La procedura prescrittiva per l’estinzione delle contravvenzioni ambientali è obbligatoria? No. Cassazione Penale n. 40571/2021.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 40571 del 10 novembre 2021 (ud. del 14 ottobre 2021)

Pres. Petruzzellis, Est. Di Stasi

Estinzione delle contravvenzioni ambientali. Procedura estintiva mediante prescrizioni non obbligatoria.

Gli art. 318-bis e ss. d. lgs. 152/06 non stabiliscono che l’organo di vigilanza o la polizia giudiziaria impartiscano obbligatoriamente una prescrizione per consentire al contravventore l’estinzione del reato e l’eventuale mancato espletamento della procedura di estinzione non comporta l’improcedibilità dell’azione penale.

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 40571 del 10 novembre 2021 (ud. del 14 ottobre 2021)

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 17/01/2018, il Tribunale di Brindisi dichiarava [OMISSIS] responsabile dei reati di cui agli artt.256, comma 1 lett. a) d. lgs 152/06 (capo a) e 44 lett. c) d.P.R. n. 380/2001 (capo b)- per illecito smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da materiale derivante da attività di demolizione e costruzione, terra e roccia da scavo e realizzazione di un piazzale della superficie di mq 11501 in assenza di prescritti titoli abilitativi – e lo condannava alla pena di mesi sette di arresto ed euro 40.000,00 di ammenda.

Con sentenza del 27/01/2020, la Corte di appello di Lecce rideterminava la pena inflitta all’imputato, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, in mesi quattro di arresto ed euro 25.000,00 di ammenda.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione [OMISSIS] Martino, a mezzo del difensore di fiducia, articolando cinque motivi di seguito enunciati.

Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 256, comma 1 lett. a) d. lgs 152/06.

Argomenta che il materiale derivante dall’attività di demolizione e costruzione, terra e roccia da scavo non rientra nella qualifica di rifiuto, non trattandosi di sostanza od oggetto di cui il detentore intende o ha l’obbligo di disfarsi e che su tale punto la sentenza impugnata aveva espresso una motivazione viziata, priva di indicazione delle prove prese in considerazione e dei criteri interpretativi adottati e basata sull’affermazione erronea che l’onere di provare la qualità di sottoprodotto gravasse sull’imputato; inoltre, non era stato considerato che l’imputato era privo di una preparazione giuridica e normativa adeguata al caso processuale e non aveva la consapevolezza che il materiale posizionato sul terreno di sua proprietà, costituito prevalentemente da terra e rocce da scavo, potesse essere considerato rifiuto e richiedesse una preventiva autorizzazione a norma dell’art. 208 d. lgs 152/2006; la punibilità del reato in questione, quindi, andava esclusa, ravvisandosi nella condotta dell’imputato un errore sul fatto che costituisce reato e/o un errore sulla legge diversa dalla legge penale che ha determinato un errore sul fatto che costituisce reato.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 44 lett. c) d.P.R. n. 380/2001.

Argomenta che la condotta contestata al capo b) dell’imputazione era consistita nel livellamento di un terreno sconnesso mediante deposito di terra e rocce di scavo che non avrebbe potuto determinare una trasformazione permanente del territorio al pari di un intervento edilizio; tale opera rientrava nell’attività libera di cui all’art. 6 del d.P.R. 380/2001; la Corte di appello aveva espresso una motivazione viziata, priva di indicazione delle prove prese in considerazione e dei criteri interpretativi adottati; inoltre, non era stato considerato che l’imputato era privo di una preparazione giuridica e normativa adeguata al caso processuale; la punibilità del reato in questione andava esclusa per carenza dell’elemento soggettivo, ravvisandosi nella condotta dell’imputato un errore sul fatto che costituisce reato e/o un errore sulla legge diversa dalla legge penale che ha determinato un errore sul fatto che costituisce reato.
Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 131-bis cod. pen. lamentando che la Corte di appello aveva disatteso le deduzioni difensive sul punto con motivazione apparente.
Con il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 318-bis e ss. del d. lgs 152/2006, lamentando che la Corte di appello aveva disatteso le deduzioni difensive sul punto con motivazione apparente.

