Inquinamento atmosferico. Nozione di disastro ex art. 434 c.p., permanenza, prescrizione. Cassazione Penale n. 2209/2018.

Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 2209 del 19 gennaio 2018 (ud. del 10 gennaio 2018)

Pres. Carcano, Est. Centonze

Inquinamento Atmosferico. Caratteristiche del disastro ambientale. Emissioni nocive connesse al ciclo di produzione. Reato di disastro ambientale. Consumazione. Reati a effetti permanenti. Decorrenza del termine di prescrizione. Successive lesioni riconducibili al disastro. Nozione unitaria di “disastro”. Proiezione offensiva e dimensionale. Nozione di “evento”. Reato aggravato. Sicurezza sul lavoro. Reato omissivo improprio. Titolarità di una posizione di garanzia. Automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante.

Alla fattispecie prevista dall’art. 434 cod. pen., possono essere ricondotti non soltanto gli eventi disastrosi di grande immediata evidenza che si verificano magari in un arco di tempo ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che pure producano quella compromissione imponente delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l’esistenza di una lesione della pubblica incolumità. Né possono rilevare, in senso contrario, gli argomenti che si fondano sulla natura di delitto di pericolo dell’ipotesi disciplinata dal primo comma dell’art. 434 cod. pen. e sull’assimilabilità di questa fattispecie di reato al modello di incriminazione del tentativo. Una tale opzione ermeneutica, non tiene conto del fatto che il reato deve ritenersi consumato allorché la fattispecie è compiutamente realizzata in tutti i suoi elementi costitutivi, realizzando una piena corrispondenza tra il modello legale di incriminazione prefigurato dalla fattispecie di volta in volta considerata e il comportamento illecito oggetto di vaglio. Pertanto, la concretizzazione del disastro, così come prefigurata dall’art. 434, comma secondo, cod. pen., alla stregua di una circostanza aggravante, non comporta che, ai fini dell’individuazione della data di consumazione del reato e della decorrenza dei termini di prescrizione, l’evento non debba essere considerato.
Nell’ipotesi ex art. 434 cod. pen., la giurisprudenza di legittimità, tende a distinguere tra la perfezione del reato e la sua consumazione, affermando che la realizzazione di tutti gli elementi della fattispecie nel loro contenuto essenziale coincide con la perfezione del reato, segnando la linea di demarcazione indispensabile alla configurazione del tentativo. Tuttavia, tale coincidenza non necessariamente ne esaurisce la consumazione, che deve essere intesa quale momento in cui il reato perfetto si configura, tenuto conto del modello legale costituito dalla fattispecie incriminatrice, in questo caso rappresentata dal delitto di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen. (Sez. 4, n. 15444 del 18/01/2012, Tedesco; Sez. 3, n. 46189 del 14/07/2011, Passariello; Sez. 4, n. 36626 del 05/05/2011, Mazzei; Sez.1, n. 1332 del 14/12/2010, Zonta; Sez. 1, n. 7629 del 24/01/2006, Licata). Ne discende che, il riferimento alla consumazione del reato non significa esaurimento di tutti gli effetti dannosi collegati o collegabili alla realizzazione della fattispecie, giacché: o gli effetti dannosi coincidono con l’evento, ed allora l’esaurimento coincide con la consumazione; oppure si tratta di effetti ulteriori, ed allora questi possono essere presi in considerazione ai fini della gravità del reato o del danno risarcibile, ma non incidono sul momento consumativo del reato (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny). La distinzione, in questo modo, finisce per coincidere con quella tra inizio e cessazione della consumazione, assumendo rilevanza, ai fini del decorso del termine della prescrizione, nei reati a consumazione protratta per definizione normativa, quali sono i reati permanenti (Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro; Sez. U, n. 18 del 14/07 /1999, Lauriola) ovvero i reati necessariamente abituali. Queste distinzione, al contempo, non svolge alcuna funzione di differenziazione sistematica rispetto all’individuazione del momento consumativo del reato e del dies a quo per il calcolo dei termini di prescrizione, con specifico riferimento agli effetti prolungati o permanenti dei reati istantanei.
Nei reati a effetti permanenti non si ha il protrarsi dell’offesa dovuta alla persistente condotta dell’agente, ma il solo protrarsi delle conseguenze dannose del reato, nel valutare le quali occorre considerare che tutti i reati possono produrre effetti più o meno irreparabili in relazione ai singoli casi concreti. Quella dei reati a effetti permanenti è una categoria priva di autonomia sistematica, rilevando esclusivamente allo scopo di distinguere i reati permanenti, quelli abituali e quelli a consumazione prolungata (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny). Mentre la prescrizione, per il reato consumato, decorre dal giorno della consumazione e la stessa si ha quando la causa imputabile ha prodotto interamente l’evento disastroso che forma oggetto della norma incriminatrice. Pertanto, nel delitto previsto dal capoverso dell’art. 434 cod. pen., il momento di consumazione del reato coincide con l’evento tipico della fattispecie e quindi con il verificarsi del disastro, da intendersi come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione; ne consegue che non rilevano, ai fini dell’individuazione del “dies a quo” per la decorrenza del termine di prescrizione, eventuali successivi decessi o lesioni pur riconducibili al disastro (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny).
Rientrano nella nozione unitaria di “disastro”, i tratti qualificanti (dimensione e pericolo), che si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti (Corte cost., sent. n. 327/2008). D’altra parte, non ci sono argomenti sistematici che consentano di affermare che nella nozione di evento di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen. rientrino solo i risultati che sono assunti come elementi costitutivi del reato e non anche quelli che importano un aggravamento della pena. Di conseguenza, per le ipotesi di reato aggravato dall’evento disciplinate dall’art. 434, comma secondo, cod. pen., la progressione criminosa si interrompe con il verificarsi dell’evento disastroso, che deve essere individuato nel caso di specie dall’aumento delle patologie respiratorie riscontrate nei minori di età pediatrica, compiutamente descritto.
Il giudice di appello che, nel pronunciare declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, accerti che la prescrizione del reato è maturata prima della sentenza di primo grado deve contestualmente revocare le statuizioni civili in essa contenute, con la conseguenza che è illegittima, in tal caso, la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile (Sez. 5, n. 44826 del 28/05/2014, Regoli). Nell’ambito di applicazione dell’art. 578 cod. proc. pen., quindi, è illegittima la sentenza d’appello nella parte in cui, accertando che la prescrizione del reato è maturata prima della pronuncia di primo grado, conferma le statuizioni civili in questa contenute; in tale ipotesi, infatti, non sussistono i presupposti in presenza dei quali l’art. 578 cod. proc. pen. consente al giudice dell’impugnazione di decidere sugli effetti civili anche nel caso in cui dichiari l’estinzione del reato (Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi). Inoltre, quando la declaratoria di estinzione del reato si verifichi prima dell’emissione della sentenza di primo grado (e non vi sono ulteriori verifiche giurisdizionali riservate al giudice del merito), inibisce la retrocessione del giudizio e travolge tutte le statuizioni civili precedentemente rese (Sez. 5, n. 44826 del 28/05/2014, Regoli; Sez. 6, n. 9081 del 21/02/2013, Colucci). Infine, in presenza di una causa di estinzione del reato, l’annullamento della decisione di assoluzione consegue esclusivamente al ricorso per cassazione, proposto, agli effetti della responsabilità civile, dalle parti private, alle quali è riconosciuto il diritto a una decisione sulla propria domanda (Sez. 6, n. 16147 del 02/04/2014, Re Mario; Sez. 2, n.46257 del 17/10/2013, Ranocchia; Sez. 5, n. 9638 del 24/11/2011, Banchero).
Nelle ipotesi in cui l’evento disastroso aggravante è previsto come finalità originaria dell’agente, l’approfondimento della lesione è tipizzato nella stessa norma incriminatrice alla stregua di una conseguenza legata alla sua condotta illecita, in relazione alla quale si configura un doppio evento, il secondo dei quali non rappresenta mero effetto dannoso esterno alla fattispecie astratta ma è per ogni aspetto evento interno ad essa, persino sotto il profilo del dolo, e perciò tipico, seppure non necessario per il perfezionamento nella forma “minima”, prevista per il titolo (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny). Pertanto, deve riconoscersi che, nell’ipotesi di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., la realizzazione dell’evento disastroso costituisce un elemento di aggravamento del delitto disciplinato dal primo comma della stessa fattispecie incriminatrice, fermo restando che la data di consumazione del reato in questione non può che farsi coincidere con il momento in cui l’evento disastroso si è realizzato. Assume, pertanto, rilievo decisivo, ai fini dell’inquadramento della disciplina prescrizionale applicabile nelle ipotesi di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., tenuto conto del momento di consumazione del reato, la questione dell’individuazione del verificarsi del disastro, che costituisce l’evento tipico della fattispecie aggravata.
In tema di reato omissivo improprio, la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione – da parte del garante – di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso (Sez. 4, n. 24462 del 06/05/2015, Ruocco; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 4, n. 34375 del 30/05/2017, Fumarulo; Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016, dep. 2017, Ferrentino; Sez. 4, n. 7783 dell’11/02/2016, Montaguti).
Il reato di disastro innominato contempla nella forma aggravata, un evento che è appunto il disastro verificatosi; il disastro è da intendere, perché sia assicurata, seguendo le rime obbligate desumibili dalla descrizione degli “altri disastri” nominati contemplati nel medesimo Capo I, la sufficiente determinatezza della fattispecie, come un fenomeno distruttivo naturale di straordinaria importanza; il pericolo per la pubblica incolumità, in cui risiede la ragione della incriminazione e che individua il bene protetto, funge da connotato ulteriore del disastro e serve a precisarne sul piano della proiezione offensiva le caratteristiche; il persistere del pericolo, e tanto meno il suo inveramento quale concreta lesione dell’incolumità, non sono richiesti per la realizzazione del delitto e non essendo elementi del fatto tipico non possono segnare la consumazione del reato. D’altra parte, il pericolo per la pubblica incolumità non può essere ritenuto, in quanto tale, un macroevento naturalistico, costituendo, sul piano dogmatico, l’espressione di un giudizio qualitativo di probabilità, che consente di collegare causalmente due fatti materiali, con la conseguenza che le connotazioni di pericolosità rilevano esclusivamente sotto il profilo probatorio, consentendo di ritenere sussistente il rischio di verificazione dell’evento disastroso prefigurato dall’art. 434 cod. pen. (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny).
Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 2209 del 19 gennaio 2018 (ud. del 10 gennaio 2018)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia;
Nel procedimento contro:
1) Conti Fulvio, nato il 28/10/1947;
2) Tatò Francesco Luigi, nato il 12/08/1932;
3) Scaroni Paolo, nato il 28/11/1946;
Nel quale risultano già costituite parti civili:
il Comune di Porto Tolle;
l’Associazione Legambiente O.N.L.U.S.; l’Associazione Italia Nostra O.N.L.U.S.; l’Associazione Italiana W.W.F. O.N.G. O.N.L.U.S.; il Ministero dell’Ambiente;
il Ministero della Salute;
la Provincia di Rovigo.
l’Associazione Greenpeace O.N.L.U.S.;
Avverso la sentenza emessa il 18/01/2017 dalla Corte di appello di Venezia;
Udita la relazione svolta dal Consigliere dott. Alessandro Centonze;
Udito il Procuratore generale, in persona del dott. Roberto Aniello, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
Uditi per gli imputati:
l’avv. Antonio Franchini e l’avv. Paola Severino per Fulvio Conti;
l’avv. Marco Deluca e l’avv. Laura Nella Luigia Miani per Luigi Francesco Tatò;
l’avv. Tommaso Bartoluzzi e l’avv. Enrico Maria De Castiglione per Paolo Scaroni;
Uditi per le parti civili:
l’Avvocatura generale dello Stato, in persona dell’avv. Generoso Di Leo, per il Ministero dell’Ambiente e per il Ministero della Salute;
RILEVATO IN FATTO
1. Nel presente procedimento agli imputati Fulvio Conti, Francesco Luigi Tatò e Paolo Scaroni originariamente risultavano contestate le ipotesi di reato di cui ai capi A e B della rubrica.
Su ciascuno di tali reati occorre soffermarsi partitamente, per quanto di interesse, allo scopo di ricostruire il percorso attraverso cui il processo si sviluppava nei giudizi di merito, celebrati davanti al Tribunale di Rovigo e alla Corte di appello di Venezia.
1.1. Occorre anzitutto soffermarsi sul reato di cui al capo A della rubrica, che non costituisce oggetto di trattazione, contestato a Francesco Luigi Tatò, Paolo Scaroni e Fulvio Conti – in concorso con altri soggetti contro cui non si procede in questa sede – ai sensi degli artt. 40, 81, 110, 437 cod. pen., per avere provocato nelle rispettive cariche societarie, ricoperte in seno alla società Enel s.p.a., un disastro innominato in relazione al funzionamento della Centrale termoelettrica di Porto Talle. Tale ipotesi, relativamente agli imputati Tatò e Scaroni risultava aggravata ex art. 437, comma secondo, cod. pen., in conseguenza del fatto che nei minori di età pediatrica – residenti nei Comuni di Porto Tolle, Rosolina, Taglio di Po, Porto Viro, Ariano nel Polesine, Loreo, Mesola, Corbola e Gora – si verificava un incremento delle patologie respiratorie e dei ricoveri ospedalieri, nei termini compiutamente richiamati nella tabella 4 del capo A.
Gli imputati Tatò, Scaroni e Conti, in particolare, rivestivano la carica di amministratore delegato della società Enel s.p.a., rispettivamente, Tatò dal 23/09/1996 al 23/05/2002; Scaroni dal 24/05/2002 al maggio del 2005; Conti dal maggio del 2005 alla chiusura dello stabilimento di Porto Talle, intervenuta nel luglio del 2009.
Il reato di cui al capo A si verificava a Porto Talle nell’arco temporale compreso tra il 1998 e la chiusura dello stabilimento.
Deve, infine, evidenziarsi che l’ipotesi di cui al capo A veniva così contestata a seguito delle modifiche dell’imputazione effettuate all’udienza preliminare del 07/02/2012, celebrata davanti al G.U.P. del Tribunale di Rovigo.
1.2. Occorre, quindi, passare a considerare il reato di cui al capo B della rubrica, che costituisce oggetto di trattazione, contestato a Fulvio Conti, Francesco Luigi Tatò e Paolo Scaroni, per avere provocato nelle rispettive cariche societarie, sopra richiamate, un disastro innominato in relazione al funzionamento della Centrale termoelettrica di Porto Talle, conseguente al fatto che gli imputati determinavano una situazione di pericolo per la pubblica incolumità, creandone le condizioni nell’arco temporale compreso tra il 1998 e il 2009.
Il reato di cui al capo B si verificava a Porto Talle nell’arco temporale compreso tra il 1998 e la chiusura dello stabilimento; quanto all’aggravante di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., contestata ai soli imputati Conti e Scaroni, tale circostanza veniva ancorata all’aumento dei ricoveri ospedalieri dei minori di età pediatrica verificatosi nel periodo compreso tra gli anni 1998 e 2002.
La situazione di pericolo per la pubblica incolumità derivava dal fatto che gli imputati non impedivano l’emissione di sostanze inquinanti – tra cui 502, NOx e polveri sottili, immesse nell’atmosfera in quantitativi ingenti dalla Centrale termoelettrica di Porto Tolle – omettendo al contempo di predisporre apparecchiature destinate a prevenire il disastro innominato, consistente nel pericolo di insorgenza di malattie respiratorie, dovute all’inalazione e all’ingestione di tali sostanze.
Si contestava, inoltre, agli imputati di non avere attivato la procedura di riconversione dello stabilimento di Porto Tolle nei tempi e nei modi previsti dalla legge regionale Veneto 8 settembre 1997, n. 36, che imponeva l’alimentazione con gas metano o con altre fonti alternative degli impianti, nonché dalla successiva legge regionale Veneto 22 febbraio 1999, n. 7, che prevedeva l’alimentazione con sostanze energetiche di minore impatto ambientale e l’obbligo di presentazione del piano di riconversione della centrale termoelettrica entro termini prestabiliti.
Per effetto di tali condotte si verificava un disastro, rilevante ai sensi dell’art. 434, comma secondo, cod. pen., consistente nell’aumento dei ricoveri ospedalieri dei minori di età pediatrica – residenti nei comuni di Porto Talle, Rosolina, Taglio di Po, Porto Viro, Ariano nel Polesine, Loreo, Mesola, Corbola e Goro – conseguente all’insorgenza delle patologie respiratorie compiutamente descritte nella tabella 4 del capo B della rubrica.
I dati epidemiologici richiamati al capo B venivano quantificati, per il periodo compreso tra il 1998 e il 2002, nell’aumento 11 % di tutti i ricoveri di minori infraquattordicenni, residenti nei comuni sopra citati, per le patologie enucleate nella predetta tabella 4.
1.3. Come si è detto, nel presente procedimento verrà esaminata la sola ipotesi di reato ascritta agli imputati Tatò, Scaroni e Conti al capo B della rubrica, contestata nella forma aggravata di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen. ai soli Tatò e Scaroni.
2. Occorre, quindi, passare a considerare la vicenda giurisdizionale in esame, evidenziando che, con sentenza emessa il 31/03/2014, il Tribunale di Rovigo, per quanto di interesse ai presenti fini, giudicava gli imputati Francesco Luigi Tatò e Paolo Scaroni colpevoli del reato di cui al capo B della rubrica, condannandoli, esclusa la contestata aggravante, alla pena di anni tre di reclusione.
Gli imputati Tatò e Scaroni, inoltre, venivano condannati all’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.
Gli imputati Tatò e Scaroni, ancora, venivano condannati al risarcimento dei danni in favore delle seguenti parti civili costituite: Comune di Porto Talle; Associazione Legambiente O.N.L.U.S.; Associazione Italia Nostra O.N.L.U.S.; Associazione Greenpeace O.N.L.U.S.; Associazione Italiana W.W.F. O.N.G. O.N.L.U.S.; Ministero dell’Ambiente; Ministero della Salute; Provincia regionale di Rovigo.
Gli imputati Tatò e Scaroni venivano ulteriormente condannati al pagamento di una provvisionale, quantificata in 20.000,00 euro in favore dell’Associazione Legambiente O.N.L.U.S. e in 10.000,00 euro ciascuno in favore dell’Associazione Italia Nostra O.N.L.U.S., dell’Associazione Greenpeace O.N.L.U.S. e dell’Associazione Italiana W.W.F. O.N.G. O.N.L.U.S.
Gli imputati Tatò e Scaroni, infine, venivano assolti dal reato di cui al capo A perché il fatto non sussiste.
L’imputato Fulvio Conti, invece, veniva assolto dal reato di cui al capo B perché il fatto non costituisce reato e dal reato di cui al capo A perché il fatto non sussiste.
Veniva, in ultimo, dichiarata inammissibile, per carenza di legittimazione, la richiesta formulata dalle associazioni di protezione ambientale, finalizzata al ripristino dello stato dei luoghi, atteso che tale istanza, nell’assetto normativo vigente, così come disciplinato dal d.lvo 3 aprile 2006, n. 152, risultava di competenza esclusiva del Ministero dell’Ambiente.
2.1. Con sentenza emessa il 18/01/2017 la Corte di appello di Venezia – pronunciandosi sulle impugnazioni proposte, limitamento al reato di cui al capo B della rubrica, dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Rovigo, dagli imputati Fulvio Conti, Francesco Luigi Tatò, Paolo Scaroni, delle parti civili costituite Comune di Porto Talle, Associazione Italia Nostra O.N.L.U.S., Ministero dell’Ambiente e Ministero della Salute – assolveva gli imputati Conti, Tatò e Scaroni dal reato ascrittogli al capo B perchè il fatto non sussiste.
Venivano conseguentemente revocate le statuizioni civili contenute nella sentenza di primo grado.
Venivano, inoltre, rigettati gli appelli proposti dalle parti civili Comune di Porto Tolle, Associazione Italia Nostra O.N.L.U.S., Ministero dell’Ambiente e Ministero della Salute, che venivano condannati al pagamento delle spese processuali.
La sentenza emessa dal Tribunale di Rovigo il 31/03/2014, nel resto, veniva confermata.
3. In questa cornice, occorre anzitutto osservare che il presente procedimento segue cronologicamente quello denominato “Enel 1”, iscritto a ruolo con il numero 3577/01 R.G.N.R., conclusosi con la sentenza emessa dalla Corte di cassazione, Sezione terza penale, 1’11/11/2011, con la quale entrambe le decisioni di merito si confrontavano.
Il collegamento tra i due procedimenti riguarda soprattutto il tema probatorio delle due vicende processuali, atteso che le relative fonti di prova risultano parzialmente sovrapponibili, riguardando l’operatività della Centrale termoelettrica di Porto Tolle e il rispetto della normativa di settore da parte dei vertici della società Enel s.p.a. succedutisi nel corso degli anni.
Nei giudizi di merito, veniva ricostruita la vicenda relativa alla realizzazione e al funzionamento della Centrale termoelettrica di Porto Tolle, costruita nel corso degli anni Settanta nella zona del Delta del fiume Po, in un’area divenuta parco naturale a seguito della legge regionale n. 36 del 1997.
