carattere della specificità che deve connotare le previsioni contenute nel DVR.
E’ quindi corretta la interpretazione fornita dalla Corte territoriale in sentenza, secondo cui il rischio scoppio da basse temperature era stato ritenuto non credibile da parte del R.G. e non era contemplato nel DVR.
Né può sostenersi che il DVR presente in azienda riguardasse soltanto II settore degli stoccaggi criogenici ed il vaporizzatore criogenico, con esclusione di ogni altra parte dell’impianto. Una simile prospettazione è fondata su argomentazioni puramente assertive.
6.2 Il secondo motivo di ricorso ricalca pedissequamente la censura precedentemente esaminata con riferimento alla posizione del F.R. (si veda paragrafo 5.3 della parte motiva), afferente alla mancata acquisizione di documentazione esistente presso l’archivio della soc. Air Liquide riguardante la posizione del ricorrente e di altri esponenti della struttura aziendale, tesa a dimostrare che il R.G. era addetto esclusivamente al settore commerciale della società. La Corte territoriale ha ritenuto, con motivazione immune da censure, che tale documentazione non fosse necessaria ai fini della decisione, rigettando la richiesta con ordinanza resa all’udienza del 2 febbraio 2016.
Orbene, sul punto, si richiamano le argomentazioni già espresse nell’indicato paragrafo 5.3, valevoli anche per la posizione di R.G., ulteriormente rilevandosi che, nel caso del suddetto ricorrente, la motivazione della ordinanza di rigetto resa in udienza, già sufficientemente argomentata, è stata ampliata nel corpo della motivazione della sentenza impugnata dove si ribadisce la non necessarietà della integrazione probatoria {folio 105 della sentenza d’appello).
6.3 Valgono anche per R.G. le considerazioni svolte nel precedente paragrafo 5.4, afferenti alla motivazione di implicito rigetto di procedere ad ulteriori approfondimenti peritali sulle cause dello scoppio del serbatoio e sulla ipotesi della manomissione dell’impianto. Si ribadisce che tutto il ragionamento seguito nella sentenza impugnata, nella parte dedicata alla individuazione delle cause dell’evento, esclude ogni diversa ipotesi ricostruttiva della vicenda, con ciò implicitamente negando anche le richieste difensive tese ad ottenere il conferimento di un ulteriore incarico peritale avente il medesimo oggetto.
6.4 Parimenti infondate risultano le censure espresse nel ricorso con riferimento all’aspetto riguardante la mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. su cui questo Collegio si è ampiamente soffermato nell’ambito del paragrafo 4 della parte in diritto della presente decisione, al cui contenuto si rinvia.
In ordine alla richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche in rapporto di prevalenza rispetto alla contestata aggravante, occorre rilevare come la Corte territoriale abbia offerto ampia e congrua motivazione circa le ragioni del diniego, manifestando piena adesione alla scelta del primo giudice di ritenere adeguata al caso in esame la concessione delle circostanze attenuanti generiche in rapporto di equivalenza rispetto alla contestata aggravante.
Nel richiamarsi ai principi generali ricordati nel precedente paragrafo 5.5, occorre rilevare, quanto alla specifica posizione di R.G., che le doglianze difensive appaiono sfornite di adeguatezza critica rispetto all’apparato argomentativo adottato dalla Corte territoriale, avendo la difesa lamentato, a supporto del motivo di ricorso, la mancanza nella motivazione della sentenza di una valutazione globale della gravità del reato, in uno con la personalità del reo.
La lettura della motivazione, consente di affermare la infondatezza della censura. La Corte territoriale, nel dare conto della propria scelta decisionale in materia di comparazione delle circostanze attenuanti generiche, non ha solo evidenziato la indubbia gravità del fatto nella sua oggettiva manifestazione, ma ha anche messo in risalto che, per la posizione rivestita nell’ambito dell’azienda e per le connotazioni della condotta serbata dal ricorrente, la sua corresponsablità nella determinazione dell’evento era da ritenersi di più elevato grado rispetto a quella degli altri imputati. Tali considerazioni rendono evidente che la soluzione adottata dal giudice di merito, insindacabile in questa sede, ha conferito prevalenza agli elementi riguardanti la gravità del fatto ed il grado di colpa del soggetto agente, attribuendo implicitamente un carattere recessivo ad ogni altro aspetto valutativo del fatto e della personalità del ricorrente.
