Diritto alimentare. Cattivo stato di conservazione. Cassazione Penale.

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 33313 del 1° agosto 2013 (ud. del 28 novembre 2012)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. MANNINO Saverio Felice – Presidente – del 28/11/2012
Dott. AMORESANO Silvio – Consigliere – SENTENZA
Dott. SAVINO Mariapia – rel. Consigliere – N. 2884
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere – REGISTRO GENERALE
Dott. ANDRONIO Alessandro M. – Consigliere – N. 11823/2012
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MARETTO ANTONIO N. IL 26/03/1960;
avverso la sentenza n. 1803/2008 TRIBUNALE di PADOVA, del 13/10/2011;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 28/11/2012 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARIAPIA GAETANA SAVINO;
Udito il Procuratore Generale in persona del dott. SPINACI Sante che ha concludo per annullamento senza rinvio perché il reato è estinto per prescrizione;
Udito il difensore Avv. Trombetti Paolo, Bologna.
RITENUTO IN FATTO
A seguito di opposizione a decreto penale di condanna veniva emesso decreto di giudizio immediato nei confronti di Maretto Antonio per il reato di cui alla L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. b e art. 6 perché, in qualità di Direttore Divisione Veneto, con responsabilità in materia di igiene degli alimenti del Centro cottura di Limena della Ditta CAMST, forniva alla Scuola Primaria Pascoli di Rubano delle pepite di pollo in cattivo stato di conservazione in quanto all’arrivo presentavano una temperatura di 42,5 invece di quella compresa tra i 60 ed i 65 come richiesto dal D.P.R. n. 327 del 1980, art. 31. Difatti, in occasione di un controllo igienico sanitario presso la mensa della scuola primaria Pascoli di Rubano da parte del personale dell’USL 16, veniva riscontrato che la temperatura delle pepite di pollo, destinate alla mensa stessa ed appena trasportate dalla ditta Camst incaricata del servizio, presentavano la temperatura di circa 45. Tale temperatura è parecchio inferiore alla temperatura minima di 60 imposta dal D.P.R. n. 327 del 1980 per i prodotti deperibili da consumarsi caldi al fine di evitare una moltiplicazione esponenziale della carica batterica. Dunque sono stati raccolti dei campioni del prodotto da analizzare. Le analisi condotte in apposito laboratorio hanno dato esito negativo quanto alla presenza di batteri. Ciononostante l’elevato margine di differenza tra la temperatura prevista per legge per l’alimento e quella rilevata è stata considerato indice di un cattivo stato di conservazione della pietanza in esame, rilevante ai sensi della L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. b). Sulla base di tali risultanze, quindi, è stato iniziato un procedimento penale a carico di Maretto Antonio che, in qualità di direttore di divisione Veneto della ditta CAMST (centri di cottura), era responsabile di fare attuare le norme generali in materia di igiene ed adeguata conservazione dei prodotti alimentari nel suo ambito di competenza territoriale. All’esito di tale procedimento il Tribunale di Padova, con sentenza emessa in data 13 ottobre 2011, riconosceva la penale responsabilità di Maretto Antonio per il reato di cui alla L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. b e art. 6 condannando lo stesso alla pena di Euro 1.500 di ammenda.
Avverso la suddetta sentenza il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi;
1) Erronea applicazione della legge penale: il reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1962, art. 5, comma 1, lett. b) non è un reato di mera condotta; per la sua configurazione non è sufficiente l’inosservanza delle corrette modalità di conservazione dell’alimento, ma deve valutarsi se da tale inosservanza possa in astratto derivare alterazione nociva dello stesso.
2) Contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza nella parte in cui prende in considerazione la sola misurazione termica di un alimento e non quella dei restanti al pari sotto la soglia regolamentare.
3) Mancata concessione del beneficio della non menzione ex art. 175 c.p.. Mancanza della motivazione in merito alla mancata concessione del beneficio della non menzione ex art. 175 c.p. anche ai sensi di quanto previsto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e). Inoltre il ricorrente ha messo in evidenza l’opportunità di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., comma 3 per contrasto con gli artt. 3 e 25 (rectius art. 24 Cost. perché poi parla di diritto di difesa).
RITENUTO IN DIRITTO
1. Preliminarmente merita dedicare qualche breve cenno alla suddetta questione di legittimità tenendo presente che si tratta di una problematica più volte portata all’attenzione della giurisprudenza di legittimità e sempre ritenuta inammissibile.
Come più volte affermato da questa stessa Corte, infatti, il diritto all’appello non è stato costituzionalizzato, sicché esso non può ritenersi imposto dall’art. 24 Cost.. Nè la esclusione della possibilità di proporre appello avverso le sentenze applicative della sola pena dell’ammenda confligge con il principio di ragionevolezza desunto dall’art. 3 Cost., in quanto il legislatore può ragionevolmente escludere l’appello per il caso in cui il giudice abbia condannato il contravventore alla sola pena dell’ammenda e conservarlo per il caso in cui il giudice abbia irrogato altra pena: la diversità di trattamento è giustificata dalla diversa valutazione della gravità del reato. In particolare, in caso di condanna ad una pena detentiva il secondo giudizio di merito trova giustificazione nella maggiore afflittività della sanzione derivante da una diversa valutazione della gravità del reato effettuata dal legislatore e, quindi, in definitiva in ragioni di politica giudiziaria. La questione è, quindi, inammissibile. 2. Quanto ai singoli motivi di ricorso occorre premettere che pur essendo privi di fondatezza non possono ritenersi manifestamente infondati.
