RIFIUTI. Rapporto tra abbandono e titolarità di impresa. Cassazione Penale n. 33410/2023.

Cass. Pen., Sez. III n. 33410 del 31 luglio 2023 (ud. del 13 aprile 2023)

Pres. Ramacci Est. Aceto

Rifiuti. Abbandono e titolarità di impresa. Distinzione tra imprenditore formale e imprenditore di fatto. Art. 256 comma 2 d. lgs. n. 152/2006.

In tema di abbandono di rifiuti, quando la fattispecie incriminatrice fa riferimento alla “titolarità” dell’impresa, non intende riferirsi solo alla persona (formalmente) iscritta nel registro delle imprese, ma anche a chi sia titolare (ed eserciti) attività (di fatto) imprenditoriali, anche se non registrate e sconosciute al Fisco. Sicché, autore della condotta può essere tanto l’imprenditore, quanto colui che eserciti, di fatto, una delle attività indicate dagli artt. 2135 e 2195 cod. civ. Nel primo caso (imprenditore “formale”) è sufficiente, anche a fini di prova, la qualifica di “imprenditore” (indipendentemente dall’attività svolta dall’impresa, non essendo il reato circoscritto ai soli titolari di imprese che svolgono le attività di gestione di rifiuti di cui al comma primo dell’art. 256, comma 2, n. 152 del 2006); nel secondo caso (imprenditore “di fatto”) è necessario l’accertamento della riconducibilità del fatto allo svolgimento di una attività imprenditoriale e comunque non occasionale e posta in essere con un minimo di organizzazione.

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 33410 del 31 luglio 2023 (ud. del 13 aprile 2023)

RITENUTO IN FATTO

1. Il sig. OMISSIS ha proposto appello avverso la sentenza del 28 ottobre 2021 del Tribunale di Roma che lo ha dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 256, commi 1, lett. a), e 2, d.lgs. n. 152 del 2006, e lo ha condannato alla pena di 2.000,00 euro di ammenda.

Articolando due motivi aveva chiesto la propria assoluzione perché il fatto non costituisce reato. In particolare: a) con il primo motivo aveva dedotto, in fatto, l’occasionalità dell’abbandono dei frigoriferi e, in diritto, la riconducibilità del fatto nella fattispecie dell’illecito amministrativo di cui all’art. 255 d.lgs. n. 152 del 2006; b) con il secondo motivo aveva dedotto l’insussistenza della qualifica soggettiva di titolare di impresa o responsabile di ente.

2. Trattandosi di sentenza inappellabile (art. 593, u.c., cod. proc. pen.), la Corte di appello di Roma ha trasmesso gli atti alla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 568, u.c., cod. proc. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile perché, coerentemente con il mezzo di impugnazione (erroneamente) prescelto, le relative deduzioni sono tutte fattuali.

2. Sono noti gli arresti di Sez. U, n. 45371 del 31 ottobre 2001, Bonaventura, Rv. 220221 e della coeva Sez. U, n. 45372 del 31/10/2001, De Palma, n.m. secondo i quali «allorché un provvedimento giurisdizionale sia impugnato dalla parte interessata con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente prescritto, il giudice che riceve l’atto deve limitarsi, a norma dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., a verificare l’oggettiva impugnabilità del provvedimento, nonché l’esistenza di una “voluntas impugnationis“, consistente nell’intento di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale, e quindi trasmettere gli atti, non necessariamente previa adozione di un atto giurisdizionale, al giudice competente» (da ultimo, nello stesso senso, Sez. 5, n. 313 del 20/11/2020, dep. 2021, Bruccoleri, Rv. 280168 – 01; Sez. 3, n. 40381 del 17/05/2019, Dorati, Rv. 276934 – 01; Sez. 6, n. 38253 del 05/06/2018, Rv. 273738). Alla Corte di cassazione, quale giudice competente, in questo caso, a conoscere dell’impugnazione, è riservata ogni valutazione sull’ammissibilità dell’impugnazione stessa, alla luce dei motivi per i quali il ricorso per Cassazione è tassativamente consentito (cfr. sul punto, in motivazione, le sentenze testé citate).

