Danno ambientale e rifiuti. Risarcimento del danno ex art. 2051 c.c., responsabilità del proprietario incolpevole alla luce del principio “chi inquina paga”. Cassazione Civile n. 17045/2018.

Cass. Civ., Sez. III, sent. n. 17045 del 28 giguno 2018 (ud. del 13 marzo 2018)
Pres. Olivieri, Est. Pellecchia
Danno ambientale. Risarcimento del danno e responsabilità ex art. 2051 c.c. . Inquinamento delle risorse ambientali. Diffusione incontrollata degli inquinanti. Proprietario non responsabile della violazione. Nesso di causalità. Art. 17 d. lgs. 22 del 1997 e d. lgs 2 aprile 2006, n. 152. Principio “chi inquina paga”. Esclusione del carattere retroattivo. Rifiuti. Sito contaminato. Interventi di bonifica ed esclusione di responsabilità in capo ai proprietari incolpevoli.
La responsabilità ex art. 2051 c.c. non ammette la responsabilità oggettiva e presuppone l’imputabilità soggettiva del fatto. La disciplina temporale applicabile alla fattispecie (interventi diretti alla tutela dell’integrità dell’ambiente lagunare attraverso azioni di disinquinamento, bonifica e/o messa in sicurezza dei siti) non è quella di cui al d. lgs 2 aprile 2006 n. 152, priva di carattere retroattivo, bensì quella vigente al momento in cui si sono verificati i fatti – e quindi l’art. 17 del d. lgs. n. 22 del 1997 (Cass, civ. Sez. III, 04/04/2017, n. 8662; Cass. civ. Sez. I, 07/03/2013, n. 5705). Sicché, il previgente sistema si ispirava al principio secondo cui l’obbligo di adottare le misure idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento è a carico di colui che di tale situazione sia responsabile per avervi dato causa (principio sintetizzato con la formula “chi inquina paga”). Era quindi necessario l’accertamento del nesso di causalità con l’avvenuta contaminazione dei luoghi. Prevedendo poi, solo in seconda battuta, qualora “i responsabili non provvedano ovvero non siano individuabili” che gli interventi necessari venissero comunque realizzati d’ufficio dal Comune o, in subordine, dalla Regione, rivalendosi per il recupero delle spese sulle aree bonificate, gravate da onere reale e privilegio speciale immobiliare. Pertanto, in capo al proprietario che non era autore della violazione, non sussisteva l’obbligo di provvedere direttamente alla bonifica, ma solo l’onere di farlo per evitare le eventuali conseguenze derivanti dai vincoli gravanti sull’area (Cass. civ. Sez. II, 28/12/2017, n. 31005).
In tema di risarcimento o rispristino ambientale, si deve escludere la responsabilità in capo ai proprietari incolpevoli, dal momento che una simile responsabilità sarebbe contraria alle evoluzioni del diritto in materia di danno ambientale. Anche la giurisprudenza comunitaria ha statuito che, secondo la normativa vigente, in caso di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non è possibile imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza, di emergenza e di bonifica del sito contaminato al proprietario incolpevole in quanto estraneo all’attività di inquinamento, sussistendo in capo a quest’ultimo una mera responsabilità patrimoniale limitata al valore dei terreni, esigibile seguito degli interventi di bonifica. Fattispecie: interventi diretti alla tutela dell’integrità dell’ambiente lagunare attraverso azioni di disinquinamento, bonifica e/o messa in sicurezza dei siti.

Cass. Civ., Sez. III, sent. n. 17045 del 28 giguno 2018 (ud. del 13 marzo 2018)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 1543-2016 proposto da:
MINISTERO DELL’ AMBIENTE TUTELA DEL TERRITORIO DEL MARE MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E TRASPORTI in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende per legge;
– ricorrenti – 
contro
FASSA SPA, in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione, legale rappresentante sig. PAOLO FASSA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI NICOTERA 31, presso lo studio dell’avvocato ANDREA ZOPPINI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati PIERLUIGI VEDOVA, SANDRO TREVISANATO giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente – 
avverso la sentenza n. 1668/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 29/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/03/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA;
udito il P. M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ALBERTO CARDINO che ha concluso per il rigetto;
udito l’Avvocato MARINELLA DI CAVE;
udito l’Avvocato ANDREA ZOPPINI;

FATTI DI CAUSA.