2.1 In particolare, con il primo di essi la difesa lamenta una non corretta interpretazione della fattispecie di cui alla L. n. 283 del 1962, art. 5 lett. b) da parte del Tribunale di Padova. Quest’ultimo, secondo il ricorrente, ha ritenuto sufficiente ai fini dell’integrazione del reato in questione il semplice fatto che i prodotti trasportati dalla ditta CAMST fossero in cattivo stato di conservazione a causa della temperatura di circa il 20% inferiore ai valori prescritti dal D.P.R. n. 327 del 1980, art. 31 a prescindere dall’assenza, nel caso di specie, di una carica batterica effettivamente pericolosa e, quindi, potenzialmente idonea a mettere in pericolo la salute pubblica.
La difesa, invece, propone una diversa lettura della norma in questione circoscrivendo la punibilità ex art. 5, lett. b) ai soli casi in cui dal cattivo stato di conservazione possa derivare una alterazione nociva per l’uomo e, perciò, lesiva del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Dunque inquadra la fattispecie nel novero dei cd. reati di pericolo concreto. Di conseguenza, ritiene necessario che, oltre al mancato rispetto delle regole specifiche in materia di conservazione degli alimenti, il giudice verifichi anche che l’inosservanza abbia in concreto determinato l’insorgere di un pericolo per la salute pubblica.
In altre parole, secondo il ricorrente, il giudice dovrà effettuare “un giudizio bifasico: in primo luogo valuterà la corrispondenza del processo di conservazione dell’alimento alle prescrizioni specifiche (leggi, regolamenti, atti amministrativi generali) o generiche (ordinaria diligenza e principi di esperienza di dominio comune);
risolto negativamente il primo dubbio e stabilita la mancata osservanza delle prescrizioni, dovrà operare una seconda valutazione: se in concreto tale inosservanza abbia comportato l’insorgere del pericolo di contaminazione dell’alimento”. In ossequio a tale ricostruzione, la difesa sostiene che l’imputato avrebbe dovuto essere assolto perché il fatto non sussiste data la mancanza, nel caso concreto, di un reale pericolo per il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Difatti, come emerso dalle analisi, non si era sviluppata nelle pepite di pollo alcuna carica batterica. Le stesse, infatti, erano state a temperatura inferiore ai 60 richiesti per circa 1 ora a fronte delle 17 ore normalmente necessarie allo sviluppo di batteri.
In realtà il problema risiede nella corretta individuazione del significato da attribuire alla formula “cattivo stato di conservazione” impiegata all’art. 5, lett. b). Secondo l’orientamento prevalente cattivo stato di conservazione significa irregolare modalità di conservazione delle sostanze alimentari. Dunque è irrilevante verificare se, nonostante tali modalità di conservazione, gli alimenti siano ancora genuini. Sussiste, però, anche una tesi minoritaria secondo la quale l’espressione è riferita al prodotto in sè le cui qualità intrinseche dovrebbero risultare alterate a causa della non corretta conservazione.
La questione, peraltro, è stata sottoposta più volte alle Sezioni Unite che si sono attestate, seppur con argomentazioni in parte diverse, sull’orientamento prevalente. Una prima volta con la sentenza Timpanaro del 1996 (Sez. un., n. 1/1996). Successivamente con la sentenza Butti del 2002 ove si è ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 5, lett. b con riguardo alla somministrazione ad ospiti di anziani di un residence di cibi precotti contenuti in teglie scoperte alla temperatura di 26 da portare in tavola dopo 2 ore di conservazione in tali condizioni (Sez. Un., n. 443/2002). Tale soluzione deve considerarsi preferibile in quanto avvalorata dal dato letterale. Difatti il termine stato di conservazione, seppur ambiguo, nella maggior parte delle ipotesi indica l’insieme della attività volte al mantenimento delle caratteristiche originarie di una cosa (e non tanto l’effetto). Inoltre a sostegno di questa ricostruzione milita anche un altro aspetto di carattere sistematico: occorre riferire il reato di cui all’art. 5, lett. b) alle modalità di conservazione altrimenti, nessuno spazio di operatività avrebbe la disposizione, a fronte delle lett. a, c, d, le quali, nell’arco che va dalla privazione degli elementi nutritivi all’alterazione degli stessi, abbracciano tutti gli aspetti oggettivamente rilevabili di degenerazione delle caratteristiche intrinseche degli alimenti. In conclusione, il cattivo stato di conservazione della lett. b) riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate e cioè preparate o confezionate o messe in vendita senza l’osservanza di quelle prescrizioni di leggi, regolamenti o atti amministrativi generali che sono dettate a garanzia della buona conservazione al fine di prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione, contaminazione o cmq alterazione (scatolame bombato, arrugginito, involucri forati, intaccati, unti, bagnati, esposizione prolungata ai raggi solari di vino e olio, latte lasciato a temperature inadeguate, alimenti collocati in prossimità di insetti e simili). Dunque ai fini dell’integrazione della contravvenzione in esame si deve ritenere sufficiente l’inosservanza delle prescrizioni igienico sanitarie volte a garantire la buona conservazione del prodotto. Tali considerazioni fanno emergere l’infondatezza del primo motivo di ricorso.
