Rifiuti. Cave, nozione di sottoprodotto, caratteristiche per l’esenzione da rifiuto, “mistone”, definizione di “normale pratica industriale”. Cassazione Penale.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 41533 del 12 settembre 2017 (ud. del 15 dicembre 2016)

Pres. Ramacci, Est. Gentili

Rifiuti. Cave. Attività di coltivazione di cave e di livellamenti agrari. Nozione di sottoprodotto. Attività qualificabile come gestione dei rifiuti. Art. 184-bis – 185 d. lgs. n. 152/2006. All. 3 d.m. n. 161/2012. Materiali da scavo. Caratteristiche per l’esenzione dalla disciplina sui rifiuti. Presupposti e limiti al trattamento derogatorio. Qualificazione giuridica del “mistone”. Impianto di vagliatura e lavaggio degli inerti. Definizione di “normale pratica industriale”. Attività di trattamento dei rifiuti. Autorizzazioni. Necessità.

Rientrano nella categoria dei rifiuti anche le sostanze e gli oggetti che, non più idonei a soddisfare le finalità cui essi erano originariamente destinati, siano tuttavia non privi di un valore economico, sicché gli stessi possano essere dismessi da colui che li possiede anche attraverso la conclusione di negozi giuridici sia a titolo gratuito che oneroso. In tal senso può essere ritenuta, attività qualificabile come gestione dei rifiuti la compravendita di terra sottratta dal suo naturale sito che, in linea di principio, colui il quale ha eseguito le opere si trova nella condizione di doversene disfare (nella specie opere di livellamento di terreno agrario).

Sono sottratte dalla disciplina dei rifiuti, i materiali da scavo derivante dalle opere di livellamento dei terreni, eseguiti in cantieri di piccole dimensioni la cui produzione non superi i 6000 mc di materiale, se rientranti nelle caratteristiche cui all’articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, e se il produttore dimostri che ai fini di cui alle lettere b) e e) (cioé ai fini del riutilizzo del materiale ovvero della sua destinazione ad un successivo ciclo produttivo) non è necessario sottoporre i materiali ad alcun preventivo trattamento, fatte salve le normali pratiche industriali e di cantiere. Ove tale condizione non sia soddisfatta il materiale in questione non godrà del trattamento derogatorio di cui all’art. 184-bis del d. lgs. n. 152 del 2006 e dovrà essere, pertanto, qualificato come rifiuto a tutto gli effetti.
La qualificazione giuridica del “mistone” come sottoprodotto è riferibile alle solo ipotesi in cui il reimpiego avvenga “direttamente, senza alcuna trattamento”, laddove la disposizione in materia (art. 184-bis del d. lgs. n. 152 del 2006) fa comunque salvi i trattamenti che rientrino nelle “comuni pratiche industriali e di cantiere”. Pertanto, si deve escludere la possibilità di attribuire al “mistone” la qualifica di sottoprodotto, nei casi in cui vi sia, la necessità di installazioni industriali non irrilevanti, nella specie, istituzioni di vasche di decantazione del materiale lavato e significativi aspetti di successivo impatto ambientale sia per la presenza di cospicui effluenti idrici rivenienti dalla attività di lavaggio del “mistone” sia per la presenza, non certo indifferente, di copiosi residui a loro volta inquinanti costituiti dal limo derivante dall’avvenuto lavaggio del “mistone”. Sicché, una tale complessità operativa non può coniugarsi con il concetto di “comuni pratiche industriali e di cantiere”, dovendosi ritenere che queste siano invece limitate a marginali interventi eseguiti sui sottoprodotti non necessitanti di complesse infrastrutture operative né, comunque, tali da comportare la successiva necessità di procedere, in esito al loro svolgimento, allo smaltimento di copiose quantità di ulteriori materiali ad esse residuati.

