Risarcimento del danno ambientale di natura pubblica e costituzione di parte civile dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Cassazione Penale n. 911/2018.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 911 del 12 gennaio 2018 (ud. del 10 ottobre 2017)
Pres. Savani, Est. Di Stasi
DANNO AMBIENTALE. Rifiuti. Legittimazione a costituirsi parte civile. Danni risarcibili ex art. 2043 c. c. . Delitti contro l’ambiente. Attività organizzate per traffico illecito di rifiuti. Risarcimento di un danno patrimoniale e non patrimoniale. Risarcimento del danno ambientale di natura pubblica. Interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente. Fede pubblica (falsi) e P.A. (corruzione). Soggetti idonei al risarcimento di un danno patrimoniale e non patrimoniale. Art. 2043 c. c. . Artt. 309, 311 e 318 d. lgs. n. 152/2006.
La legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali aventi ad oggetto fatti compiuti successivamente al 29 aprile 2006 a seguito della abrogazione dell’art. 18, comma terzo, della L. n. 349 del 1986 derivante dall’entrata in vigore dell’art. 318, comma secondo, lett. a), del d. lgs. n. 152 del 2006, spetta, in via esclusiva, allo Stato per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, inteso come lesione dell’interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente, mentre tutti gli altri soggetti, singoli o associati, comprese le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali, possono esercitare l’azione civile in sede penale ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. solo per ottenere il risarcimento di un danno patrimoniale e non patrimoniale, ulteriore e concreto, conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari diversi dall’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, pur se derivante dalla stessa condotta lesiva; per i fatti, verificatisi anteriormente alla entrata in vigore della predetta normativa e pertanto nella conseguente vigenza di quella preesistente, deve continuare ad applicarsi l’art. 18, comma 3, della legge n. 349 del 1986.
Il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente, è ora previsto e disciplinato soltanto dal d. lgs. n. 152 del 2006, art. 311, sicché il titolare della pretesa risarcitoria per tale tipo di danno è esclusivamente lo Stato, in persona del Ministro dell’ambiente (Sez.3, n. 24677 del 09/07/2014, dep. 11/06/2015). Tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli Enti pubblici territoriali e le Regioni, possono invece agire, in forza dell’art. 2043 cod. civ., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente in relazione alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale (Sezione III penale, 23/06/2011, n. 25193; idem, Sezione III penale, 12/1/2012, n. 633), così come possono agire per il risarcimento del danno non patrimoniale (Sez.3, 23/5/2012, n. 19439), avente tuttavia le medesime caratteristiche del precedente quanto alla estraneità al danno ambientale di natura pubblica. Nell’accertamento di tale voce di danno il giudice dovrà verificare, sulla base della concreta allegazione di parte, la sussistenza di esso, consistente nel pregiudizio arrecato all’attività da detti soggetti effettivamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo (Sez. 3, 26 settembre 2011, n. 34761). Le Regioni e gli enti territoriali minori, in forza dell’art. 309, comma 1, possono presentare denunce ed osservazioni nell’ambito di procedimenti finalizzati all’adozione di misure di prevenzione, precauzione e ripristino oppure possono sollecitare l’intervento statale a tutela dell’ambiente, mentre non hanno più il potere di agire iure proprio per il risarcimento del danno ambientale.
Il principio di immanenza della parte civile, in base al quale la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo (salve le ipotesi di revoca e di esclusione) ed in applicazione del quale la costituzione di parte civile resiste agli eventi che riguardino la persona fisica del danneggiato che si sia già costituito in giudizio; in particolare si è affermato che “alla morte della persona costituita parte civile non conseguono gli effetti della revoca tacita né quelli interruttivi del rapporto processuale previsti dall’art. 300 cod. proc. civ. – inapplicabili al processo penale, ispirato all’impulso di ufficio – in quanto la costituzione resta valida ex tunc (Sez. 4, n. 39506 del 15/07/2016). Tale principio è applicabile anche nel caso, che qui ricorre, di soppressione ex lege di un ente pubblico con la successione allo stesso di un altro ente verificatasi dopo la costituzione di parte civile, in quanto tale circostanza dà luogo ad un fenomeno equiparabile alla morte o alla perdita della capacità di stare in giudizio della persona fisica.
La denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello costituisce causa di inammissibilità originaria dell’impugnazione; non possono, quindi, essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare, perché non devolute alla sua cognizione, (Sez.3, n. 16610 del 24/01/2017, Rv. 269632), tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza (Sez.2, n.6131 del 29/01/2016, Rv. 266202).
Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 911 del 12 gennaio 2018 (ud. del 10 ottobre 2017)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
OLIVA PAOLO, nato a Fossombrone il 07/12/1964;
TOMBARI MATTEO, nato a Fano il 14/01/1968;
avverso la sentenza del 09/11/2015 della Corte di appello di Ancona;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott.ssa Antonella Di Stasi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Francesco Salzano, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per le parti civili l’avv. Massimiliano, Belli, quale sostituto processuale degli avv.ti Gaetano Insolera, Roberto Brunelli, Lucio Monaco, Maria Raffaella Mazzi, che ha depositato conclusioni e nota spese e concluso chiedendo l’annullamento dei ricorsi e la conferma della sentenza;
udito per gli imputati l’avv. Arcangeli Gilberta (quale difensore di fiducia per Oliva Paolo e quale sostituto processuale dell’avv. Maria Lucia Pizza per Tombari Matteo), che ha concluso riportandosi ai motivi del ricorso e chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 30.1.2013 del Tribunale di Pesaro, gli attuali ricorrenti, Oliva Paolo e Tombari Matteo, venivano riconosciuti colpevoli del delitto di cui agli artt. 110 e 416 comma 1 ult. comma cod.pen.- per aver promosso, organizzato e costituito una associazione a delinquere allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti contro l’ambiente, attività organizzate per traffico illecito di rifiuti), contro la fede pubblica (falsi) e contro la P.A. (corruzione)- e condannati alla pena- condonata nella misura di anni tre- di anni quattro di reclusione ciascuno ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede.
Con sentenza del 09/11/2015, la Corte di appello di Ancona dichiarava non doversi nei confronti di Oliva Paolo e Tombari Matteo in relazione al delitto per il quale avevano riportato condanna in primo grado perché estinto per prescrizione e confermava le statuizioni civili.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Oliva Paolo e Tombari Matteo, per il tramite dei rispettivi difensori di fiducia, chiedendone l’annullamento ed articolando i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
Oliva Paolo articola tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo deduce l’inammissibilità della costituzione della parte civile Comunità Montana del Metauro Zona E di Fossombrone, argomentando che la Comunità Montana del Metauro Zona E di Fossombrone non aveva legittimazione a stare in giudizio in quanto il decreto Regione Marche del 1.3.2010 n. 367 in ottemperanza alla Legge Regione Marche 18/2008, art 23 comma 1 bis, ne aveva disposto la soppressione con nomina di un Commissario straordinario con incarico a tempo fino al 31.12.2010.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 78 cod.pen ed all’art. 311 d.lvo 152/2006 e conseguente inammissibilità di costituzione di parte civile di tutti gli enti territoriali.
Argomenta che stante la modifica al d.lvo 152/2006 e la sua applicabilità anche agli eventi verificatisi prima del 2006, la titolarità a richiedere il danno all’ambiente spettava unicamente al Ministero dell’Ambiente e che alcuna prova era stata fornita in ordine a danni risarcibili ex art. 2043 cod.civ.
Con il terzo motivo deduce erronea applicazione degli artt. 187 e 198 cod.pen., argomentando che la condanna dell’Oliva al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili non sarebbe sorretta da motivazione in ordine alla imputabilità del danno da risarcire.