2.2 Al pari infondato deve ritenersi il secondo motivo con cui si lamenta la contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza nella parte in cui prende in considerazione la sola misurazione termica di un alimento e non quella dei restanti al pari sotto la soglia regolamentare. In particolare il ricorrente sostiene che “se davvero il giudice ha adottato una presunzione assoluta di pericolosità dell’alimento data dalla non corrispondenza della conservazione a quanto stabilito dal D.P.R. n. 327 del 1980, art. 31 avrebbe dovuto valutare la mancata osservanza della norma anche con riguardo a pasta e patate poiché, seppur in misura minore, esse avevano una temperatura inferiore a quella minima consentita dal regolamento”.
Come precisato da autorevole dottrina, il vizio in esame attiene la logica argomentativa; la correttezza della inferenza probatoria, cioè del rapporto tra la premessa (il fatto noto: temperatura) e le conclusioni (fatto da provare: inosservanza DPR). In particolare si ha manifesta illogicità della motivazione quando il giudice ha fatto pessimo uso delle massime di esperienza o delle leggi scientifiche. Altra eventualità è che si verifichi un vizio di logica formale della motivazione, nel senso che il giudice non impiega la logica comune: i principi di non contraddizione, identità o del terzo escluso.
La motivazione della sentenza impugnata non presenta alcun vizio di tale genere. Il giudice non si è pronunciato in merito alla violazione attinente la temperatura di pane e pasta poiché tale aspetto non era oggetto di imputazione e non serviva a provare la sussistenza della fattispecie con riguardo alla condotta inerente le pepite di pollo contestata. Nè si può invocare l’altra ipotesi prevista dall’art. 606, lett. e della cd. contraddittorietà processuale della motivazione per il solo fatto che alcuni testi abbiano fatto riferimento alla temperatura anche di altre pietanze. Questo non è indice di un contrasto tra atti processuali e motivazione della sentenza ma è conseguenza della portata dell’imputazione che, come è noto, delimita l’oggetto del processo penale e vincola il giudice.
Il fatto, poi, che lo stesso non abbia sollecitato il PM ad ampliare l’imputazione non incide in alcun modo sulla logicità della motivazione ne’ sulla sua corrispondenza alle risultanze processuali;
e comunque il mancato esercizio di siffatto potere sollecitatorio da parte del giudice non si può certo ritenere una manchevolezza rientrante tra i vizi di legittimità che consentono di ricorrere in cassazione.
2.3 Per quanto concerne, infine, il terzo motivo di doglianza inerente la mancata concessione della sospensione condizionale, dal ricorso sembrerebbe che il beneficio non fosse stato richiesto. Difatti il difensore non utilizza mai alcun termine che faccia pensare ad una richiesta espressa in tal senso ma insiste sulla particolare tenuità della pena inflitta che, a suo parere, avrebbe dovuto automaticamente spingere il giudice a concedere la non menzione. Addirittura si fa riferimento ad una “facoltà implicitamente riconosciutagli in caso di prossimità della pena al minimo edittale”. Dunque non era necessaria una specifica motivazione sul punto non essendo stato portato all’attenzione del giudice nel momento opportuno.
3. Ciò posto va rilevato che il reato addebitato all’odierno imputato è prescritto. Dagli atti, infatti, risulta che i fatti di cui è causa sono stati accertati in data 5 dicembre 2006. Trattandosi di contravvenzione, in assenza di sospensioni, il termine di prescrizione previsto dalla legge è maturato in data 5 dicembre 2011.
Devono trovare applicazione i principi più volte espressi da questa stessa Corte in base ai quali in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129 c.p.p., comma 2 soltanto qualora le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, in modo tale che la valutazione richiesta al giudice risulti più vicina al concetto di “constatazione”, ossia di percezione “ictu oculi”, che a quello di “apprezzamento” e sia, quindi, incompatibile con qualsiasi necessità di ulteriori accertamenti (Cass., Sez. Un., 35490/2009). Orbene, come si evince dalle considerazioni in precedenza svolte, nel caso di specie non ricorrono le anzidette condizioni. Dunque va senz’altro applicata la causa estintiva in esame con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per prescrizione.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato per essere il reato estinto per prescrizione.
Così deciso in Roma, il 28 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2013