Rifiuti. Terre e rocce da scavo, onere della prova, dimostrazione di assenza di inquinamento, sussistenza del reato ex art. 256 d. lgs. n. 152/2006. Cassazione Penale.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 36024 del 21 luglio 2017 (ud. del 15 febbraio 2017)

Pres. Cavallo, Est. Galtiero

Rifiuti. Terre e rocce da scavo. Art. 186, d. lgs. n. 152/2006. Onere della prova. Dimostrazione che le terre non sono inquinate. Insufficienza. Reato. Gestione non autorizzata. Art. 256, comma 1, d. lgs. n. 152/2006. Sussistenza.

In tema di gestione dei rifiuti, l’applicazione della disciplina sulle terre e rocce da scavo (art. 186, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152), nella parte in cui sottopone i materiali da essa indicati al regime dei sottoprodotti e non a quello dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante sull’imputato, della sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività consistente nella riutilizzazione dei suddetti materiali secondo un progetto ambientalmente compatibile, in quanto trattasi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria.

Tutti i materiali provenienti da escavazione o demolizione vanno qualificati come rifiuti speciali e non materie prime secondarie o sottoprodotti in assenza della dimostrazione che detti materiali siano destinati, sin dalla loro produzione, all’integrale riutilizzo per la riedificazione senza trasformazioni preliminari o compromissione della qualità ambientale.

COMMENTO:

La sentenza della Suprema Corte rimarca come la qualificazione delle terre e rocce da scavo come sottoprodotto e non rifiuto, con conseguente esclusione delle stesse dalla disciplina di cui al Titolo IV del d. lgs. n. 152/2006 in tema di rifiuti, è sempre subordinata alla dimostrazione, da parte di chi ne invochi la natura di non rifiuto, delle caratteristiche oggettive e soggettive prescritte per legge. In assenza di tale dimostrazione, i materiali sono da considerarsi rifiuti speciali e non materie prime secondarie o sottoprodotti, e pertanto un loro utilizzo non conforme comporta l’attribuibilità della violazione ex art. 256 d. lgs. n. 152/2006 per gestione non autorizzata di rifiuti.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 36024 del 21 luglio 2017 (ud. del 15 febbraio 2017)