7. I motivi di ricorso proposti in favore di B.M., che ben possono essere esaminati congiuntamente data la loro intima connessione, risultano fondati nei termini di seguito precisati.
La Corte territoriale, ai fini della pronuncia di responsabilità, ha evidenziato che il ricorrente sottoscrisse la “Convenzione di Fornitura per Azoto floxal” stipulata tra la A.L. e la soc. P.P.G. in data 10 maggio 1996. Tale convenzione prevedeva la duplice modalità di produzione dell’azoto, sia attraverso il compressore, sia attraverso il serbatoio di azoto criogenico, destinati a confluire nel medesimo serbatoio-polmone, inidoneo poiché realizzato in acciaio al carbonio e non in acciaio inossidabile. Ritenuti inconferenti i richiami operati dalla difesa circa la differenza tra fase progettuale e fase esecutiva nella realizzazione dell’impianto, la Corte territoriale ha posto in risalto che il B.M. aveva un preciso obbligo di controllo della rispondenza dell’impianto alle regole antinfortunistiche e di buona tecnica, avendo ricevuto, in data 24 giugno 1994, specifica delega che prevedeva tale compito, in un ambito di ampia autonomia gestionale in tema di costruzione di impianti per la distribuzione del gas.
Ha quindi ritenuto che, benché l’imputato avesse lasciato la società molto tempo addietro rispetto alla data del tragico evento, era al B.M. riferibile la stipula della convenzione con la P.P.G. e la progettazione di un impianto che aveva dato vita ad una forma di produzione ibrida di azoto che, sfornito dei presidi di prevenzione necessari e costruito con materiale non resistente a temperature inferiori a determinati gradi, era all’origine della esplosione.
Quanto alla prima proposizione, occorre rilevare come la stipula della convenzione non possa rappresentare di per sé violazione di una regola cautelare, per cui il profilo di colpa individuato nel compimento di tale atto non è fondato.
Quanto al secondo profilo, la Corte territoriale, nel definire la responsabilità del ricorrente, muove dalla premessa di una totale ed originaria fallibilità dell’impianto, mal concepito sin dalla sua fase progettuale. Tale premessa tuttavia contrasta con quanto si afferma nella stessa motivazione della sentenza circa la possibilità che i rischi connessi all’accidentale affluenza di azoto liquido nel serbatoio, potessero essere neutralizzati attraverso un appropriato sistema di rilevazione e di allarme che, originariamente esistente e, non più operante da un dato momento in poi, non fu mai ripristinato dai soggetti preposti alla gestione dell’unità locale.
Poiché l’impianto, nella sua fase ideativa e progettuale, era dotato di un sistema di allarme in grado di segnalare il ghiacciamento della valvola che regolava l’afflusso di azoto proveniente dall’impianto criogenico al serbatoio, i giudici del merito, ai fini della definizione dei profili di responsabilità del ricorrente, avrebbero dovuto tenere conto di tale aspetto e verificarne la incidenza sulla tenuta logica dell’impianto argomentativo.
Su tale punto si impone quindi l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza. Il giudice del rinvio dovrà fornire una più adeguata motivazione con riferimento all’aspetto evidenziato, che risolva la discrasia logica presente nel ragionamento offerto in sentenza.
8. Conclusivamente, la sentenza impugnata, alla luce delle argomentazioni svolte e dei principi illustrati, deve essere annullata limitatamente alle posizioni dei ricorrenti I.O.B. e B.M. – in relazione agli specifici punti quali dianzi evidenziati – con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.
Vanno invece rigettati i ricorsi di R.G., F.R. e B.D., con conseguente condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle posizioni di I.O.B. e B.M. e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Rigetta i ricorsi di R.G., F.R. e B.D., che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 5 giugno 2018

Scarica in pdf il testo della sentenza: cass. pen., sez. IV, sent. n. 39283-2018