Tombari Matteo articola un unico motivo di ricorso, con il quale deduce violazione di legge in relazione alla condanna alle spese in favore della Comunità Montana del Metauro Zona E di Fossombrone nonostante che nelle more del giudizio di primo grado la predetta comunità era stata soppressa ed il contenzioso trasferito ex lege al Comune di Barchi, già costituita parte civile con proprio difensore.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso di Tombari Matteo va dichiarato inammissibile perché basato su doglianza che, come evincibile dalla stessa sentenza impugnata, non ha costituito oggetto dei motivi di appello.
Va richiamato, quindi, l’orientamento costante di questa Corte (Sez. U. 30.6.99, Piepoli, Rv. 213.981) secondo cui la denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello costituisce causa di inammissibilità originaria dell’impugnazione; non possono, quindi, essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare, perché non devolute alla sua cognizione, (Sez.3,n.16610 del 24/01/2017,Rv.269632), tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza (Sez.2, n.6131 del 29/01/2016, Rv.266202), ipotesi che non ricorre nella specie 2. Il ricorso di Oliva Paolo va dichiarato inammissibile perché basato su motivi inammissibili o manifestamente infondati.
2.1. I primi due motivi di ricorso sono manifestamente infondati.
Va premesso che la L. 8 luglio 1986, n. 349, art.18, al comma 3 attribuiva allo Stato e agli enti territoriali sui quali incidevano i beni oggetto del fatto lesivo la legittimazione a promuovere la relativa azione per il risarcimento del danno ambientale, anche in sede penale nei processi per reati contro l’ambiente: lo Stato rappresentava il massimo ente esponenziale della collettività nazionale, mentre, per gli enti territoriali, il danno ambientale si riteneva incidere direttamente sull’assetto del territorio, elemento costitutivo degli stessi.
Il suddetto art. 18 è stato abrogato dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 318, comma 2, lett. a) (ad eccezione del comma 5, che riconosce alle associazioni ambientaliste il diritto di intervenire nei giudizi per danno ambientale).
Il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 311, riserva allo Stato, ed in particolare al ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il potere di agire per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, anche esercitando l’azione civile in sede penale.
Le Regioni e gli enti territoriali minori, in forza dell’art. 309, comma 1, possono presentare denunce ed osservazioni nell’ambito di procedimenti finalizzati all’adozione di misure di prevenzione, precauzione e ripristino oppure possono sollecitare l’intervento statale a tutela dell’ambiente, mentre non hanno più il potere di agire iure proprio per il risarcimento del danno ambientale.
La giurisprudenza di questa Corte, successiva al mutamento legislativo indicato, ha, comunque, affermato che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non soltanto al ministro dell’ambiente, ai sensi del art. 311, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ma anche all’ente pubblico territoriale che per effetto della condotta illecita abbia subito un danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. (Sez.3,n.755 del 28/10/2009, dep.11/01/2010, Rv.246015).
La sentenza della Sez.3, n. 41015 del 21/10/2010, Rv.248707 ha precisato che “il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sè considerato come lesione dell’interesse pubblico e generale all’ambiente, è ora previsto e disciplinato soltanto dall’art. 311 cit., con la conseguenza che il titolare della pretesa risarcitoria per tale danno ambientale è esclusivamente lo Stato, in persona del ministro dell’ambiente. Tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, possono invece agire, in forza dell’art. 2043 c.c.., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente in relazione alla lesione di altri loro diritti patrimoniali, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale.
