RIFIUTI. La mera indicazione della cessione a titolo oneroso non basta a dimostrare l’esclusione dalla natura di rifiuto. Cassazione Penale n. 46586/2019.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 46586 del 18 novembre 2019 (ud. del3 ottobre 2019)
Pres. Rosi, Est. Mengoni

Rifiuti. Natura di rifiuto e permanenza della stessa.
La natura di rifiuto, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis sopra citato), invero ravvisabili nel caso di specie, non vien certo perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all’autorità (oppure creato proprio a tal fine), in questo caso sub specie di cessione a titolo oneroso, come se il negozio giuridico riguardasse l’oggetto stesso della produzione e non – come in effetti – proprio un rifiuto. Ciò, peraltro, a prescindere dal “valore” economico o commerciale di questo, specie nell’ottica di chi in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura privatistica.

 

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 46586 del 18 novembre 2019 (ud. del3 ottobre 2019)
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza dell’11/12/2018, il Tribunale di Lucca dichiarava Marcello Marchi, Paolo Carli e Roberto Pardini colpevoli della contravvenzione di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 e li condannava ciascuno alla pena di tremila euro di ammenda; gli stessi erano riconosciuti colpevoli del concorso in attività non autorizzata di smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi.
2. Propongono distinti ricorsi per cassazione i tre imputati, a mezzo dei propri difensori, deducendo i seguenti, comuni motivi:
– inosservanza degli artt. 521, 522 cod. proc. pen. La contestazione mossa in rubrica concernerebbe lo smaltimento non autorizzato di cd. “marmettola” e l’istruttoria si sarebbe concentrata su tale specifica ipotesi di reato; per contro, i ricorrenti sarebbero stati poi ritenuti responsabili di una fattispecie oggettivamente diversa, riguardante “rifiuti inerti”, atteso che lo stesso Giudice avrebbe escluso ogni coinvolgimento della citata “marmettola”. Ne conseguirebbe la violazione delle norme richiamate, in quanto il Tribunale – preso atto dell’assenza del rapporto identitario che deve sussistere tra accusa e compendio probatorio – avrebbe dovuto trasmettere gli atti al pubblico ministero;
– contraddittorietà, illogicità e mancanza di motivazione; travisamento della prova. La sentenza darebbe conto di un evidente travisamento degli esiti istruttori da parte del Giudice, laddove escluderebbe che il materiale in oggetto potesse esser qualificato come sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis, d. lgs. n. 152 del 2006, pur ricorrendone tutti i presupposti; le argomentazioni sul punto risulterebbero infatti apodittiche, ed in nulla si confronterebbero con le emergenze dibattimentali (ad esempio, la relazione dell’iing. Marrucci o la deposizione del teste Palmerini), che – contrariamente all’assunto della sentenza – dimostrerebbero che il materiale in esame era stato venduto alla “Versiledile s.r.l.” proprio in ragione dell’attività da questa svolta, quale la realizzazione di reinterri, riempimenti e simili, tale da consentire la riutilizzazione del prodotto;
– gli stessi vizi, poi, sono denunciati con riguardo al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. Il Giudice si sarebbe pronunciato negativamente sul punto con argomento palesemente viziato, ossia richiamando un elemento – la pericolosità della condotta per l’ambiente – non solo sprovvisto di ogni riscontro, essendo pacifico che sul materiale in oggetto non fosse stata mai compiuta alcuna analisi, ma anche escluso da testi qualificati;
– l’ultima censura, infine, concerne il beneficio della sospensione condizionale della pena, concesso a tutti i ricorrenti – a fronte di sanzione pecuniaria – in assenza di qualsivoglia richiesta; ciò che lederebbe gli interessi giuridici degli stessi, nell’ottica di una possibile, futura applicazione dell’istituto nei loro confronti.

CONSIDERATO IN DIRITTO
3. I ricorsi – identici nel contenuto – risultano infondati.
Con riguardo alla prima questione posta, di carattere processuale, osserva il Collegio che nessuna violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. può esser ravvisata nel caso di specie.