1. Nel 2006, il Ministero dell’Ambiente e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Venezia, la Fassa S.p.a., esponendo che la stessa era proprietaria di un’area ubicata nella zona industriale di Venezia – Porto Marghera, località Fusina, individuata quale area di bonifica di interesse nazionale; che tale sito, interessato da una grave forma di inquinamento, era oggetto di un programma di interventi volto alla tutela dell’integrità dell’ambiente lagunare attraverso azioni di disinquinamento, bonifica e/o messa in sicurezza dei siti; che la Fassa S.p.a., non avendo realizzato gli interventi di messa in sicurezza necessari e normativamente stabiliti, si era resa responsabile di un danno ambientale, consistente nella trasmigrazione dell’inquinamento dall’area di sua proprietà alle risorse ambientali circostanti. Chiesero dunque l’accertamento della sussistenza delle condizioni previste dagli artt. 2051 c.c., 17 d. lgs. 22/1997, 18 L. 349/1986, per il risarcimento del danno derivato alle risorse ambientali dalla diffusione incontrollata degli inquinanti contenuti nei terreni di proprietà della convenuta, resa possibile, agevolata o comunque favorita dalla mancata adozione di adeguate misure di messa in sicurezza previste dalla legge o suggerite dalle regole di prudenza, perizia, diligenza e dalle regole dell’arte.
Costituendosi in giudizio la Fassa S.p.a. eccepì l’infondatezza della domanda per mancanza di prova che l’area di sua proprietà fosse realmente inquinata, nonché per non essere essa autore del presunto inquinamento, avendo acquistato l’area de qua solo sette mesi prima della notifica dell’atto di citazione. Eccepì ancora la non debenza del risarcimento anche ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., esponendo che l’inquinamento delle aree era ben noto quantomeno fin dal 2000 e che pertanto lo Stato, nella sua veste di creditore del risarcimento, avrebbe dovuto adottare tutte le misure atte ad evitare il danno. Infine, nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda risarcitoria, chiese che la liquidazione del danno fosse stabilita in misura equitativa tenuto conto della scarsa gravità del comportamento della convenuta.
Il Tribunale di Venezia, con la sentenza n. 2068/2010, ritenne la Fassa S.p.a. responsabile e quindi tenuta risarcimento del danno derivato alle risorse ambientali dalla diffusione incontrollata degli inquinanti contenuti nel fondo di sua proprietà.
2. La decisione è stata riformata dalla Corte d’Appello di Venezia, con la sentenza n. 1668/2015 del 29 giugno 2015.
Secondo la Corte di Appello, il d.lgs. n. 152/2006 (T.U. Ambientale), agli artt. 239 e ss., confermando i criteri di responsabilità già presenti nella normativa precedente, ribadisce e rafforza il principio di derivazione comunitaria “chi inquina paga”, in quanto ancora la responsabilità ambientale non solo al presupposto oggettivo della riferibilità causale dell’evento ad una determinata azione ed omissione, ma anche al presupposto soggettivo dell’imputabilità di tale azione od omissione a titolo di dolo o colpa.
La Corte di Venezia ha quindi ritenuto che la corretta applicazione della normativa in materia, speciale e derogatoria, porti ad escludere che il responsabile della bonifica, o del danno ambientale, possa essere individuato solo in virtù del rapporto di proprietà e custodia sussistente tra un determinato soggetto ed il terreno inquinato.
Nel caso di specie, la Corte ha rilevato che la Fassa S.p.a. non può essere qualificata quale autrice materiale dell’inquinamento, essendo provato e mai contestato che la società aveva acquistato il fondo soltanto in un’epoca successiva all’insorgenza della contaminazione. Di conseguenza, la medesima società non può essere ritenuta responsabile
del danno ambientale.
Secondo la Corte, del resto, alla stessa conclusione si dovrebbe pervenire anche applicando l’art. 2051 c.c..
Infatti, non risultano provati mutamenti tali da cagionare un’improvvisa ed inaspettata situazione di emergenza, comportante un maggior pericolo di inquinamento ambientale, tale da obbligare la Fassa ad adottare misure di sicurezza arte a fronteggiare un inquinamento presente ormai da tempo.