Con il quinto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento del minimo della pena e dei benefici di legge, lamentando che su tali questioni una assoluta carenza motivazionale nonostante la precisa e specifica richiesta avanzata nei motivi di appello.
Chiede, pertanto, l’annullamento con o senza rinvio della sentenza impugnata.

3. Si è proceduto in camera di consiglio senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, in base al disposto dell’art. 23, comma 8 d.l. 137/2020, conv. in l. n. 176/2020.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Va ricordato che, che la speciale disciplina sulle terre e rocce da scavo, nella parte in cui sottopone i materiali da essa indicati al regime dei sotto-prodotti e non a quello dei rifiuti, rientra tra quelle aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, cosicché l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge per la sua applicazione deve essere assolto da colui che la richiede (Sez.3, n.16078 del 10/03/2015, Rv. 263336; Sez. 3, n. 6107 del 17/1/2014, Rv. 258860; Sez. 3, n. 17453 del 17/4/2012, Rv. 252385; Sez. 3, n. 35138 del 18/6/2009, Rv. 244784; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Rv. 241504).

Inoltre, la consolidata giurisprudenza di questa Corte, ha sempre escluso l’applicabilità della speciale disciplina in presenza di materiali non rappresentati unicamente da terriccio e ghiaia, ma provenienti dalla demolizione di edifici o dal rifacimento di strade e, quindi, contenenti altre sostanze, quali asfalto, calcestruzzo o materiale cementizio o di risulta in genere, plastica o materiale ferroso (cfr Sez.3, n. 25206 del 16/05/2012, Rv.252981,01; Sez.3, n. 17126 del 2015, non mass.; Sez.3, n. 19942 del 2013, non mass.; Sez. 3, n. 37195 del 2010, non mass.).

Nel caso di specie, la Corte territoriale, confermando la valutazione del Tribunale, con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede, ha evidenziato che le risultanze probatorie comprovavano che il materiale rinvenuto sul fondo del ricorrente (proveniente da attività di demolizione e costruzione) aveva natura eterogenea, essendo composto da materiale edile, pezzi di asfalto, terre e rocce da scavo, sicché non poteva trovare applicazione la speciale disciplina sulle terre e rocce da scavo ma quella ordinaria in tema di rifiuti. Pertanto, in assenza della prescritta autorizzazione (art.208 d. lgs 152/2006) risultava integrato il reato contestato di cui all’art. 256, comma 1 lett. a) d. lgs 152/2006.
La motivazione è congrua e logica ed in linea con i principi di diritto suindicati.
Né coglie nel segno la doglianza con la quale si deduce l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato.
Va richiamato il consolidato principio di diritto affermato da questa Suprema Corte, secondo il quale la buona fede, che esclude nei reati contravvenzionali l’elemento soggettivo, può essere determinata solo da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell’interesse protetto dalla norma, idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta (Sez.1, n.47712 del 15/07/2015, Rv.265424; Sez.3, n.42021 del 18/07/2014, Rv.260657;Sez.3, n.49910 del 04/11/2009, Rv.245863; Sez.3, n.172 del 06/11/2007, dep.07/01/2008, Rv.238600; Sez.3, n.4951 del 17/12/1999, dep.21/04/2000, Rv.216561).
E’, quindi, pacifico, nella materia della gestione illecita dei rifiuti, che la buona fede che esclude nei reati contravvenzionali l’elemento soggettivo ben può essere determinata da un fattore positivo esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole. Tuttavia, in quelle decisioni emesse da questa stessa Sezione che hanno fatto applicazione di tale principio, l’applicazione della scriminante della buona fede è sempre stata riconosciuta in presenza di un comportamento, ancorché penalmente rilevante, ma indotto dal comportamento della P.A. (cfr. Sez.3, n.42021 del 18/07/2014, Rv. 260657 – 01; Sez. 3, n. 49910 del 04/11/2009, Rv. 245863).

Diversamente il mero convincimento soggettivo dell’agente di agire lecitamente, non confortato da provvedimenti espressi dell’autorità amministrativa nè da richieste di chiarimenti sul punto, non è idoneo ad escludere la sussistenza della “colpa” normativamente richiesta per la punibilità dell’agente.
Va, infatti, ricordato, con le Sezioni Unite di questa Corte – che a seguito della sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito- vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità. Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (Sez. Un. 8154 del 10/06/1994, Rv. 197885).