Sul funzionamento della Centrale termoelettrica di Porto Tolle e sulle caratteristiche morfologiche dell’area geografica nella quale erano ubicati i relativi impianti si soffermavano diffusamente entrambe le sentenze di merito, costituendo tali profili un passaggio processuale indispensabile per inquadrare l’ipotesi di reato di cui al capo B della rubrica.
3.1. Ai presenti fini, è sufficiente evidenziare che la Centrale di Porto Talle era lo stabilimento più grande d’Italia e offriva un contributo fondamentale alla produzione di energia elettrica nazionale, funzionando attraverso la combustione di olio denso, la cui lavorazione avveniva all’interno di quattro autonome sezioni.
Il sistema di combustione produceva varie sostanze inquinanti, rilevanti ai presenti fini, tra le quali ossidi di azoto, ossidi di zolfo, polveri sottili e metalli pesanti.
Occorre anche precisare che lo stabilimento di Porto Tolle, che risultava attivo dall’anno 1980 fino al luglio dell’anno 2009, sorgeva sull’area del Delta del Po rodigino, presso l’isola di Polesine Camerini, a circa 4 chilometri dallo sbocco in mare, nella zona di Punta Maistra, estendendosi su un’area di 240 ettari. Il Delta del Po costituisce una delle più importanti e vaste zone umide dell’Europa e del Mediterraneo, con un’area che si estende per 786 chilometri quadrati, composta da valli e lagune ad alto pregio naturalistico, dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco.
Deve, infine, precisarsi che il territorio circostante la Centrale termoelettrica di Porto Tolle, essendo di origine fluviale, risulta pianeggiante; mentre, le aree territoriali attigue, per lo più, con destinazione d’uso di tipo agricolo a uso seminativo, rappresentano la parte predominante e sono intervallate dalla presenza di numerose valli salmastre.
3.2. Occorre, quindi, passare in rassegna la disciplina normativa succedutasi nel corso degli anni, con cui ci si deve confrontare nel valutare le condotte delittuose ascritte agli imputati Tatò, Scaroni e Conti al capo B della rubrica, contestato in forma aggravata ai soli Tatò e Conti.
Il primo intervento normativo cui occorre riferirsi è il d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, recante «Attuazione delle direttive CEE numeri 80/779, 82/884, 84/360 e 85/203 concernenti norme in materia di qualità dell’aria, relativamente a specifici agenti inquinanti, e di inquinamento prodotto dagli impianti industriali, ai sensi dell’art. 15 della L. 16 aprile 1987, n. 183», in conseguenza del quale, in data 02/06/1989, l’Enel presentava una domanda di autorizzazione alla continuazione delle emissioni inquinanti da parte della Centrale termoelettrica di Porto Tolle. In relazione alla presentazione di tale domanda di autorizzazione, era previsto un termine di 120 giorni per deliberare in ordine all’autorizzazione richiesta dall’Enel.
La presentazione di tale istanza si imponeva in conseguenza delle prescrizioni vincolanti contenute negli artt. 12 e seguenti del d.P.R. n. 203 del 1988, per conformarsi alle quali l’Enel depositava, in allegato alla domanda di autorizzazione richiamata, una relazione tecnica, con cui si impegnava, per il triennio compreso tra il 1989 e il 1992, a rispettare il limite di 3400 mg/nmc e a usare materiali combustibili con percentuali di zolfo inferiori a quelle precedentemente impiegate. Nel periodo intermedio, a conclusione del quale sarebbe dovuta intervenire un’autorizzazione ministeriale, era imposto un obbligo di contenimento delle emissioni nocive, stabilito dall’art. 13, comma 5, del d.P.R. n. 203 del 1988, che prescriveva l’adozione di tutte le misure necessarie per evitare un peggioramento, anche temporaneo, delle condizioni di inquinamento atmosferico dell’ambiente.
Dopo la presentazione della domanda di autorizzazione richiamata, veniva emanato il decreto ministeriale 12 luglio 1990, n. 159200, recante «Linee guida per contenimento delle emissioni inquinanti», adottato dal Ministro dell’Ambiente in esecuzione del d.P.R. n. 203 del 1988, in conseguenza del quale venivano modificati i limiti delle emissioni nocive.
Veniva, al contempo, imposta, in linea con le previsioni del d.P.R. n. 203 del 1988, la presentazione di un piano di risanamento volto a favorire il graduale rispetto dei livelli di emissione entro determinate scadenze. Tali scadenze, in particolare, riguardavano il contenimento delle emissioni nocive connesse al ciclo di produzione, che sarebbe dovuto essere realizzato attraverso le seguenti scansioni: entro il 31/12/1997, il contenimento dei valori di emissione avrebbe dovuto riguardare il 35 % della potenza termica degli impianti; entro il 31/12/1999, il contenimento avrebbe dovuto riguardare il 60 % della potenza termica dello stabilimento; entro il 31/12/2002, il contenimento avrebbe dovuto riguardare la totalità degli impianti della Centrale termoelettrica di Porto Tolle.
Il decreto ministeriale n. 159200 del 1990 adottava il principio di precauzione, prescrivendo l’obbligo di adottare le migliori tecnologie disponibili, compatibilmente con le esigenze di mantenimento del servizio energetico al quale gli impianti erano adibiti; con le loro caratteristiche tecniche; con il tasso di utilizzazione; con la durata della loro vita residua; con gli oneri economici derivanti dall’applicazione delle tecnologie indispensabili al funzionamento del ciclo di produzione.
In conseguenza del decreto ministeriale n. 159200 del 1990, in data 23/12/1992, l’Enel presentava il prescritto piano di risanamento, indicando gli interventi programmati necessari per il rispetto delle condizioni di operatività imposte dal d.P.R. n. 203 del 1988, al quale tuttavia non facevano seguito concrete operazioni di recupero ambientale.
L’Enel, quindi, presentava, in data 30/03/1994, una richiesta di autorizzazione all’esecuzione di interventi di miglioramento ambientale, che si impegnava a eseguire entro termini ristretti, che però non si traduceva in opere di adeguamento, né nei termini previsti dal decreto ministeriale né nei termini indicati dalla stessa società.
Al fine di consentire la prosecuzione dell’attività nella Centrale termoelettrica di Porto Tolle, nonostante il mancato rispetto delle scadenze normativamente previste, veniva emanato il decreto-legge 23 dicembre 2002, n. 281, recante «Mantenimento in servizio delle centrali termoelettriche di Porto Tolle, Brindisi Nord e San Filippo del Mela».
Tuttavia, il decreto-legge in questione non veniva convertito in legge entro il termine di 60 giorni previsto dall’art. 77 Cost., con la conseguenza che le sue prescrizioni venivano reiterate con il successivo decreto-legge 18 febbraio 2003, n. 25, recante «Disposizioni urgenti in materia di oneri generali del sistema elettrico e di realizzazione, potenziamento, utilizzazione e ambientalizzazione di impianti termoelettrici», convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 2003, n. 83.
Il decreto-legge n. 25 del 2003 circoscriveva ulteriormente la deroga alla possibilità di emissioni nocive da parte degli impianti termoelettrici, prevedendo la necessità di un piano provvisorio di utilizzazione, da sottoporre al vaglio del Ministro delle attività produttive e delle regioni interessate. Il piano provvisorio di utilizzazione veniva approvato con il decreto ministeriale 13 giugno 2003, adottato dal Ministro delle attività produttive di concerto con il Ministro dell’Ambiente.
In questo stratificato contesto normativo, occorre inserire ulteriormente le leggi regionali Veneto n. 36 del 1997 e n. 7 del 1999, che venivano richiamate espressamente nel capo B della rubrica, in relazione alle condotte disastrose contestate agli imputati Tatò, Scaroni e Conti.
La legge regionale Veneto n. 36 del 1997, recante «Norme per l’istituzione del Parco regionale del Delta del Po», imponeva la riconversione di tutti gli impianti di produzione di energia elettrica, ubicati in tale area geografica, prevedendo che dovessero essere alimentati con gas metano o altre fonti energetiche alternative, conformemente a quanto stabilito dall’art. 30, comma 1, lett. a), secondo cui: «Gli impianti di produzione di energia elettrica dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative di pari o minore impatto ambientale».
Tale disciplina veniva integrata dalla legge regionale Veneto n. 7 del 1999, che prevedeva la riconversione degli impianti di produzione di energia elettrica ubicati nell’area del Delta del Po, mediante l’utilizzazione di gas a metano, nel rispetto dei parametri indicati dall’art. 25, comma 2, secondo cui: «I piani di riconversione degli impianti di cui alla lettera a) del comma 1 devono essere presentati all’ente Parco entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della presente legge».
Si mirava, in questo modo, a imporre l’impiego di combustibile a basso effetto inquinante, utilizzando come parametro di riferimento il minore impatto ambientale prodotto dal gas metano, per effetto del quale le attività inserite nei comuni compresi nel Parco del Delta del Po dovevano ritenersi soggette a una disciplina restrittiva, finalizzata a contenere i rischi di alterazione dell’ecosistema e a preservare la salute della collettività.
Tuttavia, nessuno degli interventi imposti dalle leggi regionali Veneto n. 36 del 1997 e n. 9 del 1999 veniva realizzato dall’Enel, che non provvedeva a riconvertire gli impianti di produzione di Porto Talle, né con gas metano né con altre fonti combustibili di minore impatto ambientale.
Infine, la panoramica sulla disciplina normativa succedutasi nel corso degli anni, in riferimento all’operatività della Centrale termoelettrica di Porto Talle, deve concludersi con il richiamo del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale», nel cui art. 280, comma 1, lett. a) veniva disposta l’abrogazione del «decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 203».
3.3. In questa cornice, occorre passare in rassegna gli elementi di differenziazione esistenti tra le decisioni di merito, allo scopo di enucleare le ragioni che inducevano la Corte di appello di Venezia a confermare l’assoluzione dell’imputato Conti per il reato di cui al capo B pronunciata dal Tribunale di Rovigo e a ribaltare il giudizio di colpevolezza espresso per la medesima ipotesi di reato nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni, con la conseguente adozione di una pronuncia assolutoria.
Osserva il Collegio che le sottostanti decisioni divergevano in ordine a quattro profili valutativi, di cui occorre dare analiticamente conto.
3.3.1. Il primo dei profili di distonia argomentativa su cui occorre soffermarsi riguarda la possibilità di una concretizzazione di un pericolo per la pubblica incolumità a fronte della conformità dell’attività svolta dalla Centrale termoelettrica di Porto Tolle alla normativa di riferimento.
Questo primo profilo di distonia argomentativa tra le sottostanti decisioni, a sua volta, deve essere esaminato sotto tre distinti aspetti.
3.3.1.1. Deve anzitutto rilevarsi che, secondo il Tribunale di Rovigo, le autorizzazioni intervenute nel corso degli anni non consentivano, di per sé solo, di ritenere legittima l’attività di produzione di energia elettrica dello stabilimento di Porto Talle. Tale attività, infatti, si svolgeva in violazione della previsione dell’art. 13, commi 1 e 5, del d.P.R. n. 203 del 1988, che imponeva, fino alla data di rilascio dell’autorizzazione definitiva, di adottare tutte le misure necessarie per evitare un peggioramento, anche solo temporaneo, della situazione inquinante riscontrata nell’area interessata dalle immissioni.
Tale violazione andava ulteriormente correlata alle disposizioni del decreto ministeriale n. 159200 del 1990, che imponeva, al fine di contenere le emissioni tossiche nell’atmosfera, di fare uso delle migliori tecnologie disponibili, tenuto conto della situazione ambientale considerata.
Né rilevava in senso contrario il dato secondo cui le emissioni di sostanze inquinati da parte della Centrale termoelettrica di Porto Talle erano sempre state contenute sotto i limiti legali massimi di volta in volta imposti dalla normativa di riferimento.
Questo dato, del resto, era stato già accertato nel processo “Enel 1” – di cui si è già detto – e non aveva impedito dì ritenere provate le condotte illecite in esame, in conseguenza delle quali veniva emessa una declaratoria di prescrizione dei reati contestati agli imputati Tatò e Scaroni, con il conseguente accertamento delle loro responsabilità.
Ne discendeva che, pur nel rispetto dei limiti consentiti dalla legge, l’attività di produzione svolta nello stabilimento di Porto Tolle aveva comunque determinato la concretizzazione di un pericolo per la pubblica incolumità, rilevante ai sensi dell’art. 434, comma primo, cod. pen.
Queste elusioni della disciplina di riferimento venivano escluse dalla Corte di appello di Venezia, che evidenziava come il decreto ministeriale n. 159200 del 1990, richiamato dal Giudice di primo grado, non definiva quali fossero le migliori tecnologie disponibili, lasciando un ampio spazio discrezionale di cui l’Enel, a prescindere dalle conseguenze nocive per l’ambiente, si era avvalsa lecitamente.
Inoltre, l’obbligo di adottare le migliori tecnologie disponibili doveva essere valutato in termini necessariamente flessibili, atteso che, come evidenziato a pagina 76 della sentenza impugnata, tale impegno veniva «visto in alternativa all’impiego di idonei combustibili, che potrebbero consentire comunque il raggiungimento dei medesimi obiettivi».
3.3.1.2. In secondo luogo, il Tribunale di Rovigo poneva a fondamento del giudizio di responsabilità formulato nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni la circostanza che erano stati accertati peggioramenti temporanei delle emissioni nocive prodotte dallo stabilimento di Porto Tolle, alle quali non si era fatto adeguatamente fronte, in violazione della disposizione dell’art. 13, comma 5, del d.P.R. n. 203 del 1998.
Anche in questo caso, la Corte territoriale veneziana escludeva la sussistenza delle inadempienze affermate dal Tribunale di Rovigo, osservando che costituiva un dato processuale incontroverso quello secondo cui i limiti di emissione di sostanze nocive non erano mai stati superati nell’ambito dell’attività della Centrale termoelettrica di Porto Tolle, come evidenziato nel passaggio motivazionale richiamato a pagina 77 della decisione impugnata, nel quale si affermava che «ferma restando la difficoltà nell’individuazione del parametro e del momento di riferimento al fine di valutare se e quando si sia verificato il peggioramento temporaneo delle emissioni e dando per scontati gli esiti del processo ENEL 1 [ … ] deve ribadirsi che il peggioramento temporaneo delle emissioni non ha mai comportato, per riconoscimento unanime, un superamento dei limiti massimi di legge vigenti [ … ]».
3.3.1.3. Il Tribunale di Rovigo, infine, evidenziava che erano state violate le norme delle leggi regionali Veneto n. 36 del 1997 e n. 9 del 1999, riguardanti l’istituzione del Parco regionale del Delta del Po, che imponevano la presentazione di un piano di riconversione industriale dello stabilimento di Porto Talle, al quale i vertici dell’Enel non si erano conformati.
Secondo la Corte di appello di Venezia, anche questa elusione normativa era inesistente, in considerazione del fatto che il Tribunale di Rovigo aveva trascurato di considerare che tale normativa regionale non mirava a garantire il livello di salubrità ambientale, ma a preservare una zona del territorio veneto di particolare pregio naturalistico. Ne consegue che le due leggi regionali, al contrario di quanto affermato nella decisione di primo grado, non miravano a garantire la salute pubblica dei cittadini che abitavano l’area del Delta del Po interessata dallo stabilimento di Porto Tolle.
3.3.2. Occorre, quindi, soffermarsi sul secondo dei profili di distonia argomentativa esistenti tra le sottostanti decisioni, riguardante la rilevanza probatoria della consulenza tecnica svolta dal professor Paolo Crosignani, sulla base della quale si era incentrato il giudizio di colpevolezza espresso dal Tribunale di Rovigo, limitatamente all’ipotesi di reato contestata al capo B agli imputati Tatò e Scaroni; giudizio di colpevolezza che, come si è detto, non riguardava la posizione di Fulvio Conti, assolto, all’esito del processo di primo grado, con la sentenza emessa dal Tribunale di Rovigo il 31/03/2014, confermata, sul punto, dalla decisione di appello.
Il professor Crosignani conduceva uno studio epidemiologico sui ricoveri della popolazione ospedaliera dell’area geografica circostante la Centrale termoelettrica di Porto Tolle.
Gli accertamenti clinici condotti dal professor Crosignani facevano riferimento al periodo compreso tra il 1998 e il 2002 – quando la Centrale di Porto Tolle funzionava a pieno regime – in relazione al quale si ritenevano i dati acquisiti completi e affidabili.
Gli esiti delle verifiche condotte dal professor Crosignani venivano esposte all’udienza del 21/10/2013, svoltasi davanti al Tribunale di Rovigo, nel corso della quale il consulente tecnico evidenziava che, pur in presenza di una popolazione indagata numericamente non elevata, i dati nosografici che erano emersi risultavano rilevanti statisticamente.
Il professor Crosignani, al contempo, evidenziava che la scelta di non basarsi sui valori di concentrazione dei fattori inquinanti effettivamente misurati si giustificava con il fatto che le centraline Enel e ARPAV erano distribuite sull’area geografica esaminata in modo disomogeneo, non consentendo di rilevare dati territoriali indicativi delle emissioni tossiche.
Secondo la Corte di appello di Venezia, la consulenza tecnica del professor Crosignani, pur connotata da un impegno professionale meritorio, non riusciva a spiegare come potesse ritenersi antigiuridica un’attività produttiva svolta nel rispetto della normativa di riferimento.
Queste insufficienze probatorie, secondo la Corte territoriale veneziana, rilevavano sotto cinque differenti profili, sui quali occorre soffermarsi partitamente.
3.3.2.1. Un primo profilo di incertezza probatoria riguardava l’assenza di parametri scientifici certi in materia di emissione di polveri sottili, che il consulente tecnico riteneva di superare attraverso il ricorso a simulazioni scientifiche concernenti le ricadute al suolo delle emissioni nocive elaborate dall’ARPAV, fondate su stime dell’anno 2000. Gli esiti di tali verifiche venivano ritenute dal professor Crosignani decisivi per valutare l’incremento epidemiologico dei ricoveri ospedalieri.
Tuttavia, secondo la Corte territoriale veneziana, le conclusioni del consulente tecnico erano inidonee a inquadrare l’effettiva portata epidemiologica delle verifiche condotte, atteso che, come evidenziato dallo stesso professor Crosignani, le concentrazioni medie delle emissioni nocive riguardavano l’arco temporale compreso tra gli anni 2000 e 2006, che non corrispondeva ai dati relativi ai ricoveri ospedalieri, riguardanti il differente periodo compreso tra il 1998 e il 2002.
3.3.2.2. Un secondo profilo di incertezza probatoria riguardava il contesto territoriale oggetto d’indagine, frammentato e disomogeneo dal punto di vista abitativo, che non consentiva di trarre dei dati epidemiologici attendibili, atteso che la popolazione del territorio interessato dallo stabilimento di Porto Tolle non era distribuita in modo omogeneo, concentrandosi prevalentemente ai margini o all’esterno dell’area coinvolta dalle emissioni.
L’evidenziata disomogeneità territoriale comportava l’impossibilità di applicare in modo rigoroso la metodologia statistica utilizzabile in ipotesi di questo genere, che presuppone la suddivisione del campione esaminato in tre sottogruppi riguardanti soggetti maggiormente esposti, soggetti mediamente esposti e i soggetti non esposti – composti da un numero eguale di individui, con caratteristiche omogenee.
3.3.2.3. Un terzo profilo di incertezza probatoria riguardava la scelta di considerare non singole patologie, ma raggruppamenti estesi di infermità, come conseguenza della multipotenzialità delle emissioni inquinanti.
Secondo la Corte di appello di Venezia, questo approccio nosografico risultava inidoneo a formulare conclusioni scientifiche attendibili, atteso che tale metodologia, per un verso, non faceva riferimento a patologie funzionali a identificare i gruppi soggettivi esaminati, per altro verso, comprendeva infermità non riconducibili causalmente al novero delle emissioni inquinanti oggetto di vaglio.
3.3.2.4. Un quarto elemento di incertezza probatoria della consulenza tecnica del professor Crosignani riguardava la mancata valutazione di fattori inquinanti differenti da quelli riconducibili alle emissioni nocive in esame.
L’influenza di fattori inquinanti esterni e distinti dall’operatività della Centrale termoelettrica di Porto Tolle, infatti, non poteva essere trascurata dal consulente tecnico, risultando dimostrata dal confronto tra valori di concentrazione delle sostanze nocive, riscontrati nell’area geografica oggetto di accertamento.
3.3.2.5. Infine, il quinto elemento di incertezza probatoria della consulenza tecnica del professor Crosignani riguardava la circostanza che le analisi effettuate non fornivano risultati statisticamente rilevanti per tutti gli indicatori di tossicità, ma esclusivamente per il vanadio, con la conseguenza che i dati forniti dal consulente possedevano una valenza epidemiologica limitata, tenuto conto della molteplicità delle sostanze nocive immesse nell’atmosfera dallo stabilimento di Porto Tolle.