Il principio è stato ribadito ed esteso anche alla tutela del danno non patrimoniale da: Sez.3, n .633 del 29/11/2011, dep.12/01/2012, Rv.251906e da Sez.3, n.19437 del 17/01/2012, Rv.252907, secondo cui la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non soltanto al Ministro dell’Ambiente per il risarcimento del danno ambientale, ma anche all’ente pubblico territoriale che, per effetto della condotta illecita, abbia subito un danno diverso da quello ambientale e derivante dalla lesione di interessi locali specifici e differenziati; Sez.4, n.24619 del 27/05/2014, Rv.259153,che ha affermato che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non soltanto al Ministro dell’Ambiente, per il risarcimento del danno ambientale, ma anche agli enti locali territoriali, per il risarcimento di un danno diverso da quello ambientale, danno che può connotarsi non solo quale danno patrimoniale ma anche quale danno avente natura non patrimoniale (nella specie, danno all’immagine, “rappresentato dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca”).
Da ultimo il principio è stato ribadito da Sez.3, n.24677 del 09/07/2014, dep.11/06/2015, Rv. 264114, che ha affermato che “Il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente, è ora previsto e disciplinato soltanto dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 311, sicché il titolare della pretesa risarcitoria per tale tipo di danno è esclusivamente lo Stato, in persona del Ministro dell’ambiente. Tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli Enti pubblici territoriali e le Regioni, possono invece agire, in forza dell’art. 2043 cod. cìv., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente in relazione alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale (Sezione III penale, 23 giugno 2011, n. 25193; idem, Sezione III penale, 12 gennaio 2012, n. 633), così come possono agire per il risarcimento del danno non patrimoniale (Sez.3, 23 maggio 2012, n. 19439), avente tuttavia le medesime caratteristiche del precedente quanto alla estraneità al danno ambientale di natura pubblica. Nell’accertamento di tale voce di danno il giudice dovrà verificare, sulla base della concreta allegazione di parte, la sussistenza di esso, consistente nel pregiudizio arrecato all’attività da detti soggetti effettivamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo (Sez. 3, 26 settembre 2011, n. 34761).”. E si è anche chiarito che tale principio” ha però come ineludibile presupposto normativo l’avvenuta abrogazione, per effetto della entrata in vigore dell’art, 318, comma 2, lettera a), del d.lgs n. 152 del 2006, del ricordato art. 18, comma 3, della legge n. 349 del 1986. Poiché tale effetto è intervenuto solo in data 29 aprile 2006, data di scadenza della vacatio legis relativa al predetto d.lgs n. 152 del 2005, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica del 14 aprile 2006, e tenuto conto della circostanza che il ricordato decreto legislativo non contiene alcuna disposizione intertemporale destinata a disciplinare gli effetti del trapasso da un determinato assetto normativo ad un altro ad esso sopravvenuto, deve ritenersi che, per i fatti, verificatisi anteriormente alla entrata in vigore della predetta normativa e pertanto nella conseguente vigenza di quella preesistente, deve continuare ad applicarsi l’art. 18, comma 3, della legge n. 349 del 1986, che non poneva limitazioni alla legittimazione attiva degli enti locali all’esercizio della azione risarcitoria” (nella specie, le condotte erano cronologicamente riferibili ad un periodo, anni 2002, 2003, 2004 e 2005, anteriore alla entrata in vigore del ricordato art. 318 del d.lgs n. 152 del 2006).
Va, quindi, ribadito che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali aventi ad oggetto fatti compiuti successivamente al 29 aprile 2006 a seguito della abrogazione dell’art. 18, comma terzo, della L. n. 349 del 1986 derivante dall’entrata in vigore dell’art. 318, comma secondo, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006, spetta, in via esclusiva, allo Stato per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, inteso come lesione dell’interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente, mentre tutti gli altri soggetti, singoli o associati, comprese le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali, possono esercitare l’azione civile in sede penale ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. solo per ottenere il risarcimento di un danno patrimoniale e non patrimoniale, ulteriore e concreto, conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari diversi dall’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, pur se derivante dalla stessa condotta lesiva; per i fatti, verificatisi anteriormente alla entrata in vigore della predetta normativa e pertanto nella conseguente vigenza di quella preesistente, deve continuare ad applicarsi l’art. 18, comma 3, della legge n. 349 del 1986.