Nel caso in esame, invece, nessun comportamento positivo dell’amministrazione è emerso tale da poter indurre nel ricorrente l’erroneo convincimento soggettivo della liceità della gestione dei rifiuti, allegando il ricorrente la mera ignoranza dell’agente sia sulla normativa di settore che sul carattere illecito della propria condotta, certamente evitabile, così ponendosi il caso al di fuori dei limiti applicativi dell’efficacia scusante della buona fede nelle contravvenzioni ex art. 5, cod. pen., per come interpretato dalla sentenza della Corte cost. n. 364 del 1988 (cfr. in merito, Sez.3, n.35314 del 20/05/2016, Rv.268000, che ha precisato, in tema di elemento psicologico del reato, che l’ignoranza da parte dell’agente sulla normativa di settore e sull’illiceità della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza della colpa, se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della pubblica amministrazione).
La censura è, dunque, manifestamente infondata.

2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

I Giudici di merito, con conforme apprezzamento di fatto ed in aderenza alle risultanze istruttorie, hanno accertato che il ricorrente, in assenza dei titoli abilitativi, aveva realizzato, su area sottoposta a vincolo paesistico ed ambientale, interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante apporto di terreno e materiale inerte e successivo livellamento del terreno e ritenuto, quindi, integrato il contestato reato di cui all’art. 44 lett. c) d.P.R. n. 380/2001.

In particolare, l’opera abusiva era stata realizzata mediante lo spianamento di un terreno agricolo, in cui era stato rinvenuto il materiale inerte, attraverso l’apporto di materiale edile di risulta e terra, poi definitivamente collocati in modo da realizzare un piazzale di grandi dimensioni (circa 1.150 mq), alterando così l’andamento naturale della zona e, a tutta evidenza, anche delle sistemazioni idrauliche ed agrarie esistenti sul fondo, derivandone in tal modo la permanente trasformazione del fondo (cfr. pag. 5 della sentenza del Tribunale e pag. 3 della sentenza della Corte di appello).

La valutazione è in linea con i principi di diritti affermati da questa Corte in subiecta materia.
Questa Corte ha affermato, in tema di violazioni edilizie, che al fine di stabilire se i movimenti di terreno costituiscano o meno una trasformazione urbanistica del territorio, occorre valutare l’entità dell’opera che si intende realizzare, potendo gli stessi costituire sia spostamenti insignificanti sotto il profilo dell’insediamento abitativo per i quali non è necessario alcun titolo abilitativo, sia rilevanti trasformazioni del territorio, in quanto tali necessitanti il preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia di inizio attività (Sez.3, n.14243 del 05/03/2008, Rv.239663).
Inoltre, si è precisato che le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (Sez.3, n. 4916 del 13/11/2014, dep. 03/02/2015, Rv. 262475; Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008, dep. 24/02/2009, Rv.242741).
Ed è stato affermato che è soggetta a permesso di costruire l’esecuzione di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante apporto di terreno e materiale inerte e successivo sbancamento e livellamento del terreno, in quanto tale attività determina una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio (Sez. 3, n .1308 del 15/11/2016, dep. 12/01/2017, Rv. 268847 – 01).

Nella specie, come accertato in sede di merito, l’opera realizzata era finalizzata ad usi diversi da quelli agricoli ed aveva determinato una trasformazione irreversibile del territorio e, in difetto dei prescritti titoli abilitativi, ha, pertanto, integrato il reato contestato.

Quanto alla doglianza afferente alla sussistenza dell’elemento soggettivo vanno richiamate le considerazioni già espresse al par.1.

Va rimarcato che nessun comportamento positivo dell’amministrazione è emerso tale da poter indurre nel ricorrente l’erroneo convincimento soggettivo della liceità della attività edilizia, allegando il ricorrente la mera ignoranza dell’agente sia sulla normativa di settore che sul carattere illecito della propria condotta, certamente evitabile, in quanto lo svolgimento di un’attività nello specifico campo edilizio comporta un dovere di informazione sulle norme che regolano tale attività, con la conseguenza che l’inosservanza di tale obbligo rende colpevole e non scusabile l’eventuale ignoranza della legge penale.