Occorreva, in ogni caso, evidenziare che era la stessa consulenza tecnica del professor Crosignani ad attestare la progressiva riduzione dei fattori di inquinamento ambientale, con un abbassamento della soglia di esposizione a pericolo della salute pubblica, conseguente al monitoraggio delle emissioni della centrale termoelettrica nel periodo compreso tra il 2000 e il 2006, che dimostravano la progressiva riduzione delle emissioni tossiche.
3.3.3. Il terzo profilo valutativo di differenziazione tra le decisioni di merito riguardava la rilevanza probatoria della consulenza tecnica svolta dal dottor Stefano Scarselli, che costituiva uno dei passaggi fondamentali per la formulazione del giudizio di colpevolezza espresso dal Tribunale di Rovigo nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni.
La consulenza tecnica del dottor Scarselli si fondava su una verifica epidemiologica condotta sull’area geografica coinvolta dall’inquinamento ambientale dello stabilimento di Porto Tolle e veniva eseguita attraverso un monitoraggio finalizzato a valutare l’impatto atmosferico di sostanze gassose primarie e metalli pesanti.
Gli esiti di tali verifiche, tuttavia, non consentivano di ritenere dimostrato l’assunto accusatorio.
La Corte territoriale veneziana osservava che l’attività di monitoraggio ambientale eseguita nelle aree circostanti la Centrale termoelettrica di Porto Tolle, nell’arco temporale compreso tra il giugno del 2003 e il settembre del 2004, evidenziava che, pur riscontrandosi in tali zone, fenomeni di accumulo tossico – specificamente rilevanti con riferimento al nichel e al vanadio – non si registravano dati di portata tale da destare allarme per la salute pubblica dei residenti. Sulla scorta di tali verifiche, nel passaggio della consulenza tecnica richiamato a pagina 89 della sentenza impugnata, si evidenziava che i dati acquisiti nel corso delle verifiche rivelavano una situazione di inquinamento ambientale che, pur non dovendo essere sottovalutata, non presentava connotazioni tali «da destare allarme o seria preoccupazione per ciò che attiene gli effetti attuali e recenti sulla salute e l’ambiente [ … ]».
Venivano, infatti, riscontrate alcune contaminazioni secondarie, riconducibili alle coltivazioni dell’area geografica sottoposta a monitoraggio, pur evidenziandosi che l’analisi del suolo non aveva fatto emergere apprezzabili fenomeni di inquinamento, atteso che tutti i campioni raccolti presentavano i caratteri tipici di terreni sostanzialmente indisturbati e che le misura di radioattività riscontrate risultavano modeste.
Veniva anche eseguito un monitoraggio sui campioni di acque superficiali dell’area geografica interessata dall’attività inquinante della Centrale di Porto Talle, che segnalava l’esistenza di livelli di tossicità quantitativamente accettabili, attestati dal fatto che le analisi delle acque di carico e scarico dello stabilimento indicavano che i parametri normativi erano stati rispettati.
Si confermava, in tal modo, che gli esiti della consulenza tecnica del dottor Scraselli possedevano una valenza probatoria inidonea a formulare un giudizio di colpevolezza nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni, al contrario di quanto ritenuto dal Tribunale di Rovigo.
3.3.4. Il quarto e ultimo profilo valutativo di differenziazione tra le decisioni di merito riguardava la rilevanza probatoria attribuibile allo studio epidemiologico condotto dalle A.S.L. di Rovigo, Adria e Ferrara.
Nella sentenza di primo grado, in particolare, si attribuiva peculiare rilievo allo studio epidemiologico condotto dalle A.S.L. di Rovigo, Adria e Ferrara, finalizzato a rilevare la presenza di patologie respiratorie nella popolazione minorile di età pediatrica, nei termini richiamati nelle pagine 90-92 della sentenza impugnata. L’obiettivo dell’indagine era di stabilire una correlazione tra le variazioni giornaliere delle infermità respiratorie e le variazioni giornaliere dell’inquinamento atmosferico prodotto dalle emissioni nocive dello stabilimento di Porto Talle.
Secondo il Tribunale di Rovigo, le conclusioni alle quali perveniva lo studio in questione confermavano l’esistenza di una correlazione tra l’aumento dell’inquinamento ambientale dell’area interessata dalla Centrale di Porto Talle e l’aumento del rischio di insorgenza e di aggravamento di patologie respiratorie nella popolazione pediatrica, nei termini richiamati a pagina 91 della sentenza impugnata.
La Corte di appello di Venezia, tuttavia, non riteneva gli esiti di tali verifiche epidemiologiche decisive ai fini della formulazione di un giudizio di responsabilità nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni in ordine all’ipotesi di reato contestata al capo B della rubrica, per una pluralità di ragioni sulle quali occorre soffermarsi, sia pure sinteticamente.
Si evidenziava, in primo luogo, che il numero limitato di minori di età pediatrica sottoposto a monitoraggio, rappresentato da soli 69 soggetti, non consentiva di esprimere alcun giudizio attendibile sotto il profilo statistico, anche tenendo conto del fatto che, di tale campione, soli 19 individui appartenevano all’area geografica specificamente interessata dalle emissioni tossiche prodotte dallo stabilimento di Porto Talle.
Si evidenziava, in secondo luogo, l’inattendibilità, sul piano eziologico, dei risultati dello studio epidemiologico in esame, conseguente alla durata limitata del periodo di osservazione, contenuto in soli 56 giorni.
Si evidenziava, infine, che l’impossibilità di stabilire una correlazione causale tra i fattori inquinanti connessi all’attività produttiva della Centrale termoelettrica di Porto Talle e le patologie respiratorie nella popolazione pediatrica era affermata dallo stesso studio epidemiologico in esame, laddove, nel passaggio richiamato a pagina 91 della sentenza impugnata, si evidenziava che «nessuna relazione può essere stabilita tra i risultati e le sorgenti di inquinamento presenti sul territorio [ … ]».
Ne discendeva che, anche tale ulteriore profilo valutativo, non consentiva di formulare un giudizio di responsabilità nei confronti degli imputati Francesco Luigi Tatò e Paolo Scaroni.
3.4. Dopo avere passato in rassegna profili di differenziazione argomentativa esistenti tra le decisioni di merito, occorre soffermarsi sulle questioni relative all’elemento soggettivo del reato di cui al capo B, contestato in forma aggravata a Tatò e Scaroni e in forma semplice a Conti. Tale passaggio valutativo, infatti, costituisce uno dei punti nodali della vicenda giurisdizionale in esame, risultando indispensabile ai fini dell’inquadramento delle condotte illecite originariamente ascritte agli imputati Fulvio Conti, Francesco Luigi Tatò e Paolo Scaroni.
Come si è detto, nel giudizio di primo grado, l’imputato Conti era stato assolto dal reato di cui al capo B; mentre, nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni era stato espresso un giudizio di colpevolezza, limitatamente al reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen.
Secondo la Corte di appello di Venezia, il Tribunale di Rovigo, nel formulare il giudizio di colpevolezza nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni per il reato di cui al capo B, si era discostato dall’interpretazione prevalente della giurisprudenza di legittimità che, sul piano dell’elemento soggettivo, richiede il dolo intenzionale rispetto all’evento del disastro e il dolo eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità.
Il Tribunale di Rovigo, infatti, riteneva sufficiente per la configurazione del reato ascritto a Tatò e Scaroni al capo B, il dolo generico, nei termini motivazionali esposti nelle pagine 81-96 della sentenza di primo grado.
Si evidenziava, in proposito, che l’ipotesi di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., imponeva di circoscrivere al dolo intenzionale il coefficiente psichico inerente all’evento di danno, con la consapevolezza del pericolo per la pubblica incolumità che ne poteva derivare.
La Corte di appello di Venezia, tuttavia, riteneva che il rispetto da parte della Centrale termoelettrica di Porto Tolle dei limiti di emissione imposti dalla legge rendeva estremamente difficoltosa, sotto il profilo dell’accertamento probatorio, l’attribuzione a titolo di dolo o di colpa dell’evento disastroso agli imputati.
Il Giudice di appello veneziano, inoltre, evidenziava che costituiva un dato processuale incontroverso quello secondo cui, a partire dal 2002, si registrava una significativa riduzione dell’attività produttiva della Centrale di Porto Tolle, che impediva di ritenere che gli imputati Tatò e Scaroni potessero essersi rappresentati un pericolo per la pubblica incolumità, sia pure nella prospettiva recepita dalla sentenza di primo grado, limitata al riconoscimento della loro colpevolezza per reato di cui agli artt. 40, comma secondo, 81, comma secondo, 110, 434, comma primo, cod. pen.
Queste considerazioni inducevano la Corte di appello di Venezia a escludere l’elemento soggettivo del reato di cui al capo B, per il quale era stato formulato un giudizio di colpevolezza da parte del Tribunale di Rovigo nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni.
3.5. La sentenza impugnata, in ultimo, si soffermava sulle questioni processuali relative alla prescrizione del reato di cui all’art. 434 cod. pen., sollevate dalla difesa degli imputati Tatò e Scaroni.
Nel valutare la disciplina dei termini di prescrizione applicabile all’ipotesi delittuosa contestata agli odierni imputati, occorre preliminarmente rilevare che il reato loro ascritto al capo B della rubrica, in origine, risultava contestato fino al luglio del 2009, che è la data di chiusura della Centrale termoelettrica di Porto Tolle.
Tanto premesso, occorre passare a esaminare i termini di prescrizione dell’ipotesi delittuosa di cui al capo B, distinguendo il reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen. dal reato di cui al secondo comma della stessa fattispecie.
3.5.1. In questa cornice, occorre anzitutto esaminare il delitto di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., contestato ai soli imputati Tatò e Scaroni, che veniva concordemente escluso dai Giudici di merito, non essendosi verificato, in conseguenza delle condotte in contestazione, alcun evento disastroso. Tale ipotesi veniva ancorata all’aumento dei ricoveri ospedalieri dei minori di età pediatrica dell’area interessata dallo stabilimento di Porto Talle, circoscritta al periodo compreso tra gli anni 1998 e 2002.
Per quest’ipotesi delittuosa il termine massimo di prescrizione veniva individuato dalla Corte di appello di Venezia in 15 anni, applicando la nuova disciplina della prescrizione più favorevole per gli imputati, conseguente al combinato disposto degli artt. 157 e 161, comma secondo, cod. pen., così come novellati dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251.
Il termine di 15 anni si computava individuando la prescrizione in 12 anni, cui si aggiungevano ulteriori 3 anni, per effetto dell’aumento di un quarto ex art. 161, comma secondo, cod. pen.
A tali termini, secondo il computo effettuato dalla Corte territoriale veneziana, occorreva aggiungere ulteriori 21 giorni di sospensione, conseguenti al rinvio effettuato dall’udienza dell’08/07/2013 all’udienza del 29/07/2013, per l’adesione dei difensori degli imputati all’astensione proclamata dagli organismi di categoria.
3.5.2. Termini prescrizionali differenti dovevano applicarsi al reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., contestato al capo B, per il quale il Tribunale di Rovigo aveva condannato gli imputati Tatò e Scaroni e assolto l’imputato Conti; questo giudizio di colpevolezza veniva ribaltato dalla Corte di appello di Venezia che assolveva Tatò e Scaroni, confermando il verdetto assolutorio nei confronti di Conti.
Occorre anzitutto evidenziare che il Tribunale di Rovigo, sotto il profilo dell’epoca del commesso reato, aveva unificato, sul piano concorsuale, la responsabilità degli imputati Tatò e Scaroni per il reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., estendendo la situazione di pericolo per la pubblica incolumità all’intero periodo preso in esame dal capo B della rubrica, compreso tra il 1998 e il luglio del 2009, che, come detto, è la data di chiusura della Centrale termoeletterica di Porto Tolle. Il dies a quo del termine di prescrizione, quindi, veniva fatto coincidere dal Giudice di primo grado con la data della chiusura definitiva dello stabilimento rodigino, che veniva genericamente indicata nel luglio del 2009.
Per quest’ipotesi delittuosa, la Corte di appello di Venezia individuava il termine massimo di prescrizione in 7 anni e 6 mesi, applicando la nuova disciplina della prescrizione più favorevole per gli imputati, desumibile dal combinato disposto degli artt. 157 e 161, comma secondo, cod. pen. Tali termini si computavano individuando la prescrizione in 6 anni, cui si aggiungevano ulteriori 1 anno e 6 mesi, per effetto dell’aumento di un quarto ex art. 161, comma secondo, cod. pen.
A tali termini, anche in questo caso, occorreva aggiungere ulteriori 21 giorni di sospensione, conseguenti al rinvio dall’udienza dell’OS/07/2013, sopra richiamato, per effetto dell’adesione dei difensori degli imputati all’astensione proclamata dagli organismi di categoria.
3.5.3. Un ultimo profilo valutativo da prendere in considerazione in ordine ai termini prescrizionali applicabili agli odierni imputati riguardava le deduzioni sollevate, in riferimento al dies a quo dal quale fare decorrere la prescrizione, dai difensori di Tatò e Scaroni, i quali sostenevano, per ciascuno di loro, la decorrenza dalla cessazione della carica di amministratore della società Enel s.p.a., individuato nella data del 23/05/2002 per Tatò e nella data del maggio del 2005 per Scaroni.
Secondo le difese di Tatò e Scaroni, la decorrenza dei termini prescrizionali dalla cessazione dalle cariche apicali degli imputati Tatò e Scaroni imponeva di ritenere prescritto il reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen. in epoca antecedente all’emissione della sentenza di primo grado, pronunciata dal Tribunale di Rovigo il 31/03/2014.
Questa impostazione non veniva condivisa dal Tribunale di Rovigo, che riteneva di individuare il termine di decorrenza della prescrizione del reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., così come contestata agli imputati Tatò, Scaroni e Conti al capo B, nel luglio del 2009, che rappresentava l’epoca di chiusura della Centrale termoelettrica di Porto Talle.
La Corte di appello di Venezia, infine, riteneva di dovere assolvere gli odierni imputati per ragioni di merito, con la conseguenza che affrontava le questioni della decorrenza dei termini prescrizionali soltanto per completezza della trattazione giurisdizionale, pur evidenziando che non era possibile individuare un termine unico di decorrenza della prescrizione, atteso che non era ravvisabile un’ipotesi di concorso nel reato di Tatò, Scaroni e Conti.
4. Avverso la sentenza di appello il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia ricorreva per cassazione.
Tale impugnazione veniva proposta avverso l’assoluzione dal delitto di cui al capo B, pronunciata dalla Corte di appello di Venezia nei confronti degli imputati Francesco Luigi Tatò, Paolo Scaroni e Fulvio Conti.
Con la stessa impugnazione si censurava la sentenza impugnata, relativamente alla posizione dei soli Tatò e Scaroni, in riferimento all’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., così come contestata al capo B, pronunciata dal Tribunale di Rovigo e confermata dalla Corte di appello di Venezia.
Il ricorso per cassazione veniva articolato dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia attraverso cinque motivi di ricorso, che occorre esaminare partitamente, dando preliminarmente atto che la parte ricorrente, nell’impugnazione in esame, evidenziava che il decorso del tempo avrebbe potuto determinare la prescrizione del reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen.;
Si evidenziava, tuttavia, che, in presenza di una decisione di primo grado che aveva riconosciuto la responsabilità degli imputati Tatò e Scaroni per il delitto di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., contestato al capo B della rubrica, si riteneva comunque necessario ricorrere davanti alla Corte di cassazione, ravvisandosi nella pronuncia assolutoria della sentenza di appello, emessa dalla Corte territoriale veneziana, violazioni di legge e vizi di motivazione che ne imponevano l’impugnazione.
L’impugnazione, al contempo, si imponeva in conseguenza del fatto che, laddove fossero state ritenute sussistenti le patologie processuali censurate dalla parte ricorrente, pur a fronte dell’eventuale declaratoria di prescrizione dell’ipotesi di reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., residuerebbero comunque gli obblighi risarcitori a carico degli imputati Tatò, Scaroni e Conti, dei quali si dovrebbe occupare il giudice civile competente in grado di appello.
Si evidenziava, ancora, che per l’ipotesi di reato cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., contestata ai soli Tatò e Scaroni, i termini di prescrizione, quantificati in 15 anni, non risultavano maturati, spirando il 31/12/2017. A tali termini, come già detto, dovevano aggiungersi ulteriori 21 giorni di sospensione della prescrizione per il rinvio dell’udienza dell’OB/07/2013, disposto dal Tribunale di Rovigo per l’adesione dei difensori degli imputati all’astensione proclamata dagli organismi di categoria, con la conseguente maturazione dei termini prescrizionali alla data del 21/01/2018, per l’ipotesi aggravata di cui al capo B.
La parte ricorrente evidenziava ulteriormente che la Corte di cassazione, Sezione terza penale, pur procedendo per altre ipotesi di reato, si era già occupata delle vicende relative alla Centrale termoelettrica di Porto Tolle nella sentenza n. 16422 dell’11/01/2011, nella quale venivano richiamati i parametri ermeneutici applicabili in materia di emissioni tossiche. Tale sentenza di legittimità veniva più volte richiamata nelle decisione impugnata, nei termini di cui si è già detto, pur discostandosi la Corte di appello di Venezia dai principi che vi erano affermati.
Si evidenziava, infine, che era proprio l’esigenza di giungere a un’applicazione corretta armonica dei parametri ermeneutici in questione, con specifico riferimento all’operato degli amministratori delegati dell’Enel, imputati in questa sede, a legittimare la proposizione del ricorso per cassazione proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia.
4.1. Tanto premesso, occorre passare a considerare i singoli motivi del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, prendendo le mosse dalla prima di tali doglianze, con cui si deduceva la violazione di legge della sentenza impugnata, in riferimento agli artt. 596 e 597 cod. proc. pen., conseguente alla violazione dei principi che governano il devolutum della cognizione del giudice di appello e alla contraddittorietà tra il dispositivo e la motivazione della decisione in esame.
Si evidenziava, in proposito, che la Corte di appello di Venezia, nella parte motiva della decisione impugnata, aveva ritenuto di svolgere alcune “considerazioni preliminari sulla impostazione accusatoria e sulla formulazione dei capi di imputazione”.
Nell’esposizione di tali considerazioni preliminari, la Corte territoriale veneziana si soffermava sulla formulazione del capo di imputazione ascritto agli imputati Tatò e Scaroni al capo B, non ravvisando il reato di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., ma la sola ipotesi di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen..
Tuttavia, tale passaggio argomentativo veniva compiuto dal Giudice di appello veneziano senza tenere conto del fatto che, negli atti di impugnazione introduttivi del giudizio di secondo grado, il profilo valutativo in discorso non era stato censurato dai ricorrenti. Ne conseguiva che tale questione non aveva costituito oggetto di impugnazione a opera delle parti processuali, che non avevano contestato l’esistenza del concorso doloso degli amministratori dell’Enel succedutisi negli anni.
In questo modo, la Corte territoriale veneziana, a fronte dell’assenza di specifiche doglianze sul punto, disarticolava l’impostazione accusatoria, che era stata integralmente condivisa dal Giudice di primo grado, pervenendo all’assoluzione degli imputati Tatò e Scaroni – che erano stati condannati nel sottostante giudizio di merito – e alla conferma dell’assoluzione dell’imputato Conti sulla base di un percorso argomentativo contrastante con gli atti di impugnazione.
Ne discendeva che, escludendo la possibilità di configurare il concorso nel reato di cui al capo B degli imputati Tatò, Scaroni e Conti, il Giudice di appello veneziano parcellizzava le loro condotte delittuose, prefigurando autonomi comportamenti illeciti, senza tenere conto del fatto che, su tali punti della decisione di primo grado, si era formato il giudicato. Tali conclusioni però apparivano in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, espressamente richiamata nelle pagine 2 e 3 del ricorso in esame, secondo cui con il termine “parti della sentenza” ci si riferisce «a qualsiasi statuizione avente una sua autonomia giuridico-concettuale e, quindi, non solo alle decisioni che concludono il giudizio in relazione ad un determinato capo d’imputazione, ma anche a quelle che nell’ambito di una stessa contestazione individuano aspetti non più suscettibili di riesame: anche in relazione a questi ultimi la decisione adottata, benché non ancora eseguibile, acquista autorità di cosa giudicata, quale che sia l’ampiezza del suo contenuto» (Sez. U, n. 373 del 23/11/1990, dep. 1991, Agnese, Rv. 186165).
La parte ricorrente, infine, evidenziava che la riformulazione del capo B, come contestato a Tatò, Scaroni e Conti, da parte della Corte di appello di Venezia, conseguente all’elisione della condotta concorsuale degli imputati, non trovava alcun riscontro nel dispositivo della sentenza impugnata, che così si pronunciava in ordine all’originaria contestazione accusatoria: «In parziale riforma della sentenza del Tribunale di Rovigo 31.3.2014 [ … ] assolve Tatò Francesco Luigi, Scaroni Paolo e Conti Fulvio dal reato di cui al capo b) perché il fatto non sussiste [ … ]».
