Inquinamento acustico. Rumore proveniente da un locale pubblico sito in un condominio, risarcimento del danno nei confronti del gestore del locale. Cassazione Civile.

Cass. Civ., Sez. II, ord. n. 16407 del 4 luglio 2017

Inquinamento acustico. Rumore. Locale pubblico. Emissioni sonore oltre i limiti consentiti. Responsabilità del gestore dell’esercizio.  Responsabilità del proprietario dell’immobile. Esclusione. Art. 844 c.c. .

COMMENTO.

Con ordinanza n. 16407 del 4 luglio 2017, la Corte di Cassazione Civile ha statuito che in ambito di inquinamento acustico proveniente da un locale presente in un condominio (adibito a birreria), nella specie per volume eccessivo della musica e vociare degli avventori all’esterno del locale, debba rispondere soltanto il gestore del locale stesso, il quale, con propria condotta, abbia materialmente provocato l’inquinamento acustico. Deve escludersi, invece, in assenza di carenze strutturali dell’immobile locato, qualsiasi coinvolgimento del proprietario del suddetto locale, il quale quand’anche consapevole delle immissioni rumorose, non avrebbe fornito alcun apporto alla causazione del fatto dannoso.

La vicenda trae origine dalla citazione in giudizio di alcuni condomini dell’immobile ove era sita la birreria, i quali citavano altresì in giudizio, in solido con il gestore del locale, anche il proprietario dell’immobile, al fine di vedersi riconoscere il risarcimento dei danni derivante dall’attività di immissioni sonore provenienti dall’esercizio pubblico.

Accolta in primo grado, in sede di appello la sentenza di primo grado veniva parzialmenteriformata, in quanto la Corte di Appello di Milano dichiarava cessata la materia del contendere, in considerazione del fatto che l’esercizio commerciale risultava chiuso due mesi prima dell’azione giudiziaria; veniva rigettata la domanda proposta nei confronti del proprietario dell’immobile, atteso che nessuna condotta dannosa fosse addebitabile allo stesso.

Veniva dato rilievo alla relazione effettuata dall’ARPA, dalla quale emergeva come l’inquinamento acustico era dovuto al <<vociare degli avventori che si trattenevano all’esterno dell’esercizio commerciale, unitamente alla musica diffusa ad alto volume all’interno del locale ed alle voci dei clienti ivi presenti>>, alla circostanza che nel contratto di affitto era stata inserita la clausola relativa al divieto per il conduttore di <<esercitare attività rumorose che potessero arrecare disturbo ai condomini>> e che, comunque, il proprietario dei locali informato della situazione avesse invitato i gestori della birreria a prendere gli opportuni provvedimenti.

A seguito di ricorso per Cassazione, per violazione e falsa applicazione degli artt. 844, 2043, 2051 e 2059 c.c., la Suprema Corte si è richiamata a precedenti orientamenti secondo cui  “allorché le immissioni intollerabili originino da un immobile condotto in locazione, dunque, la responsabilità ex art. 2043 cod. civ. per i danni da esse derivanti può essere affermata nei confronti del proprietario, locatore dell’immobile, solo se il medesimo abbia concorso alla realizzazione del fatto dannoso, e non già per avere omesso di rivolgere al conduttore una formale diffida ad adottare gli interventi necessari ad impedire pregiudizi a carico di terzi (Cass. Civ. Sez. III sent. n. 11125 del 28/05/2015)”.

Per la Corte, appare evidente che la domanda risarcitoria per responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., possa essere esperita solo nei confronti del soggetto a cui la responsabilità dell’evento dannoso può essere imputata, e che pertanto l’azione sia esperibile nei confronti dell’autore del fatto illecito e nei confronti del custode ex art. 2051 c.c. .

Nella fattispecie in esame , pertanto, la domanda risarcitoria poteva essere proposta nei confronti del proprietario solo se egli avesse concorso alla realizzazione del fatto dannoso, quale autore o coautore dello stesso, mentre il solo fatto di essere proprietario, ancorché consapevole, ma senza alcun apporto causale al fatto dannoso, non è idoneo a realizzare una sua responsabilità aquiliana.