2.1. Secondo un diverso indirizzo, ribadito da Sez. 2, n. 41510 del 26/06/2018, Rv. 274246 e, più recentemente, da Sez. 3, n. 1589 del 14/11/2019, dep. 2020, De Cicco, Rv. 277945 – 01, l’impugnazione proposta con un mezzo di gravame diverso da quello prescritto è inammissibile quando dall’esame dell’atto si tragga la conclusione che la parte abbia effettivamente voluto ed esattamente denominato il mezzo di gravame non consentito dalla legge (nello stesso senso, Sez. 3, n. 21640 del 18/12/2017, Rv. 273149; Sez. 2, n. 47051 del 25/09/2013, Rv. 257481; Sez. 6, n. 7182 del 02/02/2011, Rv. 249452). Tale orientamento affonda le proprie radici nel principio affermato da Sez. U, n. 16 del 26/11/1997, dep. 1998, Nexhi, Rv. 209336, secondo il quale, invece, «il precetto di cui al quinto comma dell’art. 568 cod. proc. pen., secondo cui l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l’ha proposta, deve essere inteso nel senso che solo l’erronea attribuzione del “nomen juris” non può pregiudicare l’ammissibilità di quel mezzo di impugnazione di cui l’interessato, ad onta dell’inesatta “etichetta”, abbia effettivamente inteso avvalersi: ciò significa che il giudice ha il potere-dovere di provvedere all’appropriata qualificazione del gravame, privilegiando rispetto alla formale apparenza la volontà della parte di attivare il rimedio all’uopo predisposto dall’ordinamento giuridico. Ma proprio perché la disposizione indicata è finalizzata alla salvezza e non alla modifica della volontà reale dell’interessato, al giudice non è consentito sostituire il mezzo d’impugnazione effettivamente voluto e propriamente denominato ma inammissibilmente proposto dalla parte, con quello, diverso, che sarebbe stato astrattamente ammissibile: in tale ipotesi, infatti, non può parlarsi di inesatta qualificazione giuridica del gravame, come tale suscettibile di rettifica “ope iudicis“, ma di una infondata pretesa da sanzionare con l’inammissibilità».

2.2. Tale principio è stato espressamente confutato dalle citate sentenze “gemelle” Bonaventura-Di Palma con ampia ed articolata motivazione della quale non ha tenuto conto Sez. 5, n. 8104 del 25/01/2007, Rv. 236521, che nel ribadire il principio affermato dalla Sez. U, Nexhi, non si è confrontata con le opposte ragioni a sostegno del suo superamento (né lo hanno fatto le successive Sez. 3, n. 23651 del 21/05/2008, Rv. 240053, Sez. 5, n. 35442 del 03/07/2009, Rv. 245150, Sez. 2, n. 41510 del 26/06/2018, cit.). In altre pronunce, l’applicazione della Sez. U, Nexhi, ha fatto seguito ad un esame sostanziale e non formale del mezzo di gravame la cui inammissibilità è stata dichiarata per l’insuscettibilità dello stesso ad essere qualificato alla stregua di un ricorso per cassazione. In questi casi, l’effettiva volontà dell’impugnante di proporre appello si è tradotta nella stesura di motivi e richieste del tutto estranei al petitum tipico del ricorso per cassazione, con conseguente inconvertibilità dell’appello (Sez. 6, n. 7182 del 02/02/2011, cit.; Sez. 5, n. 55830 del 08/10/2018, Rv. 274624). In altri casi, invece, il principio è stato applicato in casi nei quali il provvedimento impugnato avrebbe potuto essere appellato, con conseguente restituzione degli atti al giudice dell’impugnazione effettivamente competente e ciò sul rilievo che l’interpretazione della volontà del ricorrente escludeva l’intenzione di proporre ricorso per saltum (Sez. 2, n. 47051 del 25/09/2013, cit.). Peculiare il caso scrutinato da Sez. 3, n. 21640 del 18/12/2017, che nell’esaminare l’ordinanza del tribunale dell’appello cautelare che aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta avverso un provvedimento emesso dal medesimo tribunale in funzione di giudice dell’esecuzione, ne ha sancito la correttezza osservando che «sarebbe stato onere del ricorrente chiarire gli elementi che avrebbero dovuto far ritenere al Tribunale – adito appunto in sede cautelare – che con l’atto dichiarato inammissibile i ricorrenti non avessero voluto effettivamente, ancorché erroneamente, adire precisamente, ancorché in modo sbagliato, il giudice competente, in sede di appello, relativamente ai provvedimenti resi nella fase cautelare del giudizio» aggiungendo che La assenza di elementi in tal senso nonché di argomentazioni atte ad evidenziare che da parte dei ricorrenti non vi era stata la reale intenzione di continuare ad agire attraverso gli strumenti del processo cautelare, giustifica (…) la valutazione, operata col provvedimento ora impugnato, di inammissibilità dei ricorsi anche per ciò che concerne la impugnazione del provvedimento emesso in data 30 maggio 2017 dal Tribunale di Taranto in funzione di Giudice della esecuzione». Spiega al riguardo la sentenza che il principio sulla convertibilità del mezzo di impugnazione erroneamente prescelto (affermato dalle sentenze Bonaventura-Di Palma) «deve essere coniugato con l’indicazione sempre da questa Corte più volte dettata – indicazione che si badi bene non costituisce l’espressione di un orientamento opposto al precedente, in quanto, semmai, ne specifica e delimita, senza contraddirli, i margini di operatività – secondo la quale è inammissibile l’impugnazione proposta con mezzo di gravame diverso da quello prescritto, quando dall’esame dell’atto si tragga la conclusione che la parte impugnante abbia effettivamente voluto esperire ed esattamente definito, secondo la sua volontà, il mezzo di gravame non consentito dalla legge».