3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La Corte territoriale, nel valutare la richiesta di applicazione della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., ha denegato la configurabilità della predetta causa di esclusione della punibilità, rimarcando la gravità del fatto sulla base di una valutazione in senso negativo delle modalità della condotta in relazione all’entità della struttura abusiva realizzata e del rilevante quantitativo di rifiuti oggetto dell’illecita gestione.

Le argomentazioni sono congrue e logiche e la motivazione è conforme al principio di diritto, secondo cui, ai fini dell’esclusione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell’assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall’art. 131-bis ritenuto, evidentemente, decisivo (Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Rv. 273678 – 01: Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Rv. 274647 – 01).

4. il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La procedura estintiva di cui all’art. 318-septies d. lgs. 152/2006, consente, con modalità analoghe a quelle stabilite dalle disposizioni che regolano la procedura di estinzione delle contravvenzioni in materia di sicurezza ed igiene del lavoro (d. lgs. 19 dicembre 1994, n. 758), di pervenire alla definizione delle contravvenzioni sanzionate dal d.lgs. 152/06 (artt. 318-bis — 318-octies). Essa si pone, sostanzialmente, come un’alternativa all’oblazione, più vantaggiosa, almeno per quanto riguarda gli importi da versare. Il sistema delle prescrizioni, rispetto alle norme gemelle del d.lgs. 758\94, presenta, inoltre, nell’art. 318-ter, alcuni adattamenti, evidentemente giustificati dalla particolarità della materia, attribuendo il potere di impartire prescrizioni non soltanto all’organo di vigilanza, ma anche alla polizia giudiziaria e stabilendo che la prescrizione sia «asseverata tecnicamente» dall’ente specializzato competente nella materia trattata.
Secondo il condivisibile orientamento di questa Corte, al quale il Collegio intende dare continuità, tale procedura non è affatto obbligatoria e, al pari dell’omologa procedura prevista dalla normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, di cui agli artt. 20 e ss. del d.lgs. n. 758 del 1994, l’omessa indicazione, da parte dell’organo di vigilanza, delle prescrizioni di regolarizzazione non è causa di improcedibilità dell’azione penale (cfr. Sez. 3, n. 38787 del 8/2/2018, De Tursi, che affermando tale principio ha richiamato l’attenzione su quanto affermato, da Sez. 3, n. 7678 del 13/01/2017, Bonanno, Rv.269140 – 01, che, in fattispecie relativa alla disciplina antinfortunistica ha affermato, in motivazione, che secondo una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina dettata dagli artt. 20 e ss. del d. lgs. n. 758 del 1994, la formale assenza della procedura estintiva non può condizionare l’esercizio dell’azione penale nei casi in cui, legittimamente, l’organo di vigilanza ritenga di non impartire alcuna prescrizione di regolarizzazione, tenuto conto che l’imputato può comunque richiedere di essere ammesso all’oblazione, sia in sede amministrativa, sia successivamente in sede giudiziaria e nella stessa misura agevolata).
Il parallelismo tra le due normative è stato rimarcato anche da Sez. 3, n. 36405 del 18/04/2019, Rv. 276681, che ha osservato che la procedura di estinzione prevista dal testo unico sull’ambiente è costruita sul medesimo meccanismo previsto dalla normativa di cui al d. lgs. n. 758 del 1994 e ne segue l’interpretazione; nell’esaminare la questione dell’applicabilità della procedura estintiva alle condotte esaurite, ha, quindi, richiamato il dictum della summenzionata Sez. n. 7678 del 13/01/2017, Bonanno, ove si è stabilito, previo richiamo ai precedenti arresti, che l’omessa indicazione, da parte dell’organo di vigilanza, delle prescrizioni di regolarizzazione non è causa di improcedibilità dell’azione penale.
Il principio è stato, poi, da ultimo affermato da Sez. 3, n. 49718 del 25/09/2019, Rv. 277468 – 01, che ha anche osservato che la obbligatorietà della speciale procedura in esame non può neppure rilevarsi dall’uso dell’indicativo presente da parte del legislatore nell’art. 318-ter d. lgs. 152/06 (“…impartisce al contravventore un’apposita prescrizione asseverata tecnicamente…”) trattandosi di una mera scelta dello stile espositivo e ben potendosi in concreto verificare situazioni analoghe a quelle considerate nell’esaminare la simile procedura stabilita in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ad esempio quando l’organo di vigilanza si determini a non impartire alcuna prescrizione perché non vi è alcunché da regolarizzare o perché la regolarizzazione è già avvenuta ed è congrua; si è, quindi, ribadito, che gli art. 318-bis e ss. d. lgs. 152/06 non stabiliscono che l’organo di vigilanza o la polizia giudiziaria impartiscano obbligatoriamente una prescrizione per consentire al contravventore l’estinzione del reato e che l’eventuale mancato espletamento della procedura di estinzione non comporta l’improcedibilità dell’azione penale.