L’art. 521 cod. proc. pen. – “Correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza“ – stabilisce che il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa dalla quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza e non risulti attribuito alla cognizione del Tribunale collegiale, anziché monocratico.
Questa facoltà – che risponde all’esigenza, in capo al giudice, di inquadrare la condotta accertata nei suoi più corretti termini giuridici, sì da riconoscere la fattispecie di reato effettivamente riferibile al caso di specie – si deve conformare a due criteri essenziali, connessi in modo indissolubile tra loro ed ulteriori a quelli, di carattere procedurale, riportati nella norma testé citata: l’identità del fatto ritenuto in sentenza rispetto a quello contestato e l’assenza di ogni pregiudizio in punto di esercizio del diritto di difesa rispetto allo stesso.
Il primo elemento si ricava dallo stesso testo dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., se letto alla luce del comma seguente; a mente di quest’ultimo, infatti, il giudice che ritiene che il fatto accertato sia “diverso” da come contestato, deve trasmettere con ordinanza gli atti al pubblico ministero, diversamente dall’ipotesi in cui la diversità attenga soltanto alla qualificazione giuridica dello stesso fatto, nel qual caso – attesa la richiamata lettera del comma 1 – potrà procedere a riqualificazione a mezzo sentenza.
4. Non sempre, però, è agevole comprendere se tale carattere di identità/diversità sussista o meno nel caso concreto, e quale portata debba effettivamente rivestire per consentire l’intervento dell’uno o dell’altro comma della norma in oggetto; ecco, dunque, che la verifica viene interessata anche dal secondo criterio sopra enunciato in ordine alla facoltà di cui all’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., quale l’effettività del diritto di difesa.
5. Al riguardo, occorre richiamare l’orientamento espresso dal supremo Consesso di questa Corte, in forza del quale per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (tra le molte, Sez. U., n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv. 248051). In altri termini, sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di incompatibilità ed eterogeneità, verificandosi un vero e proprio stravolgimento dei termini dell’accusa, a fronte dei quali l’imputato è impossibilitato a difendersi (Sez. 1, n. 28877 del 4/6/2013, Colletti, Rv. 256785); rapporto che dovrà esser verificato alla luce non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione e, quindi, di decisione (Sez. 3, n. 15655 del 27/2/2008, Fontanesi, Rv. 239866). Ne deriva che la nozione strutturale di “fatto” – inteso come episodio della vita umana – va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa (Sez. 1, n. 35574 del 18/3/2013, Crescioli, Rv. 257015), invero non ravvisabili qualora la nuova definizione del reato appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o, comunque, l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine alla stessa (tra le altre, Sez. 6, n. 11956 del 15/2/2017, B., Rv. 269655; Sez. 5, n. 1697 del 25/9/2013, Cavallari, Rv. 258941).
6. Tanto premesso in termini generali, ritiene la Corte che la sentenza impugnata non sia incorsa nella violazione in esame. La condotta contestata ai ricorrenti, infatti, è rimasta invariata nei suoi termini soggettivi (qualifiche ricoperte) ed oggettivi (imputazione di smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi in difetto di autorizzazione, dal dicembre 2014 al febbraio 2015), al pari del titolo di reato ascritto e riconosciuto (art. 256, comma 1, lett. a, d. lgs. n. 152 del 2006), risultando mutata soltanto la qualificazione assegnata al materiale – lo stesso – oggetto dell’imputazione; un mutamento del tutto “neutro”, dunque, che, per un verso, ha costituito uno dei possibili epiloghi del giudizio (pur in questa sede, del resto, i ricorrenti offrono una qualificazione giuridica del bene ancora diversa, con il secondo motivo) e, per altro verso, non ha costituito limite alcuno all’esercizio delle prerogative difensive, quel che i ricorsi lamentano con affermazione meramente apodittica.