4.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge della sentenza impugnata, in riferimento agli artt. 41, 110 e 434 cod. pen., conseguente al fatto che la decisione in esame risulta sprovvista di un percorso argomentativo che desse adeguatamente conto della ritenuta inapplicabilità della giurisprudenza di legittimità consolidata, genericamente richiamata dalla parte ricorrente, secondo cui la mancata eliminazione di una situazione di pericolo ad opera di terzi costituiva una condizione negativa che concorre a causare l’evento unitamente alla condizione iniziale.
Secondo il Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, le emergenze probatorie imponevano di ritenere dimostrato che gli amministratori delegati della società Enel s.p.a. succedutisi negli anni erano pienamente consapevoli delle conseguenze negative sulla salubrità dell’ambiente causate dall’ingente quantità di polveri sottili e metalli inquinanti immesse nell’atmosfera dagli impianti della Centrale termoelettrica di Porto Talle. Tale consapevolezza imponeva di ritenere collegate le posizioni degli imputati Tatò, Scaroni e Conti in un vincolo concorsuale, nel valutare il quale occorreva tenere conto della posizione di garanzia rivestita dai tre amministratori delegati nell’arco temporale compreso tra il 1998 e il 2009, conseguente al ruolo verticistico ricoperto all’interno dell’Enel.
Queste conclusioni imponevano di ritenere incongruo il argomentativo seguito dalla Corte territoriale veneziana per percorso escludere l’applicazione al caso in esame dell’art. 110 cod. pen., sul presupposto, non dimostrato, che non era possibile prefigurare una condotta concorsuale tra gli imputati Tatò, Scaroni e Conti in relazione all’ipotesi delittuosa di cui al capo B della rubrica.
Gli esiti assolutori ai quali era pervenuta la Corte territoriale veneziana, al contempo, non tenevano conto del fatto che tali conclusioni processuali erano incompatibili con la declaratoria di prescrizione pronunciata dalla Corte di cassazione, Sezione terza penale, l’11/11/2011, nel primo procedimento penale relativo alla Centrale termoelettrica di Porto Tolle, di cui ci si è già occupati. Da tale decisione di legittimità, infatti, emergeva che i vertici della società Enel s.p.a. erano pienamente consapevoli dell’impatto ambientale prodotto dalle emissioni nocive prodotte dallo stabilimento di Porto Tolle, accettato in ossequio a precise strategie aziendali.
Si evidenziava, infine, che, per gli odierni imputati, l’avere deciso di non adeguare la Centrale termoelettrica di Porto Tolle ai parametri normativamente imposti e di non riconvertire il sistema di combustione degli impianti con una fonte non inquinante costituivano comportamenti che si intersecavano tra loro, in funzione del perseguimento di una strategia aziendale pienamente consapevole e condivisa.
4.3. Con il terzo motivo di ricorso si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse adeguatamente conto degli elementi probatori acquisiti, indispensabili ai fini della configurazione del reato di cui al capo B, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, che erano stati valutati dal Giudice di appello veneziano senza tenere conto della giurisprudenza consolidata di questa Corte, così come affermata nel processo “Eternit” (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, Rv. 262790).
Si evidenziava, in proposito, che la sentenza impugnata aveva richiamato erroneamente o comunque impropriamente i principi affermati nei giudizi di merito del processo “Eternit”, senza tenere conto del fatto che tali parametri ermeneutici erano stati radicalmente rivisitati nel giudizio di legittimità conclusivo della predetta vicenda processuale (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
In questa cornice, si ribadiva che le emergenze probatorie imponevano di ritenere che gli imputati Tatò, Scaroni e Conti erano pienamente consapevoli delle emissioni tossiche dello stabilimento di Porto Tolle, che costituivano l’espressione di scelte aziendali agli stessi riconducibili, in conseguenza delle quali si concretizza l’azione inquinante censurata. Basti pensare, in proposito, che – come evidenziato nelle consulenze Di Marco e Maggiore, richiamate a pagina 4 del ricorso in esame – i quantitativi di sostanze tossiche immesse nell’atmosfera erano notevolmente superiori a quelle prodotte dalle altre centrali Enel e che tali elevati livelli di inquinamento erano una conseguenza della scelta aziendale di non ambientalizzare la Centrale termoelettrica di Porto Tolle, allo scopo di massimizzare i profitti societari.
Né poteva rilevare in senso contrario il dato processuale, ritenuto incontroverso dalla parte ricorrente, secondo cui gli imputati Tatò, Scaroni e Conti non intendevano cagionare un pericolo per la pubblica incolumità, atteso che tale elemento non consentiva di pervenire alla conclusione dell’irrilevanza del dolo eventuale, con riferimento alla configurazione del reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen.
4.4. Con il quarto motivo di ricorso, proposto in stretta correlazione con la precedente doglianza, si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguenti al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse adeguatamente conto degli elementi costituitivi del reato di cui al capo B, sotto il profilo dell’osservanza dei limiti imposti dalla legge in relazione alle emissioni tossiche prodotte la Centrale di Porto Tolle.
Si evidenziava, in proposito, che la sentenza impugnata muoveva dall’assunto indimostrato che, nel caso di specie, era sufficiente a escludere l’antigiuridicità della condotta delittuosa contestata a Tatò, Scaroni e Conti la circostanza, richiamata a pagina 74 della decisione in esame, che «le emissioni della Centrale di Porto Tolle siano sempre state contenute al di sotto dei limiti massimi previsti dalla legge[ … [».
Secondo il Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, questa affermazione era smentita dalle risultanze processuali, richiamate analiticamente nel contesto della doglianza in esame.
Si evidenziava, innanzitutto, che le conclusioni alle quali era giunta la Corte territoriale veneziana non tenevano conto del fatto che, con il passare degli anni, si erano registrati incontrovertibili peggioramenti delle emissioni nocive della centrale rodigina, tanto è vero che, nel processo “Enel 1”, cui ci si è già riferiti, i fatti di reato contestati agli imputati erano stati accertati nella loro consistenza materiale.
Queste conclusioni, inoltre, non tenevano conto del fatto che, per determinate fasce orarie giornaliere, vi erano stati dei significativi superamenti dei limiti prescritti dalla legge in riferimento alle emissioni tossiche, come evidenziato dal consulente tecnico dottor Scarselli, che veniva esaminato all’udienza del 23/09/2013, celebrata davanti al Tribunale di Rovigo; superamento che, nei termini che si sono richiamati, appariva particolarmente significativo con riferimento all’arco temporale compreso tra gli anni 2000 e 2002.
Le discrasie motivazionali censurate dalla parte ricorrente, a ben vedere, risultavano evidenti alla luce del percorso argomentativo seguito dalla stessa Corte territoriale veneziana, che, nel passaggio esplicitato a pagina 89 della sentenza impugnata, evidenziava che la formula assolutoria «non significa che nulla è accaduto o che le emissioni della centrale non possano aver determinato, come molte attività imprenditoriali [ … ] una forma di inquinamento atmosferico nel territorio circostante, tale da provocare disagi o problemi per la popolazione [ … ] ».
Il percorso argomentativo seguito dalla Corte di appello di Venezia, dunque, appariva in contrasto con le emergenze probatorie, muovendo dall’assunto, destituito di fondamento, secondo cui gli spazi di discrezionalità di cui disponevano i vertici dell’Enel con riferimento al funzionamento della Centrale termoelettrica di Porto Tolle e il regime derogatorio vigente in materia di emissione di sostanze tossiche legittimassero, per ciò solo, l’elusione delle garanzie per la salute pubblica dell’area geografica interessata dallo stabilimento in questione.
L’assunto processuale da cui muoveva il Giudice di secondo grado, peraltro, risultava smentito dai dati epidemiologici acquisiti nel giudizio celebrato davanti al Tribunale di Rovigo, cui ci si è già riferiti diffusamente, in conseguenza dei quali si accertava che le emissioni tossiche, conseguenti all’attività produttiva svolta dalla Centrale di Porto Tolle, si mantenevano elevate nel biennio compreso tra il 2000 e il 2002.
Ne discendeva che, presupposte tali incontrovertibili condizioni di tossicità delle emissioni, ritenere che non si fossero concretizzate situazioni di inquinamento atmosferico del territorio dove erano attivi gli impianti della centrale termoelettrica, solo perché non erano stati formalmente superati i limiti prescritti dalla legge, costituiva il frutto di un palese travisamento del compendio probatorio oggetto di vaglio.
In ogni caso, l’autorizzazione all’espletamento di un’attività produttiva non poteva considerarsi alla stregua di una preventiva e incondizionata legittimazione all’inquinamento atmosferico da parte dello stabilimento di Porto Tolle, essendo evidente che i gestori di tali impianti industriali non potevano comunque sottrarsi al generale obbligo del neminem laedere nei confronti della collettività circostante. Nessuna attività produttiva, del resto, poteva determinare la compromissione del diritto fondamentale alla salute dei cittadini, fondato sulla garanzia, costituzionalmente riconosciuta a ciascun individuo, di godere di un ambiente salubre.
L’assenza di giustificazioni idonee a legittimare il comportamento antigiuridico dei vertici dall’Enel emergeva anche da un ulteriore dato, costituito dal fatto che la dirigenza societaria, dopo l’approvazione del decreto ministeriale n. 159200 del 1990, aveva avuto 12 anni per adeguarsi ai parametri imposti da tale normativa, senza che si attivasse nella direzione richiesta. Tutto ciò è dimostrato dal fatto che, soltanto all’ultima scadenza prevista dalla disciplina ministeriale richiamata, intervenuta alla data del 31/12/2002, l’Enel si era conformata ai prescritti parametri, precisando però che non aveva adeguato i propri impianti alle migliori tecnologie dell’epoca, tanto è vero che aveva disposto la chiusura provvisoria delle sezioni 1, 2 e 3 dello stabilimento industriale rodigino.
Si è già detto, del resto, che tale soluzione emergenziale, conseguente all’inottemperanza dei vertici aziendali dell’Enel, imponeva un ulteriore intervento legislativo, sfociato nel decreto-legge n. 25 del 2003, con il quale, tenuto conto della situazione straordinaria nella quale versava lo stabilimento di Porto Tolle e della sua importanza per la produzione energetica nazionale, si autorizzava il proseguimento dell’attività produttiva in ulteriore deroga a quanto previsto dal d.P.R. n. 203 del 1988. L’utilizzo degli impianti industriali però doveva avvenire sulla base di un piano transitorio – adottato con il decreto ministeriale 13 giugno 2003 – che veniva approvato con decreto emesso dal Ministro delle Attività produttive, adottato di concerto con il Ministro dell’Ambiente e sentite le regioni interesate.
4.4.1. A tali considerazioni, occorreva aggiungere che la Corte di appello di Venezia, nell’escludere l’antigiuridicità delle condotte degli imputati Tatò, Scaroni e Conti, non aveva tenuto conto delle evidenze scientifiche che attestavano l’esistenza di una correlazione causale tra l’inquinamento atmosferico conseguente all’impiego di combustibili fossili e l’insorgenza di patologie respiratorie.
Costituiva, invero, un dato scientifico incontroverso quello secondo cui i processi di combustione costituiscono una delle maggiori forme di inquinamento atmosferico, in termini analoghi a quanto riscontrato con riferimento alla gran parte delle emissioni tossiche immesse nell’ambiente circostante la Centrale termoelettrica di Porto Tolle, le cui polveri sottili possedevano un’elevata capacità di diffondersi nell’organismo umano, veicolando sostanze ad alta tossicità.
La riprova di queste conclusioni derivava dall’ampio spettro di patologie respiratorie riscontrate nell’area in questione, i cui effetti dannosi sull’organismo, a breve e a lungo termine, costituivano la dimostrazione della correlazione causale disattesa nella sentenza impugnata. La Corte territoriale veneziana, dunque, svalutava il ruolo eziologico sull’aumento delle affezioni di origine respiratoria della popolazione residente nell’area interessata dallo stabilimento di Porto Talle, causato dall’emissione di sostanze tossiche, immesse nell’atmosfera in quantità elevate e per un lungo arco temporale.
La parte ricorrente, sul punto, richiamava le consulenze tecniche svolte nel giudizio di primo grado dai professori Tomatis e Rodriguez, ai sensi degli artt. 359 e 360 cod. proc. pen., citate a pagina 9 del ricorso in esame, in cui si evidenziava che «gli effetti dannosi indotti a livello cellulare dalle nane particelle possano avere un effetto aggravante su patologie preesistenti alla tossicità indotta da altri agenti nocivi ambientali e quindi agire da concause di una serie di patologie, o che possano contribuire di per sé a creare una situazione favorevole alla comparsa di patologie cronico-degenerative, o possano esserne di per sé all’origine [ … ]».
Rispetto a tali incontrovertibili dati epidemiologici non poteva rilevare, di per sé solo, la circostanza che lo svolgimento della produzione energetica della Centrale termoelettrica di Porto Talle era stata autorizzata, ai sensi dell’art. 13, comma 1, del d.P.R. n. 203 del 1988, a tenore del quale: «La regione, tenuto conto, oltre che dello stato dell’ambiente atmosferico e dei piani di risanamento, anche delle caratteristiche tecniche degli impianti, del tasso di utilizzazione e della durata della vita residua degli impianti, della qualità e quantità delle sostanze inquinanti contenute nelle emissioni, degli oneri economici derivanti dall’applicazione della migliore tecnologia disponibile, autorizza in via provvisoria la continuazione delle emissioni stabilendo le prescrizioni sui tempi e modi di adeguamento».
Questa disciplina, infatti, non introduceva una deroga generalizzata alla prosecuzione delle attività inquinanti da parte dello stabilimento di Porto Talle, presupponendo un complesso di valutazioni di compatibilità con la situazione ambientale e la predisposizione di adeguati progetti di risanamento, idonei a garantire la qualità e la quantità delle sostanze immesse nell’atmosfera, non riscontrabili nel caso in esame. Ne conseguiva che la Centrale di Porto Talle aveva operato, per oltre un decennio, in regime transitorio, in forza di una disciplina sulla base della quale le emissioni nocive venivano tollerate in presenza di condizioni di eccezionalità e in attesa del rilascio definitivo dell’autorizzazione da parte delle competenti autorità ministeriali.
Le peculiari condizioni di operatività dello stabilimento industriale in questione, quindi, imponevano ai suoi gestori e ai vertici aziendali della società Enel s.p.a. – tra cui gli imputati Tatò, Scaroni e Conti – di regolare l’attività di produzione energetica, in modo da non mettere in pericolo l’incolumità pubblica dell’ambiente circostante e della popolazione che risiedeva in tale area, che occorreva salvaguardare.
Ne discendeva che, in presenza di una reiterata e sistematica violazione dei parametri imposti dal d.P.R. n. 203 del 1988, il giudizio assolutorio formulato dalla Corte di appello di Venezia nei confronti degli imputati Tatò, Scaroni e Conti per il delitto di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., così come contestato al capo B, appariva espresso in contrasto con le emergenze probatorie. L’assoluzione degli imputati, infatti, risultava fondata sulla pretermissione dei dati epidemiologici che si sono richiamati, che imponeva di ritenere provata l’esistenza di una correlazione tra i fattori di inquinamento ambientale prodotti dal ciclo di produzione dello stabilimento di Porto Talle e le patologie respiratorie riscontrate nell’area geografica interessata da tale attività.
A fronte di queste univoche emergenze probatorie, dalla sentenza impugnata emergeva l’erroneo convincimento della Corte territoriale veneziana che il rispetto dei limiti stabiliti dalla disciplina normativa di riferimento impedisse di qualificare come antigiuridica l’emissione di sostanze inquinanti provocata dagli impianti di Porto Talle. Nella decisione censurata, infatti, non si faceva alcun riferimento alla tossicità delle emissioni, alla quale, al contrario di quanto affermato dal Giudice di appello veneziano, la disciplina di settore si richiamava espressamente.
Secondo il Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, infatti, dati di incidenza epidemiologica sull’area rodigina imponevano di ritenere esistente una correlazione causale tra l’inquinamento prodotto dallo stabilimento di Porto Talle e le patologie respiratorie della popolazione residente, che non erano altrimenti spiegabili, tenuto conto delle dimensioni dell’evento disastroso in esame. Né era possibile ipotizzare che l’eccesso statistico di morbilità riscontrato nell’area geografica in questione potesse essere causato da fattori causali differenti da quelli che si stanno considerando, non trovando tale ipotesi alcun fondamento scientifico.
Le discrasie argomentative censurate dalla parte ricorrente apparivano ancora più evidenti alla luce di un ulteriore elemento probatorio, costituito dal fatto che i dati forniti dall’A.S.L. 19 di Adria, relativi al periodo compreso tra il 2004 e il 2006, testimoniavano un calo significativo delle patologie tumorali, del quale la Corte territoriale veneziana non aveva tenuto conto. Tali dati clinici venivano irragionevolmente disattesi dalla sentenza impugnata, che non dava atto della contestuale diminuzione, prossima all’azzeramento, delle quantità di fattori inquinanti immessi nell’atmosfera nello stesso arco temporale, che rendeva incontroversa l’esistenza di una correlazione tra l’emissione di sostanze tossiche riconducibili all’attività di produzione dello stabilimento di Porto Talle e l’incremento di patologie respiratorie della popolazione locale.
Si evidenziava, infine, nel passaggio del ricorso in esame, esplicitato a pagina 12, che la sentenza impugnata «aveva ignorato i documenti che pure erano stati prodotti all’udienza del gennaio 2014 proprio in ordine all’equivoco – suscitato dai consulenti ENEL – sui dati di mortalità per tumore al polmone, erroneamente presentati come riferibili all’area della Centrale (ASL 19) quando, invece, erano relativi all’ASL 18 di Rovigo, distante oltre 60 Km da quei luoghi. E a seguito della diminuzione (quasi azzeramento) della quantità di inquinanti immessi nell’aria della Centrale corrisponde, infatti, il venir meno dell’eccesso statistico di mortalità per tumore al polmone per la prima volta in un quarto di secolo».
4.5. Con il quinto motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse adeguatamente conto degli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 434 cod. pen., così come contestato al capo B della rubrica, sotto il profilo dell’individuazione del pericolo per la pubblica incolumità.
Si evidenziava, in proposito, che la decisione impugnata, nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 82, espressamente richiamato a pagina 13 del ricorso in esame, riteneva necessario per la configurazione del pericolo per la pubblica incolumità richiesto dall’art. 434 cod. pen. un «inquinamento atmosferico grave diffuso e macroscopico e come conseguenza un grave pericolo per la salute di un numero indeterminato di persone [ … ]».
Partendo da tale premessa sistematica, ritenuta dalla parte ricorrente contrastante con la formulazione dell’art. 434 cod. pen., che non richiede per la configurazione di tale ipotesi delittuosa la sussistenza di una situazione di pericolo connotata da gravità, la Corte di appello di Venezia giungeva all’erronea conclusione della mancanza di prove della condizione di pericolosità per la pubblica incolumità, sulla base dei dati epidemiologici forniti nella consulenza tecnica svolta dal professor Paolo Crosignani, cui ci si è già riferiti.
Queste conclusioni dovevano ritenersi erronee sotto un duplice profilo.
Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia evidenziava anzitutto che, per integrare la situazione di pericolo prefigurata dall’art. 434 cod. pen., era sufficiente l’astratta idoneità della condotta delittuosa a provocare l’effetto disastroso temuto, con una percentuale statistica che poteva anche essere modesta, atteso che l’elevata frequenza, al contrario di quanto affermato nella decisione di appello impugnata, era necessaria esclusivamente in riferimento ai comportamenti criminosi riconducibili ai reati di danno; categoria alla quale le condotte illecite degli imputati Tatò, Scaroni e Conti non erano pacificamente riconducibili.
Nei reati di pericolo, infatti, assumeva rilevanza anche la bassa probabilità di verificazione dell’evento delittuoso considerato dalla fattispecie incriminatrice, laddove tale probabilità, come nel caso in esame, risulti associata a circostanze connotate da univocità probatoria.
Queste conclusioni, del resto, risultavano avvalorate dalla sentenza “Franzese” (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138), di cui, a pagina 13 del ricorso in esame, si richiamava il passaggio motivazionale esplicitato a pagina 15 della stessa decisione di legittimità, in cui si osservava: «È indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento [ … ]».
Né era possibile affermare che un siffatto grado di probabilità di verificazione dell’evento disastroso non ricorresse nel caso di specie, costituendo un dato processuale incontroverso quello secondo cui, nell’area geografica interessata dalla Centrale termoelettrica di Porto Tolle, si riscontravano indici di morbilità collegati a patologie polmonari notevolmente superiori alle medie nazionali – quantomeno per i soggetti di sesso maschile – per un periodo di oltre 20 anni.
Il secondo elemento di discrasia argomentativa della sentenza impugnata evidenziato dalla parte ricorrente, con riferimento alla configurazione del reato di cui all’art. 434 cod. pen., riguardava la circostanza che la Corte territoriale veneziana, nell’emettere la decisione assolutoria censurata, non aveva tenuto conto di tutti gli altri indicatori di pericolo per la pubblica incolumità acquisiti nel giudizio di primo grado, che non erano riconducibili alle sole conclusioni formulate dal professor Crosignani, peraltro valutate isolatamente e in termini svincolati dal compendio probatorio.