Va, conseguentemente, ribadito che gli art. 318-bis e ss. d. lgs. 152/06 non stabiliscono che l’organo di vigilanza o la polizia giudiziaria impartiscano obbligatoriamente una prescrizione per consentire al contravventore l’estinzione del reato e l’eventuale mancato espletamento della procedura di estinzione non comporta l’improcedibilità dell’azione penale.

Ciò premesso, deve osservarsi che, nel caso di specie, attesa la non obbligatorietà della speciale procedura in esame, l’imputato non ha neppure comprovato di aver fatto richiesta di attivazione della procedura di cui agli artt. 318–ter e quater del d. lgs 152/2006, nella fase delle indagini preliminari, all’organo di vigilanza o alla polizia giudiziaria, ovvero o al p.m. (nell’ipotesi di cui all’art. 318-quinquies del d. lgs. cit.) risultando, preclusa e tardiva ogni richiesta effettuata nella fase dibattimentale del procedimento.

5. Il quinto motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La Corte territoriale, nel rideterminare la pena, ha richiamato globalmente i criteri di cui all’art. 133 cod. pen., irrogando una pena inferiore alla media edittale, ritenuta adeguata al fatto che ha interessato un’area particolarmente vasta ed ha riguardato un rilevante quantitativo di rifiuti sebbene non pericolosi.
La motivazione è congrua, alla luce del principio consolidato, in base al quale la motivazione in ordine alla determinazione della pena base (ed alla diminuzione o agli aumenti operati per le eventuali circostanze aggravanti o attenuanti) è necessaria solo quando la pena inflitta sia di gran lunga superiore alla misura media edittale, ipotesi che non ricorre nella specie.

Fuori di questo caso anche l’uso di espressioni come “pena congrua”, “pena equa”, “congrua riduzione”, “congruo aumento” o il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato sono sufficienti a far ritenere che il giudice abbia tenuto presente, sia pure globalmente, i criteri dettati dall’art. 133 c.p. per il corretto esercizio del potere discrezionale conferitogli dalla norma in ordine al “quantum” della pena (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009 Rv. 245596; Sez.4, n. 21294 del 20/03/2013, Rv. 256197).
Del pari congrua è la motivazione posta a fondamento del diniego di concessione dei richiesti benefici, avendo i Giudici di appello evidenziato quale elemento negativo preponderante il precedente penale dell’imputato.
Va ricordato che, in tema di sospensione condizionale della pena, il Giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133 cod. pen., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (Sez. 5, n. 57704 del 14/09/2017, Rv. 272087; Sez. 3, n. 35852 del 11/05/2016, Rv. 267639; Sez. 2, n. 37670 del 18/06/2015, Rv. 264802; Sez. 2, n. 19298 del 15/04/2015, Rv. 263534, Sez. 3 n. 6641 del 17/11/2009, Rv. 246184; Sez. 3, n. 30562 del 19/03/2014, Rv. 260136) e che tale principio regola anche la valutazione di concedibilità del beneficio della non menzione della condanna (Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011, Rv. 251509; Sez. 3, n. 35731 del 26/06/2007, Rv. 237542; Sez. 1, n. 560 del 22/11/1994, dep. 20/01/1995, Rv. 20002).

6. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

7. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso il 14/10/2021

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