Tanto premesso, la sentenza impugnata ha fatto buon governo dei principi suesposti, confermando l’ammissibilità delle costituzioni di parte civile della Regione e degli altri enti territoriali pubblici, rimarcando come tutti gli atti di costituzione di parte civile erano relativi sia al danno che le condotte illecite descritte nei capi di imputazione avevano arrecato agli enti ed alle popolazioni locali per la lesione dei diritti alla salubrità dell’ambiente ed alla salute degli abitanti per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della sesta parte del d.lvo 152/2006 che a danni di natura patrimoniale e non patrimoniale conseguenti alla lesione di diritti particolari e diversi dall’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente.
La contestazione circa la mancata prova di danni ex art. 2043 cc è censura inammissibile, in quanto meramente contestativa e priva di concretezza e che non si confronta con le argomentazioni svolte sul punto dalla sentenza impugnata (pag 23).
Del pari corretta è la valutazione di perdurante validità della costituzione di parte civile della Comunità Montana del Metauro zona E, pur a seguito della soppressione di detto ente nelle more del procedimento.
Va, in merito richiamato il principio di immanenza della parte civile, in base al quale la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo (salve le ipotesi di revoca e di esclusione) ed in applicazione del quale- per quanto specificamente rileva nella fattispecie in esame- la costituzione di parte civile resiste agli eventi che riguardino la persona fisica del danneggiato che si sia già costituito in giudizio; in particolare si è affermato che “alla morte della persona costituita parte civile non conseguono gli effetti della revoca tacita né quelli interruttivi del rapporto processuale previsti dall’art. 300 cod. proc. civ. – inapplicabili al processo penale, ispirato all’impulso di ufficio – in quanto la costituzione resta valida ex tunc (Sez.4, n.39506 del 15/07/2016, Rv.267904).
Tale principio è applicabile anche nel caso, che qui ricorre, di soppressione ex lege di un ente pubblico con la successione allo stesso di un altro ente verificatasi dopo la costituzione di parte civile, in quanto tale circostanza dà luogo ad un fenomeno equiparabile alla morte o alla perdita della capacità di stare in giudizio della persona fisica (Sez. L, n.9822 del 03/10/1998, Rv.519386-01).
2.2. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile perché aspecifico.
Il motivo prospetta deduzioni del tutto generiche e che non si confrontano specificamente con le argomentazioni svolte (p.23 e 24) nella sentenza impugnata (confronto doveroso per l’ammissibilità dell’impugnazione, ex art. 581 c.p.p., perché la sua funzione tipica è quella della critica argomentata avverso il provvedimento oggetto di ricorso: Sez. 6, n 20377 dell’U.3- 14.5.2009 e Sez.6, n 22445 dell’8 – 28.5.2009).
Trova dunque applicazione il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione, i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez.2, n.19951 del 15/05/2008, Rv.240109; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Rv. 255568; Sez.2, n.11951 del 29/01/2014, Rv.259425).
La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. e), all’inammissibilità (Sez. 4, 29/03/2000, n. 5191, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, 03/07/2007, n. 34270, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Tasca, Rv. 237596).
3. Essendo i ricorsi inammissibili e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
I ricorrenti vanno, inoltre, condannati, in solido tra loro (cfr Sez.2,n.1681del 25/11/2016, dep.13/01/2017), alla rifusione delle spese del grado sostenute dalle parti civili che, avuto riguardo ai parametri di cui alle tabelle allegate al D.M. n. 55/2014, all’impegno profuso, all’oggetto e alla natura del processo, si ritiene di dover liquidare- per ciascuna parte- nella misura complessiva di Euro 3.000,00 per compenso professionale, oltre spese generali ed accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché, in solido, alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel grado che si liquidano in euro 3.000,00 per ciascuna oltre al rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Così deciso il 10/10/2017

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