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Cass. Civ., Sez. II, ord. n. 16407 del 4 luglio 2017

Fatto

Con atto di citazione notificato nel settembre 2006 (…) ed (…) convennero innanzi al Tribunale di Sondrio la società (…) s.r.l. ed (…) per sentir accertare che le immissioni sonore nell’abitazione degli attori, sito in (…), e provenienti dall’esercizio pubblico (…), sito in via (…), eccedevano i limiti della normale tollerabilità e per sentir condannare la (…) s.r.l., in qualità di gestore dell’esercizio pubblico, ed (…), quale proprietario dei locali, in via solidale, ad eseguire le opere necessarie a mettere a norma il locale ed evitare la produzione di immissioni sonore oltre i limiti consentiti, nonché al risarcimento del danno biologico e morale subito dagli attori a causa delle immissioni suddette, nel periodo tra dicembre 2005 e luglio 2006.

Il Tribunale di Sondrio accolse la domanda attorea e condannò i convenuti, in solido, a corrispondere a ciascuno degli attori la somma di euro 10.000,00 a titolo di risarcimento del danno biologico e di euro 5.000,00 a titolo di risarcimento del danno morale.

La Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarò cessata la materia del contendere su tutte le domande diverse da quelle di risarcimento dei danni, atteso che il pub- birreria era stato chiuso nel luglio 2006, circa due mesi prima della notifica dell’atto di citazione innanzi al Tribunale di Sondrio. La Corte, inoltre, rigettò le domande di risarcimento del danno proposte contro (…), assumendo che la produzione delle immissioni sonore intollerabili non era addebitabile alla condotta del proprietario dei locali.

Ed infatti, sulla base della relazione predisposta dall’ARPA, la fonte di inquinamento acustico andava essenzialmente individuata nel vociare degli avventori che si trattenevano all’esterno dell’esercizio commerciale, unitamente alla musica diffusa ad alto volume all’interno del locale ed alle voci dei clienti ivi presenti e, dunque, la produzione delle immissioni acustiche intollerabili era riconducibile esclusivamente alla condotta del gestore dell’esercizio, per aver riprodotto brani musicali oltre limiti consentiti e per non aver dissuaso i clienti dal trattenersi all’esterno del locale vociando. A ciò è da aggiungersi che il (…) aveva inserito nel contratto di locazione il divieto per il conduttore di esercitare attività rumorose che potessero arrecare disturbo ai condomini”. Ancora, lo stesso era stato informato della situazione solo poco prima della chiusura del locale e, comunque, recependo le lamentele, aveva invitato i gestori del pub a un comportamento rispettoso della quiete del vicinato. In relazione alla domanda di risarcimento del danno proposta contro la (…) s.r.l., la Corte territoriale riduceva, in via equitativa, a euro 6.000,00 per ciascun coniuge il risarcimento del danno non patrimoniale, tenuto conto che le certificazioni mediche risultavano non idonee a provare il danno alla salute derivante dall’esposizione alle immissioni intollerabili e che il periodo di tale esposizione risultava di breve durata. La Corte, dunque, riteneva opportuno ridurre la liquidazione del danno non patrimoniale, ritenuto sussistente in re ipsa, per renderla compatibile con la modesta entità del fatto.

Per la cassazione di detta sentenza propongono ricorso, con cinque motivi, (…) ed (…) (…), illustrati da memoria ex art. 378 cpc.

(…) resiste con controricorso e propone ricorso incidentale, anch’esso illustrato da memoria ex art. 378 codice di rito.

La società (…) s.r.l. non ha svolto nel presente giudizio attività difensiva.

Considerato in diritto

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 844 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, deducendo che la Corte ha erroneamente dichiarato cessata la materia del contendere sebbene il locale, chiuso nel luglio del 2006, era stato riaperto nel settembre 2007 con le stesse immissioni intollerabili.

Secondo la prospettazione dei ricorrenti, inoltre, la chiusura del locale non sarebbe idonea a determinare la cessazione della materia del contendere, sussistendo l’interesse degli attori ad ottenere un provvedimento volto ad impedire la produzione in futuro di immissioni sonore oltre i limiti consentiti.