Inoltre, tra gli obblighi di custodia, cui è correlata la responsabilità del proprietario del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., non potrebbero rientrare doveri di azione tanto penetranti quali quelli imposti dal dovere di intraprendere attività di bonifica e ripristino ambientale, che esulano dalla nozione di vigilanza.
D’altra parte, mancando il necessario nesso causale tra la condotta e il danno, la responsabilità del proprietario non autore dell’inquinamento sarebbe fondata unicamente sulla sua qualità di detentore non potendo essergli attribuita la contaminazione né in via soggettiva in via oggettiva.
Tali argomentazioni sono condivise dalla giurisprudenza più recente, ormai unanime nell’escludere la responsabilità in capo ai proprietari incolpevoli, dal momento che una simile responsabilità sarebbe contraria alle evoluzioni del diritto in materia di danno ambientale.
Anche la giurisprudenza comunitaria, infine, ha statuito che, secondo la normativa vigente, in caso di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non è possibile imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza, di emergenza e di bonifica del sito contaminato al proprietario incolpevole in quanto estraneo all’attività di inquinamento, sussistendo in capo a quest’ultimo una mera responsabilità patrimoniale limitata al valore dei terreni, esigibile seguito degli interventi di bonifica.
3. Avverso tale sentenza propongono ricorso in Cassazione il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio ed il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, sulla base di un unico motivo.
3.1. Resiste con controricorso illustrato da memoria la Fassa S.r.l. (già Fassa S.p.a.).
RAGIONI DELLA DECISIONE
4. Con l’unico motivo di ricorso, i Ministeri ricorrenti lamentano la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c., dell’art. 17, d.lgs. n. 22 del 1997 e dell’art. 18 della 1. n. 349 del 1986, in relazione all’art. 360, primo comma, c.c..
I ricorrenti pongono a questa Corte la questione se sia o meno configurabile, a carico del custode, una responsabilità civile ai sensi dell’art. 2051 c.c. in relazione ai danni cagionati dalla dispersione incontrollata degli inquinanti presenti nel terreno di cui abbia la custodia.
La soluzione negativa di tale questione adottata dalla Corte di Appello sarebbe in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, la quale sarebbe costante nell’applicare la norma di cui all’art. 2051 c.c. al custode del terreno che danneggia, inquina o lede un altro bene immobile vicino, anche a prescindere da una specifica condotta attiva dannosa umana (ad es. è stata riconosciuta la responsabilità del proprietario del fondo per i danni subiti dal fondo limitrofo in caso di frane e smottamenti, distacco di massi dovuti all’erosione del suolo o nel caso il cui il fondo si trovi in una situazione tale da alimentare la propagazione di un incendio pur non originatosi nel medesimo fondo).
I ricorrenti trascrivono poi le proprie difese formulate in appello, che non sarebbero state considerate dalla Corte di Venezia, nelle quali si afferma che la Direttiva 2004/35/CE e la relativa normativa nazionale di attuazione non potrebbero applicarsi a fatti commessi prima della entrata in vigore della medesima Direttiva.
Secondo la Corte di Giustizia europea, infatti, dall’art. 17 della Direttiva, in combinato disposto con il considerando 30, risulterebbe che essa si applica unicamente al danno causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatosi il 30 aprile 2007 o dopo tale data.
Di conseguenza, il caso di specie, che riguarda un fenomeno risalente ad epoca antecedente all’entrata in vigore della Direttiva, dovrebbe essere disciplinato dall’ordinamento nazionale.
In ogni caso, se anche si applicasse la normativa comurutana, quest’ultima non impedirebbe che singoli Stati possano mantenere o introdurre una normativa più severa in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, anche in punto di individuazione dei soggetti responsabili.
Di conseguenza, la Direttiva non osterebbe all’applicazione dell’art. 2051 c.c. e quindi al riconoscimento della responsabilità del custode per non aver impedito l’incontrollata diffusione delle sostanze inquinanti in esso presenti.
Il motivo è innanzitutto inammissibile perché non è specifico in quanto pone (pag. 13) la questione della responsabilità ex 2051 senza tener conto della prima motivazione del giudice che tiene conto della disciplina normativa che non ammette la responsabilità oggettiva e presuppone l’imputabilità soggettiva del fatto.
Ma lo è anche per difetto di interesse.