Ci si riferiva, in primo luogo, alla deposizione resa dal dottor Scarselli all’udienza del 23/09/2013, celebrata davanti al Tribunale di Rovigo, così richiamata a pagina 13 del ricorso in esame: «C’è una corrispondenza tra i valori assoluti, diciamo previsti al suolo, quindi modelli elaborati da Arpav e i danni che abbiamo trovato nella flora lichenica. E prevedono anche dei livelli di inquinamento da SO2 che addirittura sopravanzano quelli che diciamo i limiti di legge [ … ]. I valori di legge per la protezione della salute umana relativo all’anidride solforosa [ … ]».
Nella stessa direzione, occorreva considerare il passaggio della deposizione resa dal dottor Scarselli, anch’esso richiamato a pagina 13 dell’impugnazione in esame, in cui si affermava che era «emersa una sostanziale corrispondenza tra le previsioni quantitative degli output di Arpav e i dati espressi dalla biodiversità lichenica [ … ]».
Un ulteriore elemento sintomatico della situazione di pericolo per la pubblica incolumità, rilevante ai sensi dell’art. 434 cod. pen., erroneamente disatteso dalla Corte territoriale veneziana, era costituito dagli studi sulla mortalità per l’insorgenza di patologie tumorali svolti dalla A.S.L. 19 di Adria, così come richiamati nelle pagine 13 e 14 del ricorso in esame. Secondo tali studi epidemiologici, nell’arco temporale compreso tra il 1999 e il 2007 – valutato comparativamente con il periodo compreso tra il 1987 e il 1993 – la mortalità per tumori polmonari, nel territorio di competenza della stessa A.S.L., era in notevole aumento, sia per quanto riguardava la popolazione di sesso maschile sia per quanto riguardava la popolazione di sesso femminile.
Secondo la parte ricorrente, nella formulazione del giudizio assolutorio censurato, non si era nemmeno tenuto conto dei dati contenuti nel Registro tumori della Regione Veneto, che costituivano un ulteriore elemento sintomatico della situazione di pericolo per la pubblica incolumità causata dall’attività produttiva svolta nello stabilimento di Porto Tolle.
Si evidenziava, infine, che, nella decisione impugnata, non si era tenuto conto delle gravissime conseguenze prodotte dalle emissioni inquinanti in esame sulle condizioni di resilienza dell’ecosistema, nel valutare le quali occorreva considerare che, per 25 anni, si era verificata una contaminazione atmosferica progressiva da parte della Centrale termoelettrica di Porto Tolle, che aveva determinato un deterioramento delle difese immunitarie degli organismi viventi di quell’area geografica.
Sulla scorta di tali considerazioni, la parte ricorrente, nel passaggio argomentativo esplicitato a pagina 14 del ricorso in esame, osservava conclusivamente che, anche se «non visivamente ed immediatamente percepibile, la compromissione delle caratteristiche di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività tale da determinare una lesione della pubblica incolumità può realizzarsi in un periodo di tempo molto prolungato, come si verifica in caso in di immissioni tossiche che incidono sull’ecosistema e sulla qualità dell’aria respirabile, determinando processi di deterioramento anche di lunga durata dell’habitat umano».
4.6. Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento della sentenza impugnata.
5. Occorre, in ultimo, dare conto del fatto che, nell’interesse degli imputati Paolo Scaroni e Fulvio Conti, venivano depositate memorie difensive, in relazione al ricorso introduttivo del presente procedimento, di cui occorre dare separatamente conto.
5.1. L’imputato Paolo Scaroni, a mezzo degli avvocati Enrico Maria De Castiglione e Tommaso Bortoluzzi, in data 21/12/2017, depositava una memoria difensiva con la quale venivano articolati i seguenti argomenti difensivi, distinti in relazione a ciascuno dei motivi del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia.
5.1.1. Quanto al primo motivo di ricorso, per la cui ricognizione si rinvia al paragrafo 4.1, i difensori di Paolo Scaroni evidenziavano che il tema del concorso nel reato di cui all’art. 434 cod. pen., per la posizione del loro assistito, era assolutamente marginale ai fini del giudizio assolutorio espresso dai Giudici di merito nei suoi confronti.
Si evidenziava anzitutto che il ricorso introduttivo del presente procedimento trascurava di considerare l’effetto pienamente devolutivo del giudizio di appello, rispetto al quale il Giudice di secondo grado veneziano era legittimato a verificare tutte le risultanze processuali e a rivalutare, laddove ritenuto necessario, i punti della decisione impugnata che non avevano formato oggetto di specifica censura, non essendo vincolato alle alternative decisorie prospettate nei motivi di impugnazione, come affermato dalle Sezioni unite in un risalente e tuttora insuperato arresto (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231675).
Ne discendeva che, al contrario di quanto dedotto dalla parte ricorrente, la Corte di appello di Venezia era legittimata ad affrontare la questione relativa al concorso doloso nel reato di cui al capo B, ancorché non evidenziata espressamente negli atti di appello, in conseguenza del fatto che l’impugnazione presentata dal pubblico ministero rodigino imponeva di considerare tutti i punti e i capi della decisione della decisione di primo grado, in conseguenza dell’effetto devolutivo di cui si è detto.
Si evidenziava, al contempo, che il tema del concorso doloso veniva trattato dalla Corte territoriale veneziana esclusivamente nell’ambito delle considerazioni preliminari della decisione impugnata; mentre, il fulcro della pronuncia in esame era costituito dalla ritenuta insussistenza del reato di cui all’art. 434 cod. pen., sia sotto il profilo dell’elemento oggettivo sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo.
5.1.2. Quanto al secondo motivo di ricorso, per la cui ricognizione si rinvia al paragrafo 4.2, i difensori di Scaroni evidenziavano che l’articolazione di tale doglianza si sviluppava attraverso argomenti generici e prospettati in termini apodittici, non comprendendosi sulla base di quali elementi di giudizio era possibile affermare la consapevolezza dell’imputato in ordine all’operato gestionale del suo predecessore e del suo successore.
Queste considerazioni, infatti, non tenevano conto della circostanza che i reati omissivi impropri comportano la punibilità del soggetto attivo sulla base della clausola di equivalenza prefigurata dall’art. 40, comma secondo, cod. pen., che, nel caso in esame, il Giudice di appello veneziano, sulla base di un percorso argomentativo ineccepibile, riteneva di non potere applicare nei confronti di Scaroni.
Si deduceva, in proposito, che la mancata eliminazione di una situazione di pericolo a opera di terzi costituisce una condizione negativa che concorre a causare l’evento delittuoso, che deve essere valutata unitamente al presupposto che si proceda per reati colposi e non già, come nel caso in esame, che si proceda per reati dolosi.
5.1.3. Quanto al terzo motivo del ricorso in esame, per la cui ricognizione si rinvia al paragrafo 4.3, la difesa dell’imputato Scaroni evidenziava che tale doglianza era inammissibile, non individuando profili della sentenza impugnata censurabili, ma limitandosi a esprimere, in termini meramente assertivi, convinzioni non supportate da elementi probatori in ordine alla consapevolezza delle emissioni tossiche collegate all’attività produttiva della Centrale termoelettrica di Porto Talle.
Tuttavia, tali considerazioni non tenevano conto del fatto che il compendio probatorio acquisito aveva dimostrato l’assenza del dolo di disastro in capo a Scaroni, per configurare il quale sarebbe stata necessaria la volontà dell’imputato di cagionare l’evento inquinante oggetto di contestazione, agendo con tale specifico fine, rispetto al quale non era ipotizzabile che Scaroni avesse semplicemente accettato di determinarlo, atteso che tale atteggiamento non sarebbe stato sufficiente a concretizzare l’elemento soggettivo richiesto per la configurazione della fattispecie di cui all’art. 434 cod. pen.
Si richiamava, in proposito, la giurisprudenza consolidata di questa Corte (Sez. 1, n. 41306 del 07/10/2009, Scola, Rv. 245039), secondo la quale si ha dolo diretto solo quando la volontà dell’agente, al contrario di quanto riscontrabile nel caso in esame, è diretta al perseguimento di un determinato risultato, rispetto al quale si ritengono voluti gli effetti comunque previsti, come possibili o anche solo astrattamente verificabili.
La difesa di Scaroni, al contempo, evidenziava che, per la configurazione della fattispecie di cui all’art. 434 cod. pen., si richiede che l’agente abbia commesso un fatto diretto a provocare un evento disastroso, con la conseguenza che nell’ipotesi in cui il fatto sia stato posto in essere non per conseguire tale risultato ma altre finalità, difettano sia l’elemento oggettivo sia l’elemento soggettivo del reato. Ne consegue che è possibile ipotizzare il dolo eventuale nei reati di disastro solo a condizione che il soggetto attivo non si sia determinato alla consumazione della condotta con un determinato obiettivo, teso a provocare un disastro.
5.1.4. Quanto al quarto motivo del ricorso in esame, per la cui ricognizione si rinvia ai paragrafi 4.1 e 4.1.1, i difensori di Scaroni evidenziavano che tale doglianza era inammissibile, richiedendo alla Corte di cassazione una rivalutazione, non consentita in sede di legittimità, degli elementi di fatto utilizzati dalla Corte di appello di Venezia per pervenire a un giudizio assolutorio nei confronti dell’imputato.
A tali dirimenti considerazioni, occorreva aggiungere che tutti gli atti processuali richiamati dalla parte ricorrente a sostegno della doglianza in esame non venivano né allegati né trascritti nel ricorso introduttivo del presente procedimento, con la conseguente violazione del principio di autosufficienza degli atti di impugnazione.
Si osservava, al contempo, che l’assunto su cui la doglianza in oggetto si fondava risultava smentita dalle emergenze probatorie, trascurando di considerare che la condotta censurata risultava legislativamente consentita, se non addirittura imposta dal governo dell’epoca, con la conseguenza di non permettere di affermare l’antigiuridicità del comportamento di Scaroni in presenza di interventi legislativi specificamente finalizzati ad autorizzare l’attività produttiva svolta dalla Centrale termoelettrica di Porto Tolle.
La parte ricorrente, infatti, sosteneva la sussistenza del reato di cui all’art. 434 cod. pen., senza tenere conto del fatto che le emissioni della Centrale di Porto Tolle risultavano sempre contenute entro i limiti previsti dalla legge, ritenendo erroneamente che, a prescindere dall’osservanza delle prescrizioni normative, vi era stata una compromissione della qualità dell’aria e della salute dei cittadini, rispetto alla quale non si erano attivati i meccanismi impeditivi necessari a determinare la concretizzazione di un pericolo per la pubblica incolumità dei soggetti residenti nell’area geografica rodigina interessata dalle emissioni tossiche.
Tale impostazione processuale, dunque, non teneva conto della liceità della condotta di Scaroni, conseguente all’osservanza delle prescrizioni normative di cui si è detto, affermando in termini apodittici il coinvolgimento concorsuale dell’imputato sulla base di un indimostrato peggioramento delle emissioni tossiche prodotte dalla Centrale termoelettrica di Porto Tolle.
Né potevano rilevavate in senso contrario i dati provenienti dal Registro tumori del Veneto, richiamati genericamente e senza le indicazioni documentali indispensabili all’inquadramento della rilevanza epidemiologica degli elementi addotti a sostegno della doglianza in questione. Tale richiamo, infatti, trascurava di considerare che la stessa decisione del Tribunale di Rovigo aveva ritenuto scarsamente attendibili i dati provenienti dal Registro tumori del Veneto, in conseguenza del fatto che non era stata esplicitata la metodologia scientifica sulla base della quale si stabiliva un collegamento tra l’attività produttiva dello stabilimento di Porto Tolle e le patologie respiratorie oggetto di osservazione nosografica.
5.1.5. Quanto, infine, al quinto motivo del ricorso in esame, per la cui ricognizione si rinvia al paragrafo 4.5, la difesa dell’imputato Scaroni evidenziava che tale doglianza si sviluppava su un piano meramente fattuale, effettuando un’interpretazione delle risultanze probatorie alternativa a quella posta a fondamento della decisione impugnata, in assenza di elementi che legittimassero una siffatta lettura del compendio probatorio.
Si evidenziava, in proposito, che la parte ricorrente pretendeva il compimento di un siffatto percorso valutativo senza allegare o anche solo riprodurre gli elementi probatori su cui fondava le proprie deduzioni processuali, violando il principio di autosufficienza degli atti di impugnazione, negli stessi termini censurati con riferimento al quarto motivo di ricorso.
Ne discendeva che la parte ricorrente si limitava a richiedere una rilettura degli elementi probatori non supportata da specifiche allegazioni processuali e contrastante con i poteri riconosciuti al giudice di legittimità. Il ricorrente, dunque, si limitava a richiamare nuovi e differenti parametri di valutazione dei fatti in contestazione, affermandone la maggiore plausibilità in termini apodittici, senza effettuare alcuna allegazione probatoria idonea a supportare tali conclusioni processuali.
Queste ragioni processuali imponevano la conferma della sentenza impugnata, limitatamente alla posizione dell’imputato Paolo Scaroni.
5.2. L’imputato Fulvio Conti, a mezzo degli avvocati Paola Severino e Antonio Franchini, in data 21/12/2017, depositava una memoria difensiva, con la quale si censuravano i singoli motivi del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia.
5.2.1. In questa cornice, preliminarmente la difesa di Conti eccepiva la carenza di legittimazione all’impugnazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, conseguente al fatto che, a fronte dell’intervenuta assoluzione dell’imputato dal reato di cui al capo B, non era stato presentato alcun ricorso delle parti civili, legittimante l’intervento di questa Corte, per effetto del combinato disposto degli artt. 576 e 622 cod. proc. pen.
A sostegno di queste argomentazioni si richiamava la giurisprudenza di legittimità consolidata, cui ci si riferiva diffusamente nelle pagine 2-4 delle memorie in esame.
Passando a considerare le singole censure difensive, quanto al primo motivo di ricorso, per la cui ricognizione si rinvia al paragrafo 4.1, la difesa di Conti evidenziava che tale doglianza trascurava la piena devoluzione della cognizione del giudice di appello, su tutti i capi e i punti della sentenza impugnata, che rendeva destituito di fondamento l’assunto da cui muoveva la parte ricorrente, che risultava palesemente in contrasto con la giurisprudenza di legittimità consolidata, analiticamente esaminata.
Si deduceva, in proposito, che l’appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rovigo contro la sentenza di assoluzione emessa nei confronti dell’imputato Conti, nel giudizio di primo grado, aveva effetto pienamente devolutivo, con la conseguenza che, attribuendo al giudice di appello gli ampi poteri decisori previsti dall’art. 597, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., legittimava la rivalutazione da parte della Corte territoriale veneziana dei profili processuali censurati dalla parte ricorrente.
Tenuto conto di queste incontroverse premesse sistematiche, non si comprendeva sulla base di quali elementi si riteneva che la Corte territoriale veneziana avesse violato i limiti posti alla sua decisione, nell’affrontare la questione relativa al concorso doloso nel reato di cui all’art. 434 cod. pen., peraltro imposta dalla stessa impugnazione proposta dal pubblico ministero rodigino avverso l’assoluzione dell’imputato Conti.
Si evidenziava, in ogni caso, che l’assoluzione di Conti per l’insussistenza del reato di cui al capo B, conseguente all’insussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie dell’art. 434 cod. pen., rendeva secondaria la questione processuale oggetto di vaglio.
5.2.2. Quanto al secondo motivo di ricorso, per la cui ricognizione si rinvia al paragrafo 4.2, i difensori di Fulvio Conti evidenziavano che tale doglianza si fondava su affermazioni generiche e prive di collegamento con le emergenze probatorie, che risultavano univocamente orientate in senso favorevole all’imputato.
Secondo la difesa di Conti, la doglianza in esame si fondava su una premessa, costituita dalla consapevolezza dell’imputato del comportamento dei suoi predecessori – Tatò e Scaroni – che risultava indimostrata, oltre a postulare una rivalutazione di fatto degli elementi probatori acquisiti nei sottostanti giudizi, preclusa al giudice di legittimità. Non si comprendeva, pertanto, sulla base di quali fonti di prova, nemmeno genericamente richiamate nel ricorso in esame, si era giunti alla conclusione che l’imputato fosse a conoscenza delle condotte illecite poste in essere dai suoi predecessori, apoditticamente collegate dalla parte ricorrente all’attività dirigenziale di Conti.
Si evidenziava, infine, che il principio secondo cui la mancata eliminazione di una situazione di pericolo a opera dei terzi era una condizione negativa che concorreva a causare l’evento, nelle ipotesi di reati omissivi impropri, era inapplicabile alla fattispecie dell’art. 434 cod. pen., sulla base di quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità consolidata, cui ci si riferiva diffusamente.
5.2.3. Quanto al terzo motivo del ricorso in esame, per la cui ricognizione si rinvia al paragrafo 4.3, la difesa di Conti evidenziava che la Corte di appello di Venezia, al contrario di quanto affermato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, non aveva travisato il giudizio espresso dal Tribunale di Rovigo in tema di elemento soggettivo del reato contestato al capo B, censurando il percorso argomentativo seguito dal Giudice di primo grado sulla base di una corretta ricostruzione del compendio probatorio, fondata sui parametri ermeneutici affermati dalla Corte di cassazione nella sentenza emessa a conclusione del processo “Eternit” (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
Ne discendeva che la Corte territoriale veneziana non condivideva, sulla base di argomentazioni giuridiche ineccepibili e supportate dalla giurisprudenza di legittimità consolidata, il percorso argomentativo seguito dal Tribunale di Rovigo in tema di elemento soggettivo del reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., com’era evidente dal passaggio motivazionale esplicitato nelle pagine 68 e 69 della decisione impugnata, espressamente richiamato nelle memorie difensive in esame.
Si deduceva, in proposito, che il Giudice di appello veneziano, sulla base di un’ineccepibile ricostruzione delle conclusioni alle quali era pervenuto il Tribunale di Rovigo, fondava il respingimento dell’atto di appello proposto nei confronti di Conti dal pubblico ministero rodigino, sull’assenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., così come contestato al capo B della rubrica.
5.2.4. Quanto, infine, al quinto motivo del ricorso in esame, per la cui ricognizione si rinvia al paragrafo 4.5, i difensori di Fulvio Conti evidenziavano che tale doglianza richiedeva alla Corte di cassazione un’inammissibile rivalutazione dei dati epidemiologici acquisiti nel giudizio di primo grado, che risultavano correttamente valutati dalla Corte di appello di Venezia e imponevano di escludere la sussistenza di una situazione di pericolo per la pubblica incolumità, indispensabile per la configurazione del reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen.
Si trascurava, al contempo, di considerare che l’operazione di ermeneutica processuale richiesta dalla parte ricorrente risultava finalizzata al compimento di un esame del merito delle deposizioni acquisite nel dibattimento di primo grado e dei dati epidemiologici raccolti dalle aziende sanitarie locali del territorio rodigino interessato dalle emissioni tossiche della Centrale termoelettrica di Porto Talle, che fuoriusciva dagli ambiti di verifica e dai poteri giurisdizionali propri del giudizio di legittimità.
Si pretendeva, dunque, che la Corte di cassazione compisse un vaglio di natura fattuale, precluso in sede di legittimità, senza nemmeno allegare o riprodurre il contenuto degli atti e dei documenti richiamati a sostegno della doglianza in esame, in palese violazione del principio di autosufficienza degli atti di impugnazione, così come prefigurato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte, diffusamente richiamata.
Si ribadiva, in ogni caso, l’infondatezza del quinto motivo del ricorso introduttivo del presente procedimento, sulla scorta degli argomenti enucleati nei punti I-X della censura in esame, esplicitati nelle pagine 14-16, che richiamavano gli argomenti esposti nell’atto di appello proposto davanti alla Corte di appello di Venezia, fondati sull’inidoneità del compendio probatorio acquisito a dimostrare che un evento di macro-inquinamento fosse stato cagionato da Conti nel periodo in cui ricopriva la carica di amministratore delegato della società Enel s.p.a.
In definitiva, l’assoluzione di Fulvio Conti si imponeva, in conseguenza del fatto che nessuna prova era stata fornita nei sottostanti giudizi sulla verificazione di un marco-evento, quale presupposto per la configurazione di una situazione di pericolo concreto per la pubblica incolumità, rilevante ai sensi dell’art. 434, comma primo, cod. pen.
Queste ragioni imponevano la conferma della sentenza impugnata, limitatamente alla posizione dell’imputato Fulvio Conti.
CONSIDERATOIN DIRITTO
1. Il ricorso proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia è inammissibile.
2. In via preliminare, è necessario richiamare i principi di carattere generale che consentono un corretto inquadramento sistematico della vicenda processuale in esame, alla luce dei parametri ermeneutici affermati da questa Corte.
2.1. La prima questione ermeneutica su cui occorre soffermarsi riguarda le imputazioni ascritte agli imputati, per le quali deve evidenziarsi che, in conseguenza del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, si procede per il reato di cui al capo B, contestato, ai sensi degli artt. 81, comma secondo, 110, 434 cod. pen., in forma semplice per l’imputato Conti e in forma aggravata per gli imputati Luigi Francesco Tatò e Paolo Scaroni.