Il motivo non ha pregio, seppure deve correggersi sul punto la sentenza impugnata.

La Corte d’appello, infatti, in relazione alla domanda di inibitoria e di adozione delle necessarie misure per rendere tollerabili le immissioni sonore proposta nei confronti del quale proprietario dei locali, pur facendo impropriamente riferimento alla cessazione della materia del contendere, che ha natura meramente processuale ed è riconducibile all’estinzione del giudizio (Cass. 6617/2012) in conseguenza del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale ivi dedotta (Cass. 11813/2016), ha in effetti esaminato la domanda nel merito, ritenendola infondata.

E ciò non soltanto sul rilievo che le immissioni erano cessate prima della proposizione della domanda stessa, in conseguenza della cessazione dell’attività commerciale, ma pure sulla base della valutazione della natura delle immissioni e dell’individuazione della fonte di inquinamento acustico, giungendo alla conclusione che la rumorosità non fosse imputabile a carenze strutturali dell’immobile di proprietà del (…), ma a comportamenti riconducibili ai gestori dell’attività commerciale ivi svolta.

Con il secondo, articolato, motivo i ricorrenti denunciano la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 132 c.p.c., e la violazione degli am. 844 e 2043 c.c. in relazione rispettivamente all’art. 360 n. 4) e n. 3) c.p.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., deducendo che la Corte territoriale ha erroneamente escluso la responsabilità aquiliana del proprietario dell’immobile ed ha omesso di rilevare l’inidoneità del locale in questione, nonostante la necessità di lavori strutturali risultasse dalla relazione dell’ ARPA, dall’ordinanza del Comune di Caspoggio e dalla stessa ammissione di (…), proprietario del locale. Ne consegue che la Corte d’Appello ha del tutto omesso di fornire una motivazione sul fatto decisivo, costituito dalla inidoneità dei locali in cui veniva gestito il pub e dal mancato adeguamento degli stessi.

Le censure sono infondate.

Va anzitutto esclusa la nullità della sentenza per omessa motivazione, o c.d. “motivazione apparente” posto che la Corte territoriale ha chiaramente indicato l’iter logico seguito e la ratio decidendi in forza della quale ha escluso la necessità di lavori strutturali del locale del (…), in relazione alle immissioni sonore lamentate dagli odierni ricorrenti.

(Cass. Civ. Sez. L. Sent. del 08/01/2009 n. 161).

Del pari, non è ravvisabile l’omesso esame di un fatto decisivo che, nei termini in cui è formulato, si risolve nella sollecitazione a un nuovo esame delle risultanze probatorie, non ammissibile m sede di legittimità, posto che il fatto storico, rilevante in causa, è stato comunque preso in considerazione dal giudice di merito, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Civ. SS.UU. sent del 07/04/2014 n. 8053).

L’omesso esame di un fatto decisivo, non può invero consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice di merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice di individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove e scegliere, tra le risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione e dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, in cui un valore legale è assegnato alla prova.

Orbene, nel caso di specie il giudice dell’appello, previo esame e valutazione delle risultanze istruttorie, e segnatamente la relazione dell’ARPA di Sondrio, ha ritenuto, con valutazione di merito, che, in quanto adeguatamente motivata non è censurabile in sede di legittimità, che la fonte dell’inquinamento dovesse individuarsi nella musica diffusa a volume eccessivo nonché nel vociare degli avventori presenti nel locale e di quelli che si trattenevano all’esterno e fosse dunque unicamente riconducibile alla condotta dei gestori dell’esercizio commerciale.

Di qui la conclusione che la causa delle immissioni sonore non dovesse individuarsi nella inidoneità dei locali ma in un utilizzo dei medesimi non corretto da parte della conduttrice, dandosi rilievo, m particolare, alla clausola del contratto di locazione che prevedeva il divieto di esercitare nei locali in questione attività rumorose e di utilizzare strumenti musicali, con conseguente esclusione della responsabilità del proprietario dei locali.

Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 844, 2043, 2051 e 2059 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., deducendo, sotto altro profilo, che la Corte ha erroneamente escluso la responsabilità del proprietario dei locali per la produzione delle immissioni sonore intollerabili, atteso che (…) aveva ricevuto le lamentele del vicinato prima di ricevere la formale diffida nel giugno 2006 e, ciò nonostante, aveva omesso di intervenire per impedire le immissioni con tutti i mezzi a sua disposizione. Da qui la grava colpa omissiva a suo carico.

Pure tale censura è infondata.

In relazione alla responsabilità di (…), proprietario dell’immobile, occorre premettere che, secondo l’indirizzo interpretativo di questa Corte, l’azione di natura “reale”, esperita per l’accertamento dell’illegittimità delle immissioni e per la realizzazione delle modifiche strutturali necessarie al fine di far cessare le stesse nei confronti del proprietario del fondo da cui tali immissioni provengono è distinta e può essere cumulata con la domanda verso altro convenuto, per responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ., volta ad ottenere il risarcimento del pregiudizio di natura personale da quelle cagionato (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2013, n. 4848). Quest’ultima domanda risarcitoria va proposta secondo i principi della responsabilità aquiliana e cioè nei confronti del soggetto individuato dal criterio di imputazione della responsabilità; quindi nei confronti dell’autore del fatto illecito (materiale o morale), allorché il criterio di imputazione è la colpa o il dolo (art. 2043) e nei confronti del custode della cosa allorché il criterio di imputazione è il rapporto di custodia ex art. 2051 c.c.

Allorché le immissioni intollerabili originino da un immobile condotto in locazione, dunque, la responsabilità ex art. 2043 cod. civ. per i danni da esse derivanti può essere affermata nei confronti del proprietario, locatore dell’immobile, solo se il medesimo abbia concorso alla realizzazione del fatto dannoso, e non già per avere omesso di rivolgere al conduttore una formale diffida ad adottare gli interventi necessari ad impedire pregiudizi a carico di terzi (Cass. Civ. Sez. IlI sent del 28/05/2015 n. 11125).

Nella fattispecie in esame , pertanto, la domanda risarcitoria poteva essere proposta nei confronti del proprietario solo se egli avesse concorso alla realizzazione del fatto dannoso, quale autore o coautore dello stesso, mentre il solo fatto di essere proprietario, ancorché consapevole, ma senza alcun apporto causale al fatto dannoso, non è idoneo a realizzare una sua responsabilità aquiliana. Apporto causale all’evento dannoso che la Corte territoriale ha escluso in base alla valutazione, logicamente argomentata, delle circostanze di fatto e delle risultanze probatorie, in considerazione, non soltanto della già evidenziata insussistenza di carenze strutturali dell’immobile e del divieto di immissioni sonore, specificamente previsto nel contratto di locazione, ma anche del comportamento tenuto dal proprietario dei locali, il quale risultava essersi in concreto adoperato presso il conduttore, sia verbalmente, che mediante diffida scritta, per la cessazione delle immissioni.

Con il quarto motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 e 2059 c.c. e dell’art. 185 c.p. in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 n.5 c.p.c., deducendo che la Corte territoriale ha erroneamente ridotto la liquidazione del risarcimento del danno non patrimoniale a favore dei coniugi (…), (…) atteso che non ha tenuto conto che le immissioni intollerabili si verificavano per tre-quattro volte alla settimana e negli orari notturni, circostanze confermate dai testi escussi, della relazione dell’ARPA del 19.05.2006, della querela per imbrattamento e disturbo del riposo delle persone sporta da (…) il 17.01.2006, elementi che avrebbero comportato la liquidazione di un danno non patrimoniale più elevato rispetto a quanto stabilito dalla Corte.

Il motivo è inammissibile per diversi profili.

Come già precisato, l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di cui all’art. 360 n. 5) codice di rito, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Civ. SS.UU. sent del 07/04/2014 n. 8053).