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza in data 29.6.2016 il Tribunale di Pordenone ha condannato Luca Bertolo alla pena di C 6.000 di ammenda ritenendolo colpevole del reato di cui all’art. 256, comma 10 lett. a) d. lgs 152/2006 per aver, in qualità di legale rappresentante della sub-appaltatrice Bertolo s.r.I., in concorso con il legale rappresentante della società aggiudicataria di un intervento urgente di protezione civile nel Comune di Fiume Veneto e con il direttore dei lavori, effettuato la gestione non autorizzata di rifiuti costituiti da 22.000 metri cubi di terra e rocce da scavo stoccandoli su un fondo al di fuori dell’area di cantiere, omettendo di predisporre e depositare il piano preventivo di riutilizzo dei materiali da scavo e trasportandone una parte, senza autorizzazione, in un comune limitrofo al fine di riutilizzarlo come sottofondo stradale. Avverso la suddetta pronuncia l’imputato ha proposto ricorso in Cassazione affidando le proprie censure ad un unico pluriarticolato motivo. Lamenta il ricorrente che la sentenza impugnata non abbia tenuto conto della modifica legislativa operata con il d. lgs. 205/2010, in vigore all’epoca dei fatti contestati, che ha parificato ai sottoprodotti di cui all’art. 184-bis T.U.A. il materiale rimosso proveniente dagli alvei dei fiumi, laghi e torrenti, quale deve essere considerato quello in contestazione in quanto proveniente da interventi determinati da ragioni di sicurezza idraulica, come attestato dall’elenco dei prezzi unitari e dalla relazione descrittiva generale, e pertanto escluso dal novero dei rifiuti. Dal momento che il suddetto materiale, presentava, oltre alla provenienza, essendo originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante e non destinato direttamente alla sua produzione, tutti i requisiti di cui alla disposizione dell’art. 184-bis in quanto era certo che sarebbe stato destinato, come poi lo è stato, nel successivo processo produttivo di altri cantieri edili (lett. b), che era stato utilizzato senza ulteriore trattamento derivante dalla normale pratica edilizia (lett. c), che il reimpiego era legale avendo avuto un impatto ambientale praticamente nullo non essendo stato mai riscontrato un impatto negativo (lett. d), ne consegue che, secondo quanto dedotto dal ricorrente, la gestione del suddetto materiale doveva ritenersi essere stata effettuata nel rispetto della vigente disposizione di legge conforme alla normativa comunitaria. Peraltro anche a voler ritenere che il materiale estratto fosse diventato rifiuto secondo la previgente disciplina dell’art. 186, doveva comunque ritenersi che la suddetta natura fosse venuta meno rivestendo quella di materia prima secondaria per essere stato sottoposto ad un’operazione di recupero in aderenza agli specifici criteri dell’art. 184-ter.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso risulta inammissibile per difetto di specificità, sostanziandosi in censure meramente teoriche sulla disciplina applicabile ai sottoprodotti, senza prendere alcuna posizione specifica sulla sussistenza dei requisiti esclusi in concreto dalla sentenza impugnata in ordine alla riconducibilità del materiale estratto alla normativa vigente di cui all’art. 186 d. lgs. 152/2006 e dando al contempo per scontate le condizioni di fatto accertate invece come insussistenti. Invero l’atto di impugnazione prescinde quasi del tutto dalle argomentazioni sviluppate nella sentenza impugnata, limitandosi a sostenere che sarebbe errata la qualificazione dei materiali come rifiuti, rientrando essi nel novero delle terre e rocce da scavo e come tali assoggettati alla diversa disciplina dei sottoprodotti. In tema di gestione dei rifiuti, l’applicazione della disciplina sulle terre e rocce da scavo (art. 186, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152), nella parte in cui sottopone i materiali da essa indicati al regime dei sotto-prodotti e non a quello dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante sull’imputato, della sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività consistente nella riutilizzazione dei suddetti materiali secondo un progetto ambientalmente compatibile, in quanto trattasi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria: invero, come più volte ricordato da questa Corte Suprema, tutti i materiali provenienti da escavazione o demolizione vanno qualificati come rifiuti speciali e non materie prime secondarie o sottoprodotti in assenza della dimostrazione che detti materiali siano destinati, sin dalla loro produzione, all’integrale riutilizzo per la riedificazione senza trasformazioni preliminari o compromissione della qualità ambientale (tra le tante, Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015 – dep. 17/04/2015, Fortunato, Rv. 263336; Sez. 3 19.1.2012 n. 7374, Aloisio, Rv. 252101). Gravando quindi sulla difesa l’onere di dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti previsti dall’art. 186 d. lgs. 152/2006, non è sufficiente che le terre e rocce non siano inquinate perché si applichi la normativa ad esse inerenti, rientrando comunque nella nozione di rifiuto se non sussistono le condizioni previste in relazione al loro utilizzo dal 5° comma della norma in esame. Di tali principi i giudici di merito risultano aver fatto corretta applicazione avendo ritenuto, sulla base di apprezzamenti di fatto non censurabili in questa sede e con i quali il ricorrente comunque non si confronta, l’insussistenza tanto di un progetto volto a disciplinare il reimpiego della terra da scavo quanto della prova del loro riutilizzo secondo il suddetto progetto, per essersi l’imputato limitato a fornire la sola dimostrazione, per il tramite di analisi di laboratorio, di caratteristiche chimiche che ne escludevano la pericolosità ambientale, allegate alla domanda di autorizzazione al deposito temporaneo in attesa della effettiva destinazione, autorizzazione che, quantunque conseguita, era comunque venuta meno per essere il suddetto materiale rimasto nel deposito temporaneo oltre il termine di un anno previsto ex lege (art. 186, comma 2°). Manifestamente infondata è anche la doglianza relativa all’inapplicabilità, del regime previsto dal d. lgs. n. 152 del 2006 per effetto dell’abrogazione disposta dall’art. 39, comma 4, del d. lgs. n. 205/2010: la stessa è destinata infatti ad operare solo a seguito dell’entrata in vigore dei DM previsti dall’art. 184 bis del testo unico, dovendo corrispondere il sottoprodotto ai requisiti qualitativi o quantitativi stabiliti da tali provvedimenti. Pertanto, considerato che il citato art. 39, comma 4, del d. lgs n. 205/2010 prevede che l’abrogazione dell’art. 186 dei d. lgs n. 152/2006 opera solo a far data dall’entrata in vigore dei DM in materia di sottoprodotti, il predetto art. 186 ha assunto natura di norma temporanea, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 2 c.p., la relativa disciplina si applica in ogni caso ai fatti commessi nella vigenza della normativa in materia di terre e rocce da scavo, in quanto non sarebbe possibile attribuire la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali sulla base di disposizioni amministrative inesistenti all’epoca della loro produzione (Sez. 3, n. 33577 del 4/7/2012, Digennaro, Rv. 253662; Sez. 3, n. 17380 del 16/12/2014 – dep. 27/04/2015, Cavanna, Rv. 26334801). All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e di una somma equitativamente liquidata in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 2.000 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma il 15 febbraio 2017.

Scarica in pdf il testo della sentenza: cass. pen. sez. 3 n. 36024-2017