 
 Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 41533 del 12 settembre 2017 (ud. del 15 dicembre 2016)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA 
sul ricorso proposto da SBOLLI Ivano, nato a Bordolano (Cr) il 30 maggio 1959;
avverso l’ordinanza del Tribunale di Brescia del 21 giugno 2016;
letti gli atti di causa, ordinanza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Pasquale FIMIANI, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Brescia, in funzione di giudice del riesame dei provvedimenti cautelari reali, ha, con ordinanza emessa in data 21 giugno 2016, rigettato la richiesta di riesame del decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip del medesimo Tribunale il precedente 21 maggio 2016 ed avente ad oggetto, oltre a documentazione contabile ed amministrativa, l’impianto di vagliatura e lavaggio degli inerti in uso presso lo stabilimento della Sbolli Ivano & c. Snc nonché tre cumuli di materiali già lavorati, costituiti da ghiaia, ghiaietto e sabbia, per circa complessivi 900 mc, ed un ulteriore cumulo, di circa 1000 mc, di “mistone”, proveniente da opere di livellamento agrario, ancora da lavorare.
Il sequestro preventivo era stato disposto sulla base del rilievo che la detta impresa svolgeva attività di trattamento di rifiuti non pericolosi in assenza della necessaria autorizzazione.
Nel respingere il reclamo cautelare proposto, il Tribunale del riesame ha ritenuto che il materiale detto “mistone” dal quale, attraverso l’opera di lavaggio e vagliatura, si selezione la ghiaia, la sabbia ed altri materiali inerti, dei quali la Sbolli Snc fa commercio, rientrasse nella nozione di rifiuto non essendo ad esso applicabile né la disciplina di cui all’art. 186 del dlgs 152 del 2006, né quella di cui al dm n. 161 del 2012, né, infine, quella di cui all’art. 184-bis del citato dlgs n. 152 del 2006.
Integrando, pertanto, l’attività svolta dalla Sbolli Snc un’ipotesi di trattamento di rifiuti, per il suo svolgimento sarebbe stata necessaria la prescritta autorizzazione della quale, invece, essa era priva.
Pertanto, onde evitare che l’illecito giungesse ad ulteriori conseguenze si imponeva il trattenimento del sequestro preventivo in atto.
Avverso la detta ordinanza ha interposto ricorso per cassazione Sbolli Ivano, difeso dal proprio avvocato di fiducia, in quanto persona indagata, affidandolo a due motivi.
Col primo di essi è dedotta la violazione di legge, in particolare con riferimento alla qualificazione giuridica attribuita al “mistone”; ha, infatti, osservato il ricorrente che deve escludersi che al predetto materiale debba applicarsi la disciplina riferita alle terre ed alle rocce da scavo, posto che esso deriva da operazioni di livellamento agrario; ha aggiunto il ricorrente che, in ogni caso, la disciplina relativa alle terre e rocce da scavo, succedutasi nel tempo, è relativa ai materiali provenienti da attività od opere per le quali sia stata necessaria la valutazione di impatto ambientale ovvero la autorizzazione integrata ambientale, sicché la stessa non sarebbe pertinente al caso in esame.
Ha ulteriormente precisato il ricorrente che la violazione di legge in cui sarebbe incorso il Tribunale di Brescia ha avuto ad oggetto anche la qualificazione del “mistone” come rifiuto ai sensi dell’art. 185, comma 4, del dlgs n. 152 del 2006; posto, infatti, che il materiale in questione è stato oggetto di una regolare compravendita fra imprese commerciali, dovrebbe escludersi che lo stesso rientri nel novero delle sostanze della quali il detentore (in questo caso il soggetto che le ha cedute alla Sbolli Snc) si sia disfatto ovvero abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi.
Si tratta, prosegue il ricorrente, di valutare a questo punto se al materiale in questione sia applicabile la definizione, erroneamente esclusa dal tribunale, di sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis del dlgs n. 152 del 2006.
Secondo il ricorrente trattandosi di sostanza che può essere utilizzata da parte di un terzo in un ciclo di produzione ulteriore rispetto a quello che ne ha determinato la disponibilità in capo al cedente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale, ad esso si attaglia perfettamente la qualificazione di sottoprodotto.