Nel caso in esame, la censura formulata dai ricorrenti avverso la sentenza della Corte d’Appello non ha ad oggetto l’omesso esame di un fatto ma l’omesso esame di talune risultanze probatorie e si risolve, quindi, nella sollecitazione ad un nuovo esame delle stesse, non ammissibile in sede di legittimità, atteso che la Corte territoriale ha tenuto conto di tutte le circostanze di fatto ritenute rilevanti ai fini della decisione della causa, come risulta dalla motivazione della sentenza impugnata, ed ha ritenuto di ridurre il risarcimento del danno non patrimoniale sulla base della valutazione, congruamente e logicamente motivata, delle certificazioni mediche prodotte dagli odierni ricorrenti, le quali, ad avviso della Corte, non risultano idonee a provare il danno alla salute lamentato a causa dell’esposizione a fonti rumorose intollerabili.

Con il quinto motivo i ricorrenti affermano l’applicabilità dell’art. 384 comma 2 c.p.c. al caso in esame con conseguente decidibilità della causa nel merito, senza necessità di rinvio.

Il motivo è inammissibile in quanto non si sostanzia in una censura alla sentenza impugnata ma, piuttosto, nella mera sollecitazione alla decisione nel merito della causa senza rinvio al giudice di merito.

La reiezione del quarto motivo del ricorso principale, avente ad oggetto la liquidazione del danno, assorbe l’esame del ricorso incidentale condizionato.

Con il secondo motivo di ricorso incidentale, il (…) denunzia la violazione degli artt. 91 e 92 cpc in relazione all’art. 360 n. 3) cpc, nonché l’insufficiente motivazione ex art. 360 n. 5) cpc in relazione alla statuizione di integrale compensazione delle spese di lite nei confronti degli odierni ricorrenti.

Il motivo non ha pregio.

Va anzitutto affermata l’inammissibilità della censura di carenza motivazionale atteso che l’insufficiente motivazione non è più censurabile alla luce del nuovo disposto del n. 5) comma 1 dell’art. 360 codice di rito, (Cass. Ss.Uu. n. 8053/2014) applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, atteso che la sentenza impugnata è stata pubblicata il 31 maggio 2013.

Ciò posto, deve farsi qui applicazione del principio secondo cui in tema di spese processuali, avuto riguardo al regime anteriore alle modifiche dell’art. 92 stabilite dall’art. 2 comma 1 lett a) l. 28 dicembre 2005 n. 263 e dell’art. 45 l. 18 giugno 2009 n. 69, il potere di disporre la compensazione delle spese “per giusti motivi” è riservata al prudente apprezzamento del giudice di merito ed il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa.

Ed invero, posto che la scelta di compensare le spese processuali può essere censurata in sede di legittimità quando siano illogiche o contraddittorie le ragioni poste alla base della motivazione, e tali da inficiare per inconsistenza o erroneità il processo decisionale (Cass. n. 7763/2012), nel caso di specie deve rilevarsi che è stata accertata l’intollerabilità delle immissioni, ancorché non riconducibili ad un comportamento direttamente imputabile al proprietario dei locali, il che costituisce adeguato fondamento della disposta compensazione, in via equitativa, delle spese di lite.

In conclusione, va respinto il ricorso principale, con assorbimento del ricorso incidentale condizionato. Va respinto l’ulteriore motivo di ricorso incidentale.

I ricorrenti, maggiormente soccombenti, alla luce del limitato oggetto del ricorso incidentale, che censurava il solo capo sulla regolazione delle spese di lite, vanno condannati alla refusione delle spese del presente giudizio in favore del (…).

Nulla sulle spese nei confronti dell’intimata (…) s.r.l. che non ha svolto, nel presente giudizio, attività difensiva.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 qua ter Dpr 115 del 2002 sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, nonché del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, rispettivamente, per il ricorso principale e di quello incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13

P.Q.M.

Respinge il ricorso principale.

Dichiara assorbito il primo motivo del ricorso incidentale condizionato, rigetta l’ulteriore motivo del ricorso incidentale proposto da (…).

Condanna i ricorrenti, in solido, alla refusione delle spese del presente giudizio in favore di (…) (….), che liquida in complessivi 3.200,00 €, di cui 200,00 € per rimborso spese vive, oltre a rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater Dpr 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, nonché del ricorrente incidentale (…), dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, rispettivamente, per il ricorso principale e di quello incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.