Infatti, pur dovendosi ritenere, in linea con la giurisprudenza maggioritaria (Cass Civ., Sez. III, 04/04/2017, n. 8662; Cass. civ. Sez. I, 07/03/2013, n. 5705), che la disciplina applicabile alla fattispecie in esame non sia quella di cui al d.lgs 2 aprile 2006, n. 152, priva di carattere retroattivo, bensì quella vigente al momento in cui si sono verificati i fatti – e quindi l’art. 17 del d.lgs. 22 del 1997 – dall’applicazione di tale diversa disciplina non può comunque derivare la condanna della Fassa al risarcimento del danno.
Al riguardo, si osserva che il summenzionato art. 17 prevedeva:
– al comma 2, che chiunque cagionasse, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d’uso dei siti ovvero determinasse un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, era tenuto a procedere, a proprie spese, agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali derivava il pericolo di inquinamento;
– al comma 9, che, qualora i responsabili non vi avessero provveduto ovvero non fossero stati individuabili, gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale sarebbero stati realizzati d’ufficio dal Comune territorialmente competente e, ove questo non fosse intervenuto, dalla Regione.
– al comma 10, che gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale, nonché la realizzazione delle eventuali misure di sicurezza costituivano onere reale sulle aree inquinate.
Da tale quadro normativo emerge che anche il previgente sistema si ispirava al principio secondo cui l’obbligo di adottare le misure idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento è a carico di colui che di tale situazione sia responsabile per avervi dato causa (principio sintetizzato con la formula “chi inquina paga”).
Era quindi necessario l’accertamento del nesso di causalità con l’avvenuta contaminazione dei luoghi.
Si prevedeva poi, solo in seconda battuta, qualora “i responsabili non provvedano ovvero non siano individuabili” che gli interventi necessari venissero comunque realizzati d’ufficio dal Comune o, in subordine, dalla Regione, rivalendosi per il recupero delle spese sulle aree bonificate, gravate da onere reale e privilegio speciale immobiliare.
Pertanto, in capo al proprietario che non era autore della violazione, non sussisteva l’obbligo di provvedere direttamente alla bonifica, ma solo l’onere di farlo per evitare le eventuali conseguenze derivanti dai vincoli gravanti sull’area (Cass. civ. Sez. II, 28/12/-2017, n. 31005).
Alla luce di quanto sopra nel caso di specie:
a) non può ritenersi che la Fassa S.p.a. sia tenuta a risarcire il danno ambientale in quanto obbligata a provvedere direttamente alla bonifica ai sensi del comma 2 dell’art. 17 d. lgs. n. 22/1997, alla luce dell’accertamento da parte della sentenza impugnata – non censurata in parte qua dai ricorrenti – circa l’insussistenza del nesso causale, essendo
la Fassa S.r.l. estranea all’attività di inquinamento, già compiutasi al momento dell’acquisto del fondo da parte della società, e non potendosi nemmeno ipotizzare un concorso omissivo della medesima società, in mancanza di prove di modifiche della situazione del bene tali “da cagionare un’improvvisa e inaspettata situazione di emergenza, comportante un maggior pericolo di inquinamento ambientale, tale da obbligare la Fassa ad adottare misure di sicurezza atte a fronteggiare un inquinamento ormai presente da molto tempo”;
b) non può nemmeno ritenersi che la società sia responsabile in quanto soggetto proprietario del fondo, non sussistendo nella normativa in esame un obbligo diretto di quest’ultimo e mancando altresì la prova dell’esistenza dei presupposti previsti dai commi 9, 10 e 11 dell’art. 17 d. lgs. n. 22/1997 per la rivalsa sulle aree bonificate (ovvero la prova del fatto che il responsabile della contaminazione non fosse stato individuato o non avesse provveduto ad eseguire gli interventi dovuti e che l’Amministazione avesse deliberato o eseguito direttamente le operazioni di ripristino).
Il ricorso risulta inammissibile anche con riferimento alla lamentata violazione dell’art. 2051 c.c., atteso che i ricorrenti non censurano né l’affermazione della Corte veneziana secondo cui la disciplina dettata dalla normativa speciale è derogatoria rispetto a quella generale, né l’ulteriore argomentazione della sentenza impugnata secondo cui le opere di bonifica asseritamente omesse dalla Fassa S.p.a. esulano dagli obblighi di custodia imposti al proprietario del bene ex art. 2051 c.c.
5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 10.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200, cd agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione in data 13 marzo 2018.
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