7. Del tutto infondata, di seguito, risulta la seconda censura proposta, in punto di travisamento della prova; rileva il Collegio, infatti, che dietro la parvenza della stessa doglianza, in realtà, si cela la richiesta di una nuova e differente lettura delle medesime emergenze istruttorie già esaminate dal Giudice del merito (testimoniali e documentali), e delle quali si domanda in questa sede una alternativa e più favorevole valutazione.
Il che, pacificamente, non è consentito.
8. A ciò si aggiunga, peraltro, che la tematica introdotta con i ricorsi – ossia la possibile riqualificazione del rifiuto de quo come sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis, d. lgs. n. 152 del 2006 – è stata già affrontata dal Tribunale con un argomento congruo e non manifestamente illogico, dunque non censurabile.
In particolare, la sentenza ha dapprima sottolineato che “gli inerti in questione costituiscono residuo di lavorazioni, caduto in fondo al ravaneto ed ivi abbandonato/depositato in modo incontrollato, che non sarebbe mai stato riutilizzato e che, al contrario, il Comune aveva imposto alla ditta di rimuovere, depositare in idoneo spazio e poi smaltire secondo la normativa vigente, una volta stabilizzatosi”. Di seguito, e proprio con riguardo all’invocata qualifica di sottoprodotto, il Tribunale ha sottolineato potersi escludere che gli inerti in oggetto sarebbero stati utilizzati, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi (ai sensi dell’art. 184-bis, comma 1, lett. a, in esame). Un’affermazione, per vero, piuttosto perentoria (sebbene da leggere alla luce della precedente), ma non efficacemente contrastata dal tenore dei ricorsi, fondati su un’evidente ed indimostrata petizione di principio, peraltro di puro fatto: quella secondo la quale la vendita del materiale alla Versiledile s.r.l. ne avrebbe comportato per “certo” (come richiesto dalla lett. a) citata) la riutilizzazione in reinterri, riempimenti e simili, sol perché questo costituirebbe l’oggetto sociale dell’ente medesimo (come riferito da testimoni). Ossia, in forza di una pura presunzione assoluta.
Una tesi, dunque, che “prova troppo”, in assenza di elementi concreti che la difesa avrebbe dovuto allegare per dimostrare – in dibattimento – la sussistenza di tutte le condizioni di cui all’art. 184-bis, comma 1, d. lgs. n. 152 del 2006, al fine di assegnare la qualifica di sottoprodotto a quello specifico bene indicato nell’imputazione.
9. Una tesi, ancora, che non può esser sostenuta neppure dall’ulteriore elemento al riguardo impiegato dai ricorrenti, ossia l’avvenuta vendita del materiale (alla Versiledile) che ex se ne attesterebbe l’invocata qualifica.
Questa Corte, infatti, ha già più volte affermato che la natura di rifiuto, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis sopra citato), invero ravvisabili nel caso di specie, non vien certo perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all’autorità (oppure creato proprio a tal fine), in questo caso sub specie di cessione a titolo oneroso, come se il negozio giuridico riguardasse l’oggetto stesso della produzione e non – come in effetti – proprio un rifiuto. Ciò, peraltro, a prescindere dal “valore” economico o commerciale di questo, specie nell’ottica di chi in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura privatistica; d’altronde, come già sostenuto da questa Corte ((Sez. 3, n. 5442 del 15/12/2016, Zantonello, non massimata; Sez. 3, n. 15447 del 20/1/2015, Napolitano, non massimata), nell’indagine in esame – volta all’accertamento dell’effettiva natura di rifiuto – si deve evitare di porsi nella sola ottica del cessionario del prodotto, e della valenza economica che allo stesso egli attribuisce (sì da esser disposto a pagare per ottenerlo), occorrendo, per contro, verificare “a monte” il rapporto tra il prodotto medesimo ed il suo produttore e, soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del bene.
10. Opinare in termini diversi, al pari dei ricorrenti, comporterebbe dunque la facile creazione di pericolose aree di impunità, nelle quali numerose condotte oggettivamente integranti una fattispecie di reato ben potrebbero esser dissimulate da accordi – dolosamente preordinati – volti a privare il bene di una particolare qualità, ex se rilevante sotto il profilo penale, invero già “a monte” acquisita ed insuscettibile di esser cancellata.