In particolare il ricorrente ha rilevato, quanto alla definizione di “normale pratica industriale”, unico trattamento compatibile con la nozione di sottoprodotto, che è lo stesso legislatore che nell’allegato 3 del dm n. 161 del 2012 definisce, con riferimento alla terre e rocce da scavo, quale normale pratica industriale per queste le operazioni finalizzate al miglioramento delle loro qualità merceologiche per renderne l’utilizzo produttivo e tecnicamente efficace, fra le quali inserisce anche quelle volte alla “selezione granulometrica del materiale da scavo”; questa operazione, conclude il ricorrente, non è altro che la vagliatura operata dalla Sbolli per distinguere e separare i vari materiali inerti presenti nel “mistone”.
Quale secondo motivo di impugnazione il ricorrente ha dedotto l’omessa motivazione, concretante in ipotesi una violazione di legge, in ordine alla prospettata possibilità, rimasta senza risposta da parte del Tribunale, di ritenere che i materiali oggetto di sequestro, lungi dal rientrare nella categoria dei rifiuti, costituiscano invece materia prima riveniente dalla attività di coltivazione di cave e di livellamenti agrari, come documentato in sede di richiesta di riesame.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso e infondato e, pertanto, lo stesso deve essere rigettato. Osserva, infatti il Collegio che il punto nodale della presente questione, idoneo a fornire una risposta ad ambedue i motivi di impugnazione articolati dal ricorrente, è costituito dalla necessaria qualificazione giuridica da attribuire, sotto il profilo della sua natura, al cosiddetto “mistone”, cioè al coacervo di terra e altri materiali inerti provenienti, nel caso in esame da opere di livellamento del terreno eseguite da terzi rispetto alla impresa della quale è amministratore l’attuale ricorrente, che, a seguito di operazioni di lavaggio e vagliatura, porta alla selezione ed alla suddivisione in funzione della pezzatura dei singoli componenti del materiale inerte che, successivamente, la impresa dello Sbolli provvede a commercializzare.
Il punto è, pertanto, se lo stesso possa essere qualificato come sottoprodotto, godendo, pertanto della specifica disciplina derogatoria rispetto a quella ordinaria concernente la gestione dei rifiuti ovvero se lo stesso debba essere, invece, definito come ordinario rifiuto.
Rileva, preliminarmente, il Collegio come, diversamente da quanto considerato dal ricorrente, non sia elemento significativo ai fini della qualificazione giuridica del prodotto in questione il fatto che lo stesso sia stato oggetto di negozi di diritto privato in forza dei quali la Società Sbolli ne ha acquistato la disponibilità da parte delle imprese che avevano eseguito le opere di livellamento agrario in esito alle quali i materiali in questione erano stati prelevati dal terreno.
Come, infatti, questa Corte ha più volte affermato, nella categoria dei rifiuti rientrano anche le sostanze e gli oggetti che, non più idonei a soddisfare le finalità cui essi erano originariamente destinati, siano tuttavia non privi di un valore economico, sicché gli stessi possano essere dismessi da colui che li possiede anche attraverso la conclusione di negozi giuridici sia a titolo gratuito che oneroso (cosi, ad esempio, già: Corte di cassazione, Sezione III penale, 26 febbraio 1991, n. 2607); in tal senso è stata ritenuta, in via esemplificativa, attività qualificabile come gestione dei rifiuti la compravendita dei cascami della lavorazione dei latticini (Corte di cassazione, Sezione III penale, 2 agosto 23004, n. 33205).
Nel nostro caso, trattandosi di quantità di terra sottratta al suo naturale sito, è evidente che, in linea di principio, colui il quale ha eseguito le opere di livellamento del terreno si trova nella condizione di doversene disfare.