Deve, invero, rilevarsi che, nel ricorso in esame, vi è un contrasto tra la parte motivazionale – dalla quale si evince che l’impugnazione veniva proposta, in relazione all’aggravante di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., sia per l’imputato Tatò sia per l’imputato Scaroni – e le richieste conclusive, riguardanti, relativamente alla circostanza in questione, la sola posizione di Tatò.
Tuttavia, tale discrasia espositiva deve ritenersi, all’evidenza, il frutto di un mero lapsus calami, atteso che dall’esposizione dei cinque motivi attraverso cui si articola il ricorso in esame si evince chiaramente che, relativamente all’aggravante di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., l’impugnazione riguarda sia l’imputato Tatò sia l’imputato Scaroni.
2.1.1. Tanto premesso, deve evidenziarsi che, come si è già detto nella prima parte di questa sentenza, il compendio probatorio del presente procedimento si basa essenzialmente su indagini epidemiologiche svolte sulla popolazione residente nell’area interessata dalle emissioni nocive della Centrale termoelettrica di Porto Tolle, sulla cui rilevanza processuale le decisioni di merito raggiungevano conclusioni differenti.
Secondo il Tribunale di Rovigo, il compendio probatorio consentiva di formulare un giudizio di colpevolezza nei confronti di Tatò e Scaroni, per il reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., contestato al capo B, con la conseguente condanna degli imputati alla pena di 3 anni di reclusione; le fonti di prova acquisite nel giudizio di primo grado, invece, non consentivano di ritenere Conti colpevole dell’ipotesi di cui al capo B, dalla quale veniva assolto.
Viceversa, secondo la Corte di appello di Venezia, l’impianto accusatorio non consentiva di collegare il pericolo per la salute pubblica conseguente alle emissioni tossiche prodotte dalla Centrale termoelettrica di Porto Tolle alle condotte gestionali contestate agli imputati Tatò, Scaroni e Conti, succedutisi nella carica di amministratore delegato della società Enel s.p.a. dal 1998 al 2009.
In questa cornice, occorre evidenziare che le conclusioni raggiunte dai Giudici di merito divergono in ordine alla sussistenza del reato di cui al capo B della rubrica e alla qualificazione dell’evento disastroso collegato all’attività produttiva della Centrale di Porto Tolle.
Assume, pertanto, rilievo preliminare, in relazione al reato di cui al capo B, l’inquadramento del delitto di disastro previsto dall’art. 434, comma primo, cod. pen. e dell’ipotesi delittuosa di cui al secondo comma come fattispecie autonoma o aggravata dall’evento.
Risolto questo problema, occorre individuare la data di consumazione del reato contestato al capo B, avuto riguardo alla natura dell’evento disastroso preso in considerazione dall’art. 434 cod. pen., dalla quale fare decorrere il computo dei termini di prescrizione, anche ai fini dell’eventuale applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen.
In relazione al primo ordine di questioni, relativo all’inquadramento della fattispecie dell’art. 434, comma primo, cod. pen., occorre prendere le mosse dall’ultimo intervento chiarificatore di questa Corte (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.), cui ci si è già riferiti nel paragrafo 4.3 della prima parte di questa sentenza, al quale si rinvia, che ha ricostruito l’ipotesi delittuosa in esame sulla scorta delle indicazioni ermeneutiche fornite dalla sentenza della Corte costituzionale 1 agosto 2008, n. 327 e dagli arresti giurisprudenziali intervenuti sulla materia, collegati alla stessa pronuncia del Giudice delle leggi.
Fatta tale indispensabile premessa, occorre anzitutto osservare che questa Corte, nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 64 della decisione di legittimità citata, intervenuta a conclusione del procedimento “Eternit”, evidenziava che, sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 327 del 2008 (Corte cost., sent. n. 327 del 2008), era possibile «delineare una nozione unitaria di “disastro”, i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti [ … ]» (Sez. 1, n.7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
Veniva, in questo modo, individuata una nozione unitaria di disastro, che traeva il proprio fondamento sistematico dalla pronuncia della Corte costituzionale che si è richiamata e dalla giurisprudenza di legittimità consolidata (Sez. 3, n. 9418 del 16/01/2008, Agizza, Rv. 239160; Sez. 4, n. 19342 del 20/02/2007, Rubiera, Rv. 236140; Sez. 1, n. 30216 del 25/06/2003, Barillà, Rv. 225504; Sez. 4, n. 1171 del 09/10/1997, Posfortunato, Rv. 210152; Sez. 1, n. 17549 del 21/12/1988, dep. 1989, Sequestro, Rv. 182862), da ultimo ribadita dalla decisione di legittimità intervenuta nel processo “Eternit”, che costituisce il punto di riferimento ermeneutico indispensabile per inquadrare la vicenda delittuosa in esame (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit. ).
2.1.2. In questa cornice, occorre affrontare un primo problema, costituito dalla possibilità che la diffusione di polveri sottili, collegata all’attività produttiva della Centrale di Porto Tolle, pur connotata da incontrovertibile pericolosità – dato processuale, questo, che può ritenersi pacifico, oltre a non essere contestato dagli imputati – possa ritenersi idonea a integrare l’evento distruttivo che, come si è detto nel paragrafo precedente, connota la nozione di disastro recepita nell’art. 434, comma primo, cod. pen., sul cui inquadramento si incentrano le censure proposte dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia con l’atto di impugnazione in esame.
Si tratta, dunque, di verificare la possibilità di individuare un evento disastroso in un fenomeno non dirompente ed eclatante, ma diffuso, silente e penetrante, valutandone la compatibilità, come evidenziato nel passaggio motivazionale esplicitato nelle pagine 64 e 65 della decisione di legittimità intervenuta nel processo “Eternit”, con la «necessità, postulata dalla esigenza di determinatezza della fattispecie, che la teorica polivalenza del termine disastro trovi soluzione univoca nella omogeneità strutturale della relativa nozione da accogliersi ai fini dell’ipotesi in esame, rispetto ai “disastri” contemplati negli altri articoli compresi nel capo dei delitti di comune pericolo “mediante violenza” [ … ]» (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, ctt.)».
Si può, innanzitutto, ritenere pacifico che la fattispecie dell’art. 434 cod. pen., nella parte in cui punisce il disastro innominato, svolge la funzione di norma di chiusura, mirando a riempire i vuoti di tutela, all’interno del capo del codice penale nel quale la disposizione in questione è inserita.
Ne discende che, nonostante l’inclusione della fattispecie di cui all’art. 434 cod. pen. nell’ambito normativo che tratta specificamente del crollo, non si richiede che di tale fenomeno il disastro replichi le caratteristiche fenomeniche e naturalistiche, essendo evidente che può farsi concretamente riferimento a un evento di natura eterogenea rispetto a quelli presi in considerazioni dalle altre fattispecie del capo in cui la disposizione in esame è inserita.
Occorre, al contempo, rilevare che, tenuto conto delle altre fattispecie incriminatrici disciplinate dal capo del codice penale in questione, è possibile escludere che la riconducibilità dei fenomeni disastrosi a un macroevento di dirompente portata distruttiva costituisca un requisito essenziale per la configurazione del reato di cui all’art. 434 cod. pen.
Basti, in proposito, richiamare un altro fondamentale arresto giurisprudenziale di questa Corte, intervenuto in relazione al “Disastro di Porto Marghera” (Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, dep. 2007, Bartalini, Rv. 235669), nel quale, nel passaggio motivazionale esplicitato nelle pagine 334 e 335 della decisione citata, si evidenziava che non tutte le ipotesi di disastro previste dal codice penale nell’ambito dei delitti contro l’incolumità pubblica si caratterizzano per l’esistenza di un macroevento di manifestazione esteriore immediata, potendo anche consistere in fenomeni persistenti ma impercettibili di durata pluriennale. Ne consegue che, alla fattispecie prevista dall’art. 434 cod. pen., possono essere ricondotti «non soltanto gli eventi disastrosi di grande immediata evidenza [ … ] che si verificano magari in un arco di tempo ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che pure producano quella compromissione imponente delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l’esistenza di una lesione della pubblica incolumità [ … )».
Queste connotazioni fenomeniche dell’evento disastroso, a ben vedere, si attagliano perfettamente alla vicenda processuale in esame, atteso che le emissioni tossiche prodotte dalla Centrale termoelettrica di Porto Tolle si protraevano lungo un arco temporale pluriennale, compreso, per quanto di interesse ai presenti fini, tra il 1998 e il 2009 e coinvolgevano la gestione dello stabilimento industriale rodigino da parte dei diversi amministratori delegati che si erano succeduti alla guida della società Enel s.p.a. Questi amministratori, in particolare, erano l’imputato Francesco Luigi Tatò, che ricopriva la carica societaria contestata dal 23/09/1996 al 23/05/2002; l’imputato Paolo Scaroni, che ricopriva la carica societaria contestata dal 24/05/2002 al maggio del 2005; l’imputato Fulvio Conti, che ricopriva la carica societaria contestata dal maggio del 2005 alla chiusura definitiva dello stabilimento di Porto Talle, intervenuta nel luglio del 2009.
Né può rilevare in senso contrario la circostanza che l’emissione di sostanze inquinanti da parte di uno stabilimento industriale, analogamente a quanto riscontrabile con riferimento all’attività produttiva della Centrale di Porto Talle, non sempre possiede connotazioni tali da potere essere considerato un macroevento naturalisticamente distruttivo.
Invero, recepita la nozione unitaria di disastro alla quale ci si è riferiti nel paragrafo 2.1.1, cui si deve rinviare, non è possibile limitare l’applicazione dell’art. 434 cod. pen. ai soli fenomeni naturalistici macroscopici, visivamente percepibili, nella direzione ermeneutica prefigurata dalla sentenza impugnata, che escludeva erroneamente tutti i fenomeni distruttivi prodotti da emissioni tossiche che, come nel caso di specie, alterano negativamente e continuativamente l’ambiente circostante allo stabilimento industriale e la qualità dell’ecosistema, determinando imponenti processi di deterioramento di lunga durata delle condizioni di vivibilità umana.
In questo contesto sistematico, priva di rilievo appare la circostanza che, nel corso degli anni, il legislatore italiano interveniva ripetutamente per sanare la situazione di inquinamento ambientale causata dalla Centrale termoelettrica di Porto Tolle, adeguando ex post i livelli delle emissioni tossiche prodotte dallo stabilimento in questione alla situazione di degrado ambientale – come detto incontroverso e non contestato dagli imputati – venutasi a creare nell’area del Delta del Po rodigino.
Osserva, in proposito, il Collegio che la rilevanza di questi interventi legislativi, ai fini dell’esclusione dell’antigiuridicità delle condotte di Tatò e Scaroni, che costituisce il principale degli argomenti su cui la Corte di appello di Venezia fondava il suo giudizio assolutorio nei confronti degli imputati, appare smentita dalle risultanze processuali. Condizione di antigiuridicità – è bene ribadirlo – che deve essere esclusa per Conti, in relazione al quale le emergenze probatorie hanno consentito di affermare la sua estraneità ai fatti che gli vengono contestati, fin dal giudizio di primo grado, conclusosi con la sentenza emessa dal Tribunale di Rovigo il 31/03/2014.
Queste considerazioni, innanzitutto, trascurano di considerare che gli interventi legislativi succedutisi nel corso degli anni, a partire dal d.P.R. n. 203 del 1988, avevano una funzione meramente transitoria e imponevano l’attivazione dei vertici della società Enel s.p.a. allo scopo di ridurre l’impatto ambientale inquinante dell’attività produttiva della Centrale di Porto Tolle. Ne consegue che tale argomento finisce per costituire la dimostrazione della consapevolezza di Tatò e Scaroni delle condizioni di inquinamento in cui operava lo stabilimento di Porto Tolle e dell’incompatibilità di tale attività produttiva con la situazione di salvaguardia del Delta del Po rodigino; condizioni di incompatibilità ambientale che, sulla base di una precisa scelta aziendale, legata a esigenze di massimizzazione dei profitti societari, non venivano mai rimosse dai predetti degli imputati.
Deve, al contempo, evidenziarsi che l’esistenza delle disposizioni normative alle quali si richiama la Corte territoriale veneziana non legittima, di per sé solo, l’attività di inquinamento portata avanti da Tatò e Scaroni nell’arco temporale compreso tra il 1998 e il 2005, atteso che tale affermazione, tendente a escludere l’antigiuridicità delle loro condotte, così come contestate al capo B della rubrica, postula la buona fede dei predetti imputati, che, per le ragioni che si sono esposte, deve essere esclusa.
A differenti conclusioni si sarebbe dovuto giungere laddove fosse emerso che i predetti imputati non erano pienamente consapevoli della situazione di inquinamento ambientale prodotta dalla Centrale di Porto Tolle, atteso che, in questo caso, le prescrizioni normative in questione avrebbero reso il loro comportamento se non legittimo quantomeno privo di antigiuridicità. Le emergenze probatorie, tuttavia, rendono evidente l’atteggiamento pienamente consapevole di Tatò e Scaroni delle condizioni di deterioramento ambientale prodotte dallo stabilimento di Porto Tolle che, difatti, nel luglio del 2009, veniva definitivamente chiuso sotto l’amministrazione di Fuvio Conti, il quale – unico tra i tre imputati – poneva in essere un comportamento gestionale concretamente finalizzato alla risoluzione della situazione di degrado ambientale che si sta considerando.
2.1.3. Chiarita quale sia la nozione di disastro prefigurata dall’art. 434 cod. pen. e come la stessa possa essere applicata alle condotte delittuose contestate agli imputati al capo B della rubrica, occorre confrontarsi con un’ulteriore questione ermeneutica, riguardante la natura dell’ipotesi prevista dal secondo comma di tale disposizione, cui l’atto di impugnazione introduttivo del presente procedimento si riferisce, sia pure promiscuamente, nel terzo, nel quarto e nel quinto motivo di ricorso, chiedendone il riconoscimento, concordemente escluso dal Tribunale di Rovigo e dalla Corte di appello di Venezia.
Osserva il Collegio che, secondo l’originaria contestazione accusatoria, l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen. discendeva dall’aumento dell’11% dei ricoveri di minori di età pediatrica residenti nell’area geografica interessata dalla Centrale di Porto Tolle, riscontrato, per l’arco temporale compreso tra il 1998 e il 2002, in riferimento alle patologie respiratorie indicate nella tabella 4 del capo B della rubrica. Tali infermità, in particolare, venivano accertate sulla base di un’indagine epidemiologica condotta sui minori infraquattordicenni residenti nei Comuni di Porto Tolle, Rosolina, Taglio di Po, Porto Viro, Ariano nel Polesine, Loreo, Mesola, Corbola e Goro, che gravitavano nel territorio rodigino interessato dalle emissioni tossiche della Centrale termoelettrica di Porto Tolle.
Tanto premesso, deve anzitutto evidenziarsi che la giurisprudenza di questa Corte è assolutamente concorde nel ritenere che la fattispecie dell’art. 434, comma secondo, cod. pen. introduce un’ipotesi di reato aggravato dall’evento. Basti, in proposito, richiamare, tra le numerose pronunce di legittimità intervenute sul tema in questione, le seguenti decisioni: Sez. 4, n. 15444 del 18/01/2012, Tedesco, Rv. 253501; Sez. 3, n. 46189 del 14/07/2011, Passariello, Rv. 251592; Sez. 4, n. 36626 del 05/05/2011, Mazzei, Rv. 251428; Sez. 1, n.1332 del 14/12/2010, Zonta, Rv. 249283; Sez. 1, n. 7629 del 24/01/2006, Licata, Rv. 233135.
Né possono rilevare, in senso contrario, gli argomenti che si fondano sulla natura di delitto di pericolo dell’ipotesi disciplinata dal primo comma dell’art. 434 cod. pen. e sull’assimilabilità di questa fattispecie di reato al modello di incriminazione del tentativo.
Invero, come evidenziato nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 69 della decisione di legittimità intervenuta nel processo “Eternit”, non è contestabile che il primo comma dell’art. 434, comma primo, cod. pen. «preveda un’ipotesi a consumazione anticipata, riconducibile allo schema del delitto di attentato, ovvero del tentativo[ … ]» (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
Tuttavia, tali profili dogmatici non assumono un rilievo decisivo ai fini dell’inquadramento della fattispecie dell’art. 434, comma secondo, cod. pen., rispetto alla quale, come evidenziato nel passaggio motivazionale immediatamente successivo della stessa sentenza di legittimità, esplicitato nelle pagine 69 e 70, occorre comprendere comprendere che «il legislatore, in questo come in altri analoghi delitti di attentato, ha inteso delineare autonomamente una fattispecie a consumazione anticipata, sottraendola alle regole generali della disciplina del tentativo, così rendendo, tra l’altro, irrilevanti le evenienze del terzo e quarto comma dell’art. 56 [ … ] e strutturando quindi alla stregua di fattispecie aggravata l’ipotesi dell’evento realizzato. La conformazione del delitto come fattispecie di attentato eventualmente aggravato dall’evento corrisponde dunque ad una precisa scelta normativa, sorretta dalla medesima logica di politica criminale che assiste l’opzione di arretrare, eccezionalmente, la soglia della consumazione [ … ]». Ne consegue che la possibilità di affermare l’inconciliabilità della configurazione dell’evento realizzato come fattispecie aggravata del delitto di attentato, ha «il difetto di pretendere di interpretare la disciplina particolare del delitto di attentato sulla base delle regole generali riferibili al delitto tentato: istituto simile, ma al quale il legislatore, disegnando la fattispecie come delitto di attentato, deliberatamente ha voluto non si facesse ricorso» (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
In questa cornice, non si può non rilevare che la concretizzazione del disastro, così come prefigurata dall’art. 434, comma secondo, cod. pen., alla stregua di una circostanza aggravante, non comporta che, ai fini dell’individuazione della data di consumazione del reato e della decorrenza dei termini di prescrizione, l’evento non debba essere considerato.
Una tale opzione ermeneutica, infatti, non tiene conto del fatto che il reato deve ritenersi consumato allorché la fattispecie è compiutamente realizzata in tutti i suoi elementi costitutivi, realizzando una piena corrispondenza tra il modello legale di incriminazione prefigurato dalla fattispecie di volta in volta considerata e il comportamento illecito oggetto di vaglio.
Si consideri, in proposito, che la giurisprudenza di legittimità che sopra si è richiamata (Sez. 4, n. 15444 del 18/01/2012, Tedesco, cit.; Sez. 3, n. 46189 del 14/07/2011, Passariello, cit.; Sez. 4, n. 36626 del 05/05/2011, Mazzei, cit.; Sez.1, n. 1332 del 14/12/2010, Zonta, cit.; Sez. 1, n. 7629 del 24/01/2006, Licata, cit.) tende a distinguere tra la perfezione del reato e la sua consumazione, affermando che la realizzazione di tutti gli elementi della fattispecie nel loro contenuto essenziale coincide con la perfezione del reato, segnando la linea di demarcazione indispensabile alla configurazione del tentativo. Tuttavia, tale coincidenza non necessariamente ne esaurisce la consumazione, che deve essere intesa quale momento in cui il reato perfetto si configura, tenuto conto del modello legale costituito dalla fattispecie incriminatrice, in questo caso rappresentata dal delitto di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen.
Ne discende che, come evidenziato nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 69 della decisione di legittimità intervenuta nel processo “Eternit”, il riferimento alla consumazione del reato «non significa esaurimento di tutti gli effetti dannosi collegati o collegabili alla realizzazione della fattispecie, giacché: o gli effetti dannosi coincidono con l’evento, ed allora l’esaurimento coincide con la consumazione; oppure si tratta di effetti ulteriori, ed allora questi possono essere presi in considerazione ai fini della gravità del reato o del danno risarcibile, ma non incidono sul momento consumativo del reato» (Sez. 1, n.
7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
La distinzione, in questo modo, finisce per coincidere con quella tra inizio e cessazione della consumazione, assumendo rilevanza, ai fini del decorso del termine della prescrizione, nei reati a consumazione protratta per definizione normativa, quali sono i reati permanenti (Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro, Rv. 221400; Sez. U, n. 18 del 14/07 /1999, Lauriola, Rv. 213932) ovvero i reati necessariamente abituali.
Queste distinzione, al contempo, non svolge alcuna funzione di differenziazione sistematica rispetto all’individuazione del momento consumativo del reato e del dies a quo per il calcolo dei termini di prescrizione, con specifico riferimento agli effetti prolungati o permanenti dei reati istantanei (Sez. U, n. 3 del 22/03/1969, Brunetti, Rv. 111410; Sez. U, n. 8 dei 28/02/2001, Ferrarese, Rv. 218768).