11. Del tutto infondata, di seguito, risulta anche la terza comune censura, in punto di causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. Al riguardo, basti osservare che il Tribunale ha rigettato la relativa istanza in forza di un duplice e congruo argomento di fatto, in questa sede non censurabile: ossia richiamando, per un verso, i rilevanti quantitativi di materiali inerti smaltiti (815,82 tonnellate) e, per altro verso, il pericolo per l’ambiente dagli stessi derivanti, “in particolare per il sottostante corso fluviale, soggetto da tempo a fenomeni di intorbidimento delle acque.” E senza che, in termini contrari, si possa accedere all’esame degli specifici elementi in fatto che sostengono la censura, poiché evidentemente legati al merito dell’istruttoria (come da ampio richiamo testimoniale) ed irricevibili in questa sede.
12. Da ultimo, la sospensione condizionale della pena disposta nei confronti di tutti gli imputati, pur a fronte della sola sanzione pecuniaria; quel che i ricorsi contestano, sul presupposto che il beneficio “si traduce in un pregiudizio, in quanto la concessione dello stesso potrebbe incidere sulla sospensione della pena detentiva agendo la pecuniaria ai sensi degli artt. 163 e 164 cod. pen. nel calcolo della pena complessiva rilevante per la sospensione.”
13. Orbene, il Collegio ritiene di seguire sul punto l’indirizzo attestato da una risalente decisione di questa Corte, nella sua più autorevole composizione, che, componendo un precedente contrasto di giurisprudenza, ha affermato che «la sospensione condizionale non può risolversi in un pregiudizio per l’imputato in termini di compromissione del carattere personalistico e rieducativo della pena; l’interesse all’impugnazione, condizionante l’ammissibilità del ricorso, si configura pertanto tutte le volte in cui il provvedimento di concessione del beneficio sia idoneo a produrre in concreto la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e la sua eliminazione consenta il conseguimento di una situazione giuridica più vantaggiosa. Il pregiudizio addotto dall’interessato, tuttavia, in tanto è rilevante in quanto non attenga a valutazioni meramente soggettive di opportunità e di ordine pratico, ma concerna interessi giuridicamente apprezzabili poiché correlati alla funzione stessa della sospensione condizionale, consistente nella “individualizzazione” della pena e nella sua finalizzazione alla reintegrazione sociale del condannato» (Sez. U, n. 6563 del 16/03/1994, Rusconi, Rv. 197535, la quale, in applicazione del principio, ha escluso che possa assumere rilevanza giuridica la mera opportunità, prospettata dal ricorrente, di riservare il beneficio per eventuali condanne a pene più gravi, perché valutazione di opportunità del tutto soggettiva e per giunta eventuale, e comunque in contraddizione con la prognosi di non reiterazione criminale, e quindi di ravvedimento, imposta dall’art. 164, comma primo, cod. pen. per la concessione del beneficio medesimo. Tra le altre, successivamente, Sez. 3, n. 27171 del 24/5/2019, Turra, non massimata; Sez. 3, n. 27282 del 10/1/2019, Cardani, non massimata,  Sez. 1, n. 43217 del 9/2/2018, Carrielli, Rv. 274410, a mente della quale non assumono rilevanza l’opportunità di riservare il beneficio per eventuali condanne a pene più gravi, né mere valutazioni di convenienza o semplici considerazioni soggettive).
14. Tanto premesso, risulta evidente dal tenore dei ricorsi che la doglianza è qui sollevata proprio in ragione di “valutazioni meramente soggettive di opportunità e di ordine pratico”, ossia “garantirsi” margini per una eventuale, futura applicazione del beneficio, sì da risultare palesemente infondata alla luce delle considerazioni che precedono, qui da ribadire.
14. I ricorsi, pertanto, debbono essere rigettati, ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2019

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