Con riferimento alla possibilità di qualificare sotto la forma giuridica del sottoprodotto il materiale derivante fra l’altro, dalle opere di livellamento dei terreni eseguite in cantieri di piccole dimensioni la cui produzione non superi i 6000 mc di materiale, osserva il Collegio, che la disciplina di riferimento è, ad oggi, quella dettata dall’art. 41-bis del decreto legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, con la legge n. 98 del 2013, in forza del quale: “i materiali da scavo di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), del citato regolamento (si tratta del regolamento di cui al Dm n. 161 del 2012), prodotti nel corso di attività e interventi autorizzati in base alle norme vigenti, sono sottoposti al regime di cui all’articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, se il produttore dimostra: ( … fra l’altro … ) che ai fini di cui alle lettere b) e e) (cioé ai fini del riutilizzo del materiale in questione ovvero della sua destinazione ad un successivo ciclo produttivo) non è necessario sottoporre i materiali da scavo ad alcun preventivo trattamento, fatte salve le normali pratiche industriali e di cantiere”.
Ove tale condizione non sia soddisfatta il materiale in questione non godrà del trattamento derogatorio di cui all’art. 184-bis del dlgs n. 152 del 2006 e dovrà essere, pertanto, qualificato come rifiuto a tutto gli effetti.
Tanto premesso, osserva il Collegio che correttamente il Tribunale di Brescia ha escluso la possibilità di attribuire al “mistone” rinvenuto presso lo stabilimento della impresa amministrata dal ricorrente la qualifica di sottoprodotto.
Sebbene sia vero che, con riferimento normativo in parte omissivo, il Tribunale abbia ritenuto che la predetta qualificazione giuridica sia riferibile alle solo ipotesi in cui il reimpiego avvenga “direttamente, senza alcuna trattamento”, laddove la disposizione dianzi citata fa comunque salvi i trattamenti che rientrino nelle “comuni pratiche industriali e di cantiere”, non appare corretta la interpretazione normativa, propugnata dal ricorrente, in forza della quale fra le “comuni pratiche industriali” rientri sia la vagliatura del “mistone” sia, soprattutto il suo preventivo lavaggio.
Infatti una tale pratica presenta – oltre che la necessità di installazioni industriali non irrilevanti, posto che debbono essere quanto meno istituite vasche di decantazione del materiale lavato – significativi aspetti di successivo impatto ambientale sia per la presenza di cospicui effluenti idrici rivenienti dalla attività di lavaggio del “mistone” sia per la presenza, non certo indifferente, di copiosi residui a loro volta inquinanti costituiti dal limo derivante dall’avvenuto lavaggio del “mistone”.
Non casualmente nella ordinanza impugnata il Tribunale di Brescia segnala la presenza, nei pressi dei cumuli di inerti nella disponibilità della impresa Sbolli, di materiale di risulta della attività di lavorazione del “mistone”, costituito, appunto, dai fanghi di lavorazione, depositato all’interno di una vasca.
Una tale complessità operativa non sembra coniugarsi con il concetto di “comuni pratiche industriali e di cantiere”, dovendosi ritenere che queste siano invece limitate a marginali interventi eseguiti sui sottoprodotti non necessitanti di complesse infrastrutture operative né, comunque, tali da comportare la successiva necessità di procedere, in esito al loro svolgimento, allo smaltimento di copiose quantità di ulteriori materiali ad esse residuati.
La assai verosimile, almeno in questa sede avente carattere cautelare, attribuzione al “mistone” in questione della qualifica di rifiuto comporta, stante la pacifica carenza da parte della impresa Sbolli delle autorizzazioni allo svolgimento della attività di trattamento dei rifiuti, la riscontrabilità nella fattispecie del requisito del fumus commissi delicti in capo al gestore della predetta impresa, e, pertanto, essendo indubbia la presenza dell’ulteriore requisito del pericolo nel ritardo connesso alla possibilità per la Sbolli Snc di proseguire nella sua attività illecita, la legittimità dell’avvenuto sequestro cautelare e della successiva ordinanza, ora impugnata, con la quale il detto provvedimento è stato confermato.
Al rigetto del ricorso fa seguito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali

PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016