Né potrebbe essere diversamente, atteso che, nei reati a effetti permanenti, non si ha il protrarsi dell’offesa dovuta alla persistente condotta dell’agente, ma il solo protrarsi delle conseguenze dannose del reato, nel valutare le quali occorre considerare che tutti i reati possono produrre effetti più o meno irreparabili in relazione ai singoli casi concreti. Da questo punto di vista, non si può non ribadire la giurisprudenza di questa Corte, laddove afferma che quella dei reati a effetti permanenti è una categoria priva di autonomia sistematica, rilevando esclusivamente allo scopo di distinguere i reati permanenti, quelli abituali e quelli a consumazione prolungata (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
2.1.3.1. Sulla base delle considerazioni che si sono esposte nel paragrafo precedente e della conseguente individuazione del dies a quo per il computo dei termini di prescrizione, anche il problema della data di consumazione del reato aggravato dall’evento, appare risolvibile nel senso che la concretizzazione dell’evento disastroso – che peraltro non è riscontrabile nel caso in esame – sposta la data di consumazione del delitto di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen..
Ne discende che la prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione e che la stessa si ha quando la causa imputabile ha prodotto interamente l’evento disastroso che forma oggetto della norma incriminatrice. Sul punto, non si può che richiamare il principio di diritto affermato nella sentenza di legittimità emessa a conclusione del processo “Eternit”, secondo cui: «Nel delitto previsto dal capoverso dell’art. 434 cod. pen., il momento di consumazione del reato coincide con l’evento tipico della fattispecie e quindi con il verificarsi del disastro, da intendersi come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione; ne consegue che non rilevano, ai fini dell’individuazione del “dies a quo” per la decorrenza del termine di prescrizione, eventuali successivi decessi o lesioni pur riconducibili al disastro» (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, Rv. 262789).
D’altra parte, non ci sono argomenti sistematici che consentano di affermare che nella nozione di evento di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen. rientrino solo i risultati che sono assunti come elementi costitutivi del reato e non anche quelli che importano un aggravamento della pena. Di conseguenza, per le ipotesi di reato aggravato dall’evento disciplinate dall’art. 434, comma secondo, cod. pen., la progressione criminosa si interrompe con il verificarsi dell’evento disastroso, che deve essere individuato nel caso di specie dall’aumento delle patologie respiratorie riscontrate nei minori di età pediatrica, compiutamente descritto nella tabella 4 del capo B della rubrica (Sez. 1, n. 2181 del 13/12/1994, Graniano, Rv. 200414; Sez. 5, n. 7119 del 20/06/1972, Sabatini, Rv. 122150).
Non è, invero, dubitabile che, nelle ipotesi in cui l’evento disastroso aggravante è previsto come finalità originaria dell’agente, l’approfondimento della lesione è tipizzato nella stessa norma incriminatrice alla stregua di una conseguenza legata alla sua condotta illecita, in relazione alla quale, come evidenziato nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 72 della decisione di legittimità intervenuta nel processo “Eternit”, si configura «un doppio evento, il secondo dei quali non rappresenta mero effetto dannoso esterno alla fattispecie astratta ma è per ogni aspetto evento interno ad essa, persino sotto il profilo del dolo, e perciò tipico, seppure non necessario per il perfezionamento nella forma “minima”, prevista per il titolo» (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
Deve, pertanto, deve riconoscersi che, nell’ipotesi di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., la realizzazione dell’evento disastroso costituisce un elemento di aggravamento del delitto disciplinato dal primo comma della stessa fattispecie incriminatrice, fermo restando che la data di consumazione del reato in questione non può che farsi coincidere con il momento in cui l’evento disastroso si è realizzato.
Assume, pertanto, rilievo decisivo, ai fini dell’inquadramento della disciplina prescrizionale applicabile nelle ipotesi di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., tenuto conto del momento di consumazione del reato, la questione dell’individuazione del verificarsi del disastro, che costituisce l’evento tipico della fattispecie in aggravata in esame.
Osserva, in proposito, il Collegio che la fattispecie in esame si riferisce, nel suo secondo comma, al solo evento disastroso, non considerando le lesioni o le morti come eventi ulteriori, neppure sotto forma di aggravante; il che rende, all’evidenza, smentita dalle emergenze probatorie l’assunto processuale posto a fondamento dell’atto di impugnazione in esame, teso a correlare l’evento disastroso prodotto dallo stabilimento di Porto Tolle ai dati epidemiologici, collegati all’insorgenza delle patologie respiratorie, nei minori di età pediatrica, acquisiti nel corso delle indagini preliminari.
L’incolumità personale e collettiva, del resto, incide sulla fattispecie prevista dall’art. 434 cod. pen. esclusivamente sotto il profilo della pericolosità ovvero della proiezione offensiva del comportamento illecito dell’agente, che ha per oggetto un evento materiale di natura disastrosa da intendere come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie, qualitativamente caratterizzato dalla pericolosità della condotta.
Questa connotazione di pericolosità dell’evento disastroso, dunque, è indispensabile ai fini della configurazione della fattispecie di cui all’art. 434 cod. pen., prescindendo, fatta salva la ricorrenza dell’aggravante di cui al secondo comma della stessa norma, dalle conseguenze concrete per l’incolumità delle persone, che rilevano ai soli fini della dimensione offensiva dell’ipotesi delittuosa in esame.
D’altra parte, il pericolo per la pubblica incolumità non può essere ritenuto, in quanto tale, un macroevento naturalistico, costituendo, sul piano dogmatico, l’espressione di un giudizio qualitativo di probabilità, che consente di collegare causalmente due fatti materiali, con la conseguenza che le connotazioni di pericolosità rilevano esclusivamente sotto il profilo probatorio, consentendo di ritenere sussistente il rischio di verificazione dell’evento disastroso prefigurato dall’art. 434 cod. pen. (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
Né potrebbe essere diversamente, atteso che, come evidenziato nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 77 della decisione di legittimità intervenuta nel processo “Eternit”, il reato di disastro innominato «contempla, nella forma aggravata, un evento che è appunto il disastro verificatosi; il disastro è da intendere, perché sia assicurata, seguendo le rime obbligate desumibili dalla descrizione degli “altri disastri” nominati contemplati nel medesimo Capo I, la sufficiente determinatezza della fattispecie, come un fenomeno distruttivo naturale di straordinaria importanza [ … ]; il pericolo per la pubblica incolumità, in cui risiede la ragione della incriminazione e che individua il bene protetto, funge da connotato ulteriore del disastro e serve a precisarne sul piano della proiezione offensiva le caratteristiche ( … ]; il persistere del pericolo, e tanto meno il suo inveramento quale concreta lesione dell’incolumità, non sono richiesti per la realizzazione del delitto ( … ] e non essendo elementi del fatto tipico non possono segnare la consumazione del reato» (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
2.1.4. Sulla scorta delle considerazioni che si sono esposte nei paragrafi precedenti, occorre affrontare il problema della prescrizione del reato di disastro, contestato al capo B agli imputati Tatò, Scaroni e Conti, che costituisce la questione centrale del presente procedimento.
Osserva, in proposito, il Collegio che, nel caso di specie, la consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ciascuno degli imputati cessava dalla carica di amministratore delegato della società Enel s.p.a., conformemente a quanto affermato nella sentenza di legittimità emessa nel processo “Eternit” (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit.).
Tali attività gestionali, al contempo, non possono essere valutate unitariamente, imponendo un frazionamento delle responsabilità attribuite a ciascuno degli imputati, concordemente a quanto affermato dalla Corte di appello di Venezia nella sentenza impugnata.
Ne deriva che la responsabilità dell’imputato Tatò, per l’ipotesi di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen. si collega al ruolo di amministratore delegato, ricoperto in seno alla società Enel s.p.a. dal 23/09/1996 al 23/05/2002; la responsabilità dell’imputato Scaroni si collega al ruolo di amministratore delegato, ricoperto in seno alla società Enel s.p.a. dal 24/05/2002 al maggio del 2005; la responsabilità dell’imputato Conti – fermo restando quanto si è già affermato a proposito della sua estraneità ai fatti delittuosi contestatigli al capo B della rubrica – si collega al ruolo di amministratore delegato, ricoperto in seno alla società medesima dal maggio del 2005 alla chiusura definitiva dello stabilimento di Porto Talle, intervenuta nel luglio del 2009.
In questa cornice, come si dirà più avanti, nei paragrafi 3 e 4, cui sin d’ora si deve rinviare, appaiono recessive rispetto alla rilevazione della prescrizione del delitto contestato al capo B, ai sensi dell’art. 434, comma primo, cod. pen., tutte le altre questioni censorie sollevate dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia nel suo ricorso.
Si consideri, in ogni caso, che nessuna delle questioni processuali sollevate dalla parte ricorrente potrebbe portare a un risultato diverso da quello recepito in questa sentenza, pur dovendosi ribadire la necessità di differenziare le posizioni degli imputati Tatò e Scaroni da quella dell’imputato Conti.
2.1.4.1. Con riferimento alla posizione di Tatò e Scaroni, prevale la regola dell’immediata declaratoria di estinzione del reato di cui al capo B, la cui causa – che impone di ritenere inammissibile il ricorso in esame per carenza di interesse all’impugnazione – essendosi verificata prima dell’emissione della sentenza di primo grado pronunciata il 31/03/2014 e non dipendendo da ulteriori verifiche giurisdizionali, riservate al giudice del merito, inibisce la retrocessione del giudizio e travolge tutte le statuizioni civili rese o reclamate. Sul punto, non si può che richiamare la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui:
«Il giudice di appello che, nel pronunciare declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, accerti che la prescrizione del reato è maturata prima della sentenza di primo grado deve contestualmente revocare le statuizioni civili in essa contenute, con la conseguenza che è illegittima, in tal caso, la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile» (Sez. 5, n. 44826 del 28/05/2014, Regoli, Rv. 261815; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 6, n. 9081 del 21/02/2013, Colucci, Rv. 255054; Sez. 2, n. 5705 del 29/01/2009, Somma, Rv. 243290; Sez. 6, n. 33398 del 19/09/2002, Rusciano, Rv. 33398; Sez. 4, n. 10300 del 25/09/1997, De Meo, Rv. 209408; Sez. 2, n. 3899 del 21/12/1990, Pizzillo, Rv. 187300).
Tali conclusioni si impongono anche alla luce del risalente arresto giurisprudenziale, che ha ridefinito l’ambito di applicazione dell’art. 578 cod. proc. pen., secondo cui: «È illegittima la sentenza d’appello nella parte in cui, accertando che la prescrizione del reato è maturata prima della pronuncia di primo grado, conferma le statuizioni civili in questa contenute; in tale ipotesi, infatti, non sussistono i presupposti in presenza dei quali l’art. 578 cod. proc. pen. consente al giudice dell’impugnazione di decidere sugli effetti civili anche nel caso in cui dichiari l’estinzione del reato» (Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211191).
In questo contesto ermeneutico, deve rilevarsi che il termine massimo di prescrizione per l’ipotesi di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen. deve essere individuato in 7 anni e 6 mesi, applicando la nuova disciplina della prescrizione più favorevole per gli imputati Tatò e Scaroni, desumibile dal combinato disposto degli artt. 157 e 161, comma secondo, cod. pen. Tali termini si computano individuando la prescrizione in 6 anni, cui si aggiungono ulteriori 1 anno e 6 mesi, per effetto dell’aumento di un quarto ex art. 161, comma secondo, cod. pen..
A tali termini prescrizionali, occorre aggiungere ulteriori 21 giorni di sospensione, conseguenti al rinvio dall’udienza dell’08/07/2013, per effetto dell’adesione dei difensori degli imputati all’astensione proclamata dagli organismi di categoria.
Ne discende che il reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., così come ritenuto nelle sentenze di merito, risulta prescritto per l’imputato Tatò alla data del 14/12/2009; mentre, per l’imputato Scaroni tale ipotesi delittuosa risulta prescritta alla data del 21/12/2012.
In entrambi i casi, dunque, la prescrizione del reato per la quale veniva riconosciuta la colpevolezza degli imputati Tatò e Scaroni da parte del Tribunale di Rovigo interveniva in epoca antecedente all’emissione della sentenza di primo grado, pronunciata il 31/03/2014. Tale decorso dei termini prescrizionali impone di ritenere inammissibile il ricorso in esame per carenza di interesse all’impugnazione, nei termini di cui al paragrafo 3, cui si rinvia.
Occorre, infine, ribadire che, per effetto della constatazione della prescrizione del reato, intervenuta anteriormente alla sentenza di primo grado, vengono conseguentemente meno tutte le questioni sostanziali concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni, essendo ogni decisione in proposito preclusa dagli artt. 538 e 578 cod. proc. pen., che legano la potestà del giudice penale a provvedere sulle domande civili all’esistenza di una sentenza di condanna a tali effetti, almeno di primo grado.
2.1.4.2. Ad analoghe conclusioni, sia pure sulla base di un percorso argomentativo differente, deve giungersi per la posizione processuale dell’imputato Conti, nei cui confronti i termini di prescrizione risultano decorsi alla data del 21/02/2017, in epoca successiva alla sentenza di appello – emessa il 18/01/2017 – ma antecedente alla data di proposizione del ricorso da parte del Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, recante la data dell’O1/06/2017.
Nel valutare gli effetti del decorso dei termini di prescrizione del reato di cui al capo B, in relazione all’imputato Conti, sui quali ci si soffermerà nel paragrafo 4, cui sin d’ora si rinvia, occorre tuttavia tenere presenti gli elementi di differenziazione esistenti tra la sua posizione e quella degli imputati Tatò e Scaroni, atteso che, per questi ultimi, i giudizi di merito – a differenza di quanto riscontrabile per Conti, assolto in entrambi i sottostanti processi – risultavano difformi, essendo stati i predetti imputati condannati dal Tribunale di Rovigo e assolti dalla Corte di appello di Venezia.
In questa cornice, occorre evidenziare che, nei confronti di Conti, per effetto del combinato disposto degli artt. 576 e 622 cod. proc. pen., la legittimazione all’annullamento della sentenza assolutoria agli effetti della responsabilità civile, spettava esclusivamente alle parti civili costituite, atteso che, in presenza di una causa di estinzione del reato, l’annullamento della decisione di assoluzione nel merito, conforme nei sottostanti giudizi, era possibile solo attraverso un ricorso per cassazione, proposto agli effetti della responsabilità civile.
Pertanto, il decorso dei termini prescrizionali, in assenza di un’impugnazione delle parti civili costituite, impone di ritenere inammissibile il ricorso in esame per carenza di interesse all’impugnazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, nei termini di cui al paragrafo 4, cui si rinvia ulteriormente.
2.2. La seconda questione ermeneutica di carattere generale su cui occorre soffermarsi riguarda la possibilità di configurare l’aggravante prevista dal secondo comma dell’art. 434 cod. pen., così come contestata agli imputati Tatò e Scaroni. Tale ipotesi delittuosa aggravata, come si è già detto, non risulta contestata all’imputato Conti, per il quale non si pone il problema della ricorrenza della circostanza in questione.
Su questi profili ermeneutici ci si è già soffermati, in termini generali, nei paragrafi 2.1.3 e 2.1.3.1, cui si deve rinviare, pur apparendo indispensabili alcune ulteriori precisazioni, finalizzate a evidenziare la correttezza del percorso argomentativo seguito dai Giudici di merito, concorde sul punto, per escludere l’aggravante di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., così come contestata agli imputati Tatò e Scaroni al capo B della rubrica.
Questa operazione di ermeneutica processuale, dunque, deve essere compiuta tenendo presenti gli esiti giurisdizionali ai quali pervenivano le decisioni di merito, che, sull’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen., appaiono sovrapponibili e non presentano discrasie argomentative meritevoli di censura.
Deve anzitutto rilevarsi che il Tribunale di Rovigo, nella sentenza emessa il 31/03/2014, escludeva che l’aumento di incidenza delle patologie respiratorie, evidenziato dall’incremento dei ricoveri ospedalieri dei minori di età pediatrica compiutamente descritto nella tabella 4 del capo B della rubrica, riscontrato nell’arco temporale compreso tra il 1998 e il 2002, potesse considerarsi un evento disastroso, rilevante ai fini del riconoscimento dell’aggravante prevista dall’art. 434, comma secondo, cod. pen., contestata agli imputati Tatò e Scaroni. Tali conclusioni venivano recepite e ulteriormente ribadite dalla decisione di secondo grado, emessa dalla Corte di appello di Venezia il 18/01/2017, che, sulla scorta dei dati epidemiologici acquisiti nel sottostante giudizio, escludeva che l’aumento dei ricoveri ospedalieri, sopra richiamato, potesse costituire un disastro, legittimante l’applicazione dell’aggravante in questione.
Per giungere a queste conclusioni, il Tribunale di Rovigo richiamava i principi affermati nella sentenza della Corte costituzionale n. 327 del 2008, citando il passaggio motivazionale della predetta decisione, esplicitato nelle pagine 7 e 8, in cui si evidenziava che «l’analisi d’insieme dei delitti compresi nel capo I del titolo VI consenta, in effetti, di delineare una nozione unitaria di “disastro”, i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare [ … ] un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti [ … ]» (Corte cost., sent. n. 327, cit.).
Si evidenziava, al contempo, mediante il richiamo del passaggio motivazionale della stessa decisione del Giudice delle leggi, esplicitato a pagina 9, che «il concetto di “incolumità” deve essere difatti inteso [ … ] nel suo preciso significato filologico, ossia come un bene, che riguarda la vita e l’integrità fisica delle persone [ … ]». Ne conseguiva che il pericolo per la pubblica incolumità «viene cioè a designare [ … ] la messa a repentaglio di un numero non preventivamente individuabile di persone, in correlazione alla capacità diffusiva propria degli effetti dannosi dell’evento qualificabile come disastro» (Corte cost., sent. n. 327, cit.).
Sulla scorta di tali parametri ermeneutici, il Tribunale di Rovigo evidenziava che, nel caso di specie, non era ravvisabile l’effettiva produzione di un evento disastroso, tenuto conto delle condotte delittuose contestate agli imputati Tatò e Scaroni.
A sostegno di tali conclusioni, il Giudice di primo grado richiamava la consulenza tecnica del professor Crosignani, sulla base della quale era possibile affermare il prodursi, nelle aree geografiche interessate dalle emissioni tossiche della Centrale di Porto Talle, di un modesto incremento dei ricoveri ospedalieri di minori di età pediatrica pari all’11 % per patologie respiratorie, quantificabile in 76 ricoveri su un numero complessivo di 674 ricoveri, riguardante l’arco temporale compreso tra il 1998 e il 2002. Tuttavia, tale dato epidemiologico, come evidenziato dallo stesso consulente tecnico, nel passaggio motivazionale richiamato a pagina 78 della decisione di primo grado, risultava inidoneo a fornire informazioni sull’effettiva gravità delle infermità esaminate e sul numero di minori ricoverati, non potendosi escludere, in assenza di elementi certi, di una pluralità di ricoveri relativi allo stesso soggetto.
Sulla base di tale ineccepibili considerazioni, il Tribunale di Rovigo, nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 78 della sentenza di primo grado, evidenziava conclusivamente che «a fronte di tale dato, non è possibile ravvisare [ … ] un “macroevento” che abbia concretamente prodotto danni “gravi, complessi ed estesi” alle persone, tali da assumere le caratteristiche necessarie per la configurabilità di un disastro».
Questa impostazione, a sua volta, veniva recepita dalla sentenza impugnata, emessa dalla Corte di appello di Venezia il 18/01/2017, che evidenziava come il concretizzarsi del pericolo per la lesione di beni personali costituiva un dato estraneo ai requisiti necessari per l’integrazione del reato di disastro innominato, con la conseguenza che l’eventuale verificarsi di singoli eventi lesivi per la vita o l’integrità fisica – analoghi a quelli indicati nella tabella 4 del capo B della rubrica – poteva considerarsi come l’individualizzazione del pericolo comune, ma risultava inidoneo a concretizzare l’aggravamento circostanziale previsto dall’art.434, comma secondo, cod. pen.
Ne discendeva che, come correttamente evidenziato nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 73 della sentenza impugnata, nel caso in esame «l’evento del reato non può che essere ricondotto ad una situazione di macroscopico inquinamento dell’aria [ … ], che comporta, sotto il profilo della sua proiezione naturalistica, il pericolo di malattie respiratorie estese e di una certa gravità che interessino un numero indeterminato di persone».
Sulla scorta di tale ineccepibile e conforme percorso argomentativo, i Giudici di merito escludevano la possibilità di configurare la circostanza aggravante prevista dal secondo comma dell’art. 434 cod. pen., così come contestata agli imputati Tatò e Scaroni, non potendosi ritenere l’aumento delle patologie respiratorie sopra richiamato una concretizzazione dell’evento disastroso contestato al capo B della rubrica, conformemente alla giurisprudenza di legittimità consolidata richiamata nei paragrafi 2.1.3 e 2.1.3.1, cui si deve ulteriormente rinviare.
Deve, infine, rilevarsi che queste conclusioni sull’insussistenza del reato aggravato dall’evento di cui all’art. 434, comma secondo, cod. pen. riverberano i loro effetti sul computo della prescrizione del delitto contestato al capo B a Tatò e Scaroni, nei termini di cui si dirà nel paragrafo 3, cui si deve ulteriormente rinviare.
2.3. La terza questione ermeneutica di carattere generale su cui occorre soffermarsi riguarda la configurazione del concorso nel reato di cui al capo B della rubrica, proposta dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, nell’ambito dei primi due motivi di ricorso, in correlazione ai principi che sovrintendono all’esercizio dei poteri di cognizione da parte del giudice di secondo grado.
Secondo la parte ricorrente, la Corte di appello di Venezia, nella motivazione della sentenza impugnata, aveva ritenuto di svolgere alcune “considerazioni preliminari sulla impostazione accusatoria e sulla formulazione dei capi di imputazione”, soffermandosi sull’incriminazione del reato di cui al capo B, così come ascritto agli imputati Tatò, Scaroni e Conti, in relazione al quale si ravvisavano i soli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., che il pubblico ministero aveva contestato in forma concorsuale.
In questo modo, non si teneva conto del fatto che, negli atti di appello proposti dalle singole parti, la questione dell’inquadramento del reato di cui al capo B e della forma concorsuale con cui veniva contestato non era stata dedotta dagli appellanti. L’operazione di ermeneutica processuale compiuta dalla Corte territoriale veneziana, quindi, non considerava che tale questione applicativa non aveva costituito oggetto di impugnazione a opera delle parti, le quali non avevano contestato l’esistenza del concorso doloso degli amministratori delegati della società Enel s.p.a., succedutisi dal 1998 al 2009.
Ne derivava che, escludendo la possibilità di configurare il concorso doloso nel reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., così come contestato agli imputati Tatò, Scaroni e Conti, la Corte di appello di Venezia effettuava un’atomizzazione dei loro comportamenti illeciti, senza tenere conto del fatto che, su tali punti della pronunzia emessa dal Tribunale di Rovigo il 31/03/2014, si era formato il giudicato.
Osserva, in proposito, il Collegio che, attraverso tali doglianze, il Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia introduceva due differenti questione processuali, riguardanti i poteri di cognizione del giudice di appello conseguenti all’introduzione del giudizio di secondo grado e l’esclusione della forma concorsuale dell’ipotesi delittuosa di cui al capo B della rubrica, contestata ai sensi dell’art. 434, comma primo, cod. pen., agli imputati Tatò, Scaroni e Conti.
Di tali doglianze, che venivano proposte promiscuamente dalla parte ricorrente, occorre occuparsi partitamente.
2.3.1. Occorre anzitutto occuparsi della questione processuale sollevata dalla parte ricorrente in relazione ai poteri di cognizione di cui dispone il giudice di appello, a seguito dell’introduzione del giudizio di secondo grado, conseguente all’impugnazione delle parti, evidenziandosi che costituisce espressione di un orientamento ermeneutico incontroverso quello secondo cui, nel giudizio di appello, si verifica la piena devoluzione della cognizione rispetto alla decisione impugnata.
Sul punto, è sufficiente richiamare il principio di diritto, pacificamente applicabile al caso di specie, secondo cui: «L’appello del P.M. contro la sentenza di assoluzione emessa all’esito del dibattimento, salva l’esigenza di contenere la pronuncia nei limiti della originaria contestazione, ha effetto pienamente devolutivo, attribuendo al giudice “ad quem” gli ampi poteri decisori previsti dall’art. 597 comma secondo lett. b) cod. proc. pen. Ne consegue che, da un lato, l’imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze che attengono alla ricostruzione probatoria del fatto ed alla sua consistenza giuridica; dall’altro, il giudice dell’appello è legittimato a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica, non essendo vincolato alle alternative decisorie prospettate nei motivi di appello e non potendo comunque sottrarsi all’onere di esprimere le proprie determinazioni in ordine ai rilievi dell’imputato» (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, cit.).
Ne discende che l’appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rovigo, avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Rovigo il 31/03/2014, esplicava un effetto pienamente devolutivo, con la conseguenza che, attribuendo al giudice di secondo grado gli ampi poteri giurisdizionali previsti dall’art. 597, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., legittimava la rivalutazione da parte della Corte di appello di Venezia dei profili concorsuali censurati dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia.
Pertanto, la Corte territoriale veneziana, al contrario di quanto dedotto dalla parte ricorrente, non violava i limiti posti ai suoi poteri di cognizione dall’art. 597, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., affrontando correttamente la questione relativa alla configurazione concorsuale del reato di cui al capo B della rubrica, che, peraltro, era stata sollevata nello stesso appello del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rovigo.
2.3.2. Quanto all’ulteriore profilo censorio, relativo all’esclusione della forma concorsuale dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen. nei confronti degli imputati Tatò, Scaroni e Conti, deve rilevarsi che la doglianza in esame non tiene conto del fatto che i reati omissivi impropri consentono di incriminare l’agente, sulla base della clausola di equivalenza prefigurata dall’art. 40, comma secondo, cod. pen. – a tenore della quale: «Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo» – che la Corte di appello di Venezia, attraverso un percorso argomentativo esente da discrasie motivazionali, non riteneva applicabile nel caso di specie.
Nell’effettuare tale verifica, la Corte territoriale veneziana valutava correttamente la possibilità di configurare una posizione di garanzia nei confronti di Tatò, Scaroni e Conti, che ne imponeva una valutazione correlata al ruolo apicale svolto all’interno della società Enel s.p.a. dagli imputati, nel rispetto della giurisprudenza consolidata di questa Corte in tema di reato omissivo improprio, secondo cui: «La titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione – da parte del garante – di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso» (Sez. 4, n. 24462 del 06/05/2015, Ruocco, Rv. 264128; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 4, n. 34375 del 30/05/2017, Fumarulo, Rv. 270823; Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016, dep. 2017, Ferrentino, Rv. 270380; Sez. 4, n. 7783 dell’11/02/2016, Montaguti, Rv. 266356).
Né era possibile ipotizzare soluzioni ermeneutiche alternative, atteso che l’applicazione del principio di colpevolezza esclude ogni automatismo rispetto all’addebito di responsabilità penale, imponendo la verifica in concreto sia della regola cautelare sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento, che la regola medesima mira a prevenire. L’individualizzazione della responsabilità penale imponeva, quindi, di verificare se le condotte gestionali di Tatò, Scaroni e Conti avessero concorso a determinare l’evento in violazione di una regola cautelare e se gli imputati potevano prevedere, con un giudizio ex ante, lo specifico sviluppo causale disastroso, attivandosi per impedirne la concretizzazione (Sez. 4, n. 5404 dell’08/0l/2015, Corso, Rv. 262033; Sez. 4, n. 1819 del 03/10/2014, Di Domenico, Rv. 261768; Sez. 4, n. 43966 del 06/11/2009, Morelli, Rv. 245526).
In questa cornice, non si possono non condividere le considerazioni esplicitate nelle pagine 66 e 67 della sentenza impugnata, in cui la Corte di appello di Venezia affermava conclusivamente «la difficoltà di ipotizzare un concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p. nel caso di comportamenti tenuti da amministratori che si sono succeduti in tempi diversi nella carica [ … ]». E ancora: «Pur a volere ammettere la “rilevanza concorsuale” del contributo di ciascuno [ … ], è impossibile affermare una consapevolezza da parte del singolo amministratore della condotta del suo successore, che potrebbe adottare, nella sua autonomia, comportamenti “convergenti o divergenti rispetto a quelli del suo predecessore».
Queste considerazioni impongono di ribadire la correttezza del percorso argomentativo seguito dalla Corte di appello di Venezia per escludere la configurazione in forma concorsuale dell’ipotesi delittuosa di cui al capo B della rubrica.
3. Ricostruito il contesto ermeneutico nel quale collocare la vicenda processuale in esame, occorre anzitutto ribadire la declaratoria di inammissibilità per intervenuta prescrizione del reato di cui all’art. 434, comma primo, cod .pen. nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni.
Deve, in proposito, ribadirsi che i termini di prescrizione risultano interamente decorsi, per le ragioni esplicitate nel paragrafo 2.1.4.1, cui si rinvia, per l’imputato Tatò alla data del 14/12/2009, mentre, per l’imputato Scaroni alla data del 21/12/2012. Ne consegue che, per i predetti imputati la prescrizione del reato per la quale veniva riconosciuta la colpevolezza da parte del Tribunale di Rovigo interveniva in epoca antecedente all’emissione della sentenza di primo grado, pronunciata il 31/03/2014.
Osserva il Collegio che la declaratoria di inammissibilità per intervenuta prescrizione – i cui effetti si riverberano sulle statuizioni civili, per le quali è preclusa ogni deliberazione in questa sede processuale per le ragioni già esplicitate nel paragrafo 2.1.4.1 – discende dal contesto sistematico che governa nel sistema processuale penale la nozione di interesse a impugnare, intesa, nell’accezione utilitaristica prefigurata dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen., quale condizione dell’impugnazione e quale requisito soggettivo del diritto esercitato attraverso la proposizione del gravame. Tale connotazione utilitaristica dell’impugnazione risulta costituita da una finalità processuale negativa, consistente nell’obiettivo di rimuovere la situazione di svantaggio derivante dalla decisione giudiziale avverso la quale si ricorre, costituita nel nostro caso dalla sentenza emessa il 18/01/2017 dalla Corte di appello di Venezia, nonché da una finalità processuale positiva, consistente nel perseguimento di un’utilità, latu sensu intesa, per la posizione della parte ricorrente, finalizzata all’ottenimento di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto d’impugnazione.
Sul punto, non si può che ribadire l’orientamento consolidato di questa Corte, richiamando il principio di diritto secondo cui: «Nel sistema processuale penale, la nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul concetto di soccombenza – a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti – ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un’utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo» (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251693).
Ne discende che il requisito dell’interesse a impugnare deve configurarsi in termini di immediatezza, concretezza e attualità, oltre che sussistere sia al momento della proposizione del gravame sia al momento della sua decisione, affinchè questa possa avere un’effettiva incidenza sulla situazione giuridica devoluta alla verifica del giudice dell’impugnazione, costituita, nel caso in esame, dal giudizio di responsabilità nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni, che veniva affermato dal Tribunale di Rovigo ed escluso dalla Corte di appello di Venezia.
Questo requisito, dunque, presupponeva una valutazione della persistenza, al momento della proposizione del ricorso per cassazione, di un interesse all’impugnazione in capo al Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, la cui attualità doveva sussistere all’atto della presentazione del gravame oggetto di vaglio – al contrario di quanto riscontrabile nel nostro caso in conseguenza della maturazione dei termini di prescrizione in epoca antecedente all’emissione della sentenza di primo grado pronunciata, come detto, il 31/03/2014 – e non doveva essere venuta meno per la mutata situazione di fatto o di diritto eventualmente intervenuta con riferimento alla posizione del soggetto impugnante. Tali conclusioni discendono dal fatto che l’interesse a impugnare prefigurato dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento impugnabile e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di quell’atto, una situazione pratica più vantaggiosa per la parte impugnante (Sez. 6, n. 14510 del 09/03/2016, Tarantino, Rv. 266677; Sez. 5, n. 32850 del 30/06/2011, Giuffrida, Rv. 250578; Sez. 3, n. 24272 del 24/03/2010, Abagnale, Rv. 247685).
Né potrebbe essere diversamente, atteso che la nozione di interesse a impugnare della parte ricorrente, quale condizione indispensabile dell’impugnazione, a prescindere dalla sua introduzione nel sistema processuale penale, risalente al codice di rito del 1930, costituisce, come affermato dalle Sezioni unite, nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 5 della sentenza sopra citata, un principio storicamente presente nell’ordinamento giuridico, integrando «un canone generale, ampiamente già elaborato, in particolare dai processualisti del settore civile e proclamato costantemente dalla giurisprudenza di legittimità». Le Sezioni unite, inoltre, affermavano: «Dal 1930 in poi il sistema delle impugnazioni penali ha subito, con riferimento alla problematica dell’interesse ad impugnare, una continua evoluzione, che ha portato a profonde modifiche del settore, nel senso che v’è stata una progressiva estensione della titolarità del diritto d’impugnazione, operata attraverso l’accreditamento di un più ampio concetto d’interesse, ravvisato comunque sempre nella finalità di rimuovere un pregiudizio, persino se derivante da una pronuncia favorevole, che incide, però, negativamente nella sfera giuridica o in quella morale della parte» (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, cit.).
Il vigente codice di procedura penale, del resto, ha avallato e integrato il percorso ermeneutico avviato dal codice di procedura penale del 1930, tanto che è vero che la legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale», all’art. 2, n. 86 di tale testo legislativo, prevedeva espressamente il <<riconoscimento del diritto d’impugnazione dell’imputato prosciolto che vi abbia interesse».
L’interesse a impugnare della parte ricorrente, pertanto, deve essere colto, come affermato dalle Sezioni unite, nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 6 della pronuncia di legittimità già citata, nella «finalità, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere lo svantaggio processuale e, quindi, il pregiudizio derivante da una decisione giudiziale ovvero deve essere individuato [ … ] facendo leva sul concetto positivo di utilità che la parte mira a conseguire attraverso l’esercizio del diritto di impugnazione e in coerenza logicamente con il sistema legislativo» (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, cit.).
In questa cornice, la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non può ritenersi assoluta e indiscriminata, ma è subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento giurisdizionale risulta idoneo a produrre un pregiudizio processuale e l’eliminazione o la riforma della decisione gravata rende possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso per la parte ricorrente. Ne consegue che non può ammettersi l’esercizio del diritto all’impugnazione da parte del soggetto avente di mira la sola correttezza giuridica della decisione, senza che alla posizione processuale del ricorrente, in conseguenza della proposizione del gravame, consegua alcun risultato concreto, analogamente a quanto riscontarabile nel caso in esame, tenuto conto del fatto che la prescrizione del reato di cui al capo B risulta maturata in epoca antecedente alla sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Rovigo il 31/03/2014.
Non è, dunque, possibile ipotizzare un’impugnazione finalizzata alla mera affermazione di principi di diritto, svincolati dalle concrete risultanze processuali, in considerazione del fatto che, come affermato dalle Sezioni unite nella pronuncia in esame, nelle ipotesi in cui il ricorso è dichiarato inammissibile, la Corte di cassazione «non può enunciare d’ufficio il principio di diritto nell’interesse della legge, anche quando tale pronuncia non abbia alcun effetto sul provvedimento del giudice di merito, poichè nel sistema processuale penale non è applicabile per analogia la disposizione di cui all’art. 363 cod. proc. civ., che disciplina l’esercizio del corrispondente potere nell’ambito del processo civile» (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251692).
Ricostruita in questi termini la nozione di interesse a impugnare, deve escludersi la sussistenza di un interesse del Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia a proporre impugnazione avverso la sentenza di appello emessa nei confronti degli imputati Tatò e Scaroni, in relazione alla formulazione del giudizio di assoluzione espresso dal Giudice di secondo grado nei loro confronti per il reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen.
Né rilevano ai presenti fini le residue questioni civili, così come decise dal Tribunale di Rovigo, dovendosi in proposito ribadire, conformemente a quanto già esposto nel paragrafo 2.1.4.1, cui si deve rinviare, la prevalenza, relativamente alla posizione di Tatò e Scaroni, della declaratoria di estinzione del reato di cui al capo B, la cui causa, essendosi verificata prima dell’emissione della sentenza di primo grado e non dipendendo da ulteriori verifiche giurisdizionali, riservate al giudice del merito, inibisce la retrocessione del giudizio e travolge tutte le statuizioni civili precedentemente rese (Sez. 5, n. 44826 del 28/05/2014, Regoli, cit.; Sez. 6, n. 9081 del 21/02/2013, Colucci, cit.; Sez. 2, n. 5705 del 29/01/2009, Somma, cit.; Sez. 6, n. 33398 del 19/09/2002, Rusciano, cit.; Sez. 4, n. 10300 del 25/09/1997, De Meo, cit.; Sez. 2, n. 3899 del 21/12/1990, Pizzillo, cit.).
3.1. Le considerazioni che si sono esposte impediscono di esaminare il merito delle doglianze formulate dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia con riferimento alla posizione di Tatò e Scarini, risultando la carenza di legittimazione a impugnare riscontrata nel caso di specie preclusiva rispetto al vaglio delle censure proposte con il ricorso in esame.
4. Ad analoghe conclusioni deve giungersi con riferimento all’imputato Fulvio Conti, pur nel contesto di un differente percorso argomentativo, atteso che, con riferimento alla sua posizione processuale, il reato contestato al capo B della rubrica, ai sensi dell’art. 434, comma primo, cod. pen., risulta prescritto il 21/02/2017, in epoca antecedente alla proposizione del ricorso in esame, datato 01/06/2017, ma successiva all’emissione della sentenza di appello, pronunciata il 18/01/2017.
Osserva, in proposito, il Collegio che, nei confronti di Conti, il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia si incentrava esclusivamente sull’esatta configurazione del reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., atteso che il delitto di cui al capo B, a differenza degli imputati Tatò e Scaroni, veniva contestato all’imputato in esame in forma semplice.
In questa cornice, occorre preliminarmente evidenziare che, nel caso in esame, non è possibile fare applicazione al caso di specie dell’art. 578 cod. proc. pen., a tenore del quale: «Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili».
Nel caso di specie, l’inapplicabilità dell’art. 578 cod. proc. pen. discende dal fatto che l’imputato Conti veniva assolto dal reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. proc. pen. con la sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Rovigo il 31/03/2014, che veniva confermata dalla decisione pronunciata il 18/01/2017 dalla Corte di appello di Venezia, con la conseguenza che, nei suoi confronti, non residua alcuna statuizione civile in relazione alla quale è possibile intervenire ulteriormente.
Né è possibile ipotizzare, analogamente a quanto affermato a proposito degli imputati Tatò e Scaroni, un ulteriore intervento di questo Collegio, finalizzato a valutare la correttezza formale della decisione impugnata, dovendosi ribadire che, nel nostro sistema processuale penale, non è ammissibile l’esercizio di un diritto di impugnazione da parte del pubblico ministero, riguardante l’esattezza teorica della decisione gravata, senza che alla posizione giuridica del soggetto ricorrente derivi alcun risultato pratico, atteso che l’impugnazione mira a soddisfare una posizione oggettiva giuridicamente rilevante e non un interesse meramente astratto. Sul punto, non si può che richiamare la giurisprudenza di legittimità consolidata, secondo cui: «Il ricorso per cassazione del P.M. diretto a ottenere l’esatta applicazione della legge processuale deve essere caratterizzato dalla concretezza e attualità dell’interesse da verificare in relazione all’idoneità dell’impugnazione a rimuovere gli effetti che si assumono pregiudizievoli» (Sez. U, n. 29529 del 25/06/2009, De Marino, Rv. 244110).
E’ pacifico, del resto, che, nel presente procedimento, la posizione processuale di Conti, così come definita nei giudizi di merito, non potrebbe essere utilmente rivalutata, sotto il profilo delle statuizioni civili, in conseguenza dell’intervento del Giudice di legittimità invocato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia.
Si consideri, in proposito, che la parte ricorrente sosteneva nell’atto di impugnazione oggetto di vaglio che, nonostante il decorso dei termini prescrizionali, che risultavano interamente spirati il 21/02/2017, relativamente al reato di cui all’art. 434, comma primo, cod. pen., la decisione di assoluzione di Conti, concordemente espressa nei giudizi di merito, legittimava la tutela giurisdizionale degli obblighi risarcitori spettanti alle parti civili, che risultavano garantiti dal ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia.
Deve, tuttavia, rilevarsi che, al contrario di quanto affermato dalla parte ricorrente, per effetto del combinato disposto degli artt. 576 e 622 cod. proc. pen., la legittimazione all’annullamento della sentenza di merito assolutoria, rilevanti ai soli effetti della responsabilità civile, spetta esclusivamente alla parte civile e non anche al pubblico ministero. Sul punto, deve evidenziarsi che, come costantemente affermato da questa Corte, in presenza di una causa di estinzione del reato, l’annullamento della decisione di assoluzione consegue esclusivamente al ricorso per cassazione, proposto, agli effetti della responsabilità civile, dalle parti private, alle quali è riconosciuto il diritto a una decisione sulla propria domanda (Sez. 6, n. 16147 del 02/04/2014, Re Mario, Rv. 260121; Sez. 2, n.46257 del 17/10/2013, Ranocchia, Rv. 257429; Sez. 5, n. 9638 del 24/11/2011, Banchero, Rv. 249713).
Occorre, pertanto, ribadire che nessun interesse concreto e attuale sorregge il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello nei confronti dell’imputato Conti, il cui unico scopo risiederebbe, sulla scorta di quanto si è affermato, nell’individuazione della soluzione ermeneutica applicabile in relazione alla sua posizione processuale, che non può trovare accoglimento nel nostro ordinamento (Sez. U, n. 29529 del 25/06/2009, De Marino, cit.).
4.1. Le ragioni che si sono esposte, analogamente a quanto affermato con riferimento agli imputati Tatò e Scaroni, impediscono di esaminare il merito delle doglianze formulate dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia con riferimento alla posizione di Conti, risultando la carenza di legittimazione a impugnare riscontrata nel caso di specie preclusiva rispetto al vaglio delle censure proposte con il ricorso in esame.
5. Per le considerazioni processuali che si sono esposte, il ricorso proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia deve essere dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso il 10/01/2018.
Scarica in pdf il testo del provvedimento: cass. pen., sez. 1, sent. n. 2209-2018