2.3. Al di là, dunque, della peculiarità del caso da ultimo scrutinato, non si può affermare che il principio espresso dalle citate SSUU Bonaventura-Di Palma (che il Collegio condivide ed intende ribadire) sia stato realmente messo in discussione al punto da dover sollecitare un nuovo intervento del massimo consesso di questa Corte.

2.4. Del resto, l’applicazione meccanicistica ed automatica del principio affermato dalla Sez. U, Nexhi, comporterebbe, in caso di appello di sentenza inappellabile, alla sistematica disapplicazione del quinto comma dell’art. 568 cod. proc. pen. con conseguenze aberranti ed inaccettabili. Si pensi, per fare degli esempi, all’appello con il quale si censuri la pura e semplice errata applicazione di una norma di legge sostanziale, ovvero la violazione di una norma processuale sanzionata a pena di nullità assoluta ed insanabile o si reiteri l’eccezione di nullità di un atto processuale respinta in primo grado, o ancora si indichino (e magari si alleghino) le prove delle quali si deduce l’inesistenza ovvero l’omessa valutazione (cd. travisamento della prova). Ciò non significa che l’intenzione dell’appellante non debba essere indagata a condizione, però, che l’indagine non si arresti al dato formale del nomen iuris impresso all’atto ma si estenda al suo contenuto, sì che è possibile far leva sull’effettiva volontà di proporre appello quando il mezzo di gravame si collochi del tutto, per petitum e causa petendi, dai casi per i quali è consentito il ricorso per cassazione.

3. Tanto premesso, il ricorso è inammissibile perché presentato per motivi non consentiti dalla legge nella fase di legittimità.

3.1. Ricorda il Collegio che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944 – 01).

3.2. Al di fuori del caso di travisamento della prova (non dedotto nella fattispecie), non è consentito, in sede di legittimità, proporre un’interlocuzione diretta con la Suprema Corte in ordine al contenuto delle prove già ampiamente scrutinate in sede di merito sollecitandone l’esame diretto e proponendole quale criterio di valutazione della illogicità manifesta della motivazione; in questo modo si dà per scontata la possibilità della Corte di cassazione di accedere al fascicolo del dibattimento, di leggerne il contenuto e di maturare una propria convinzione sulla tenuta logica del provvedimento impugnato senza tener conto del modo con cui tali prove sono state valutate dal giudice di merito.

3.3. Orbene, entrambi i motivi sollecitano il riesame, nel merito, della decisione assunta dal Tribunale mediante il non consentito esame delle prove assunte nel corso del dibattimento delle quali l’imputato non deduce il travisamento.

3.4. Dalla lettura della sentenza impugnata risulta che l’imputato era stato colto in piena notte nell’atto di abbandonare sulla pubblica via un frigorifero deprivato del motore che stava scaricando dal proprio furgone all’interno del quale vi erano altri diciassette carcasse di frigoriferi, tutti nelle medesime condizioni. Dall’esame del cellulare in quel momento in possesso del ricorrente, era emerso un messaggio indirizzato ad una persona ignota del seguente tenore: «Vigili, telecamere, cazzo, amico». Risulta, inoltre, che il ricorrente, circa 15 minuti prima di essere colto sul fatto, aveva già scaricato un altro frigorifero (pag. 3 della sentenza). Dagli accertamenti effettuati nell’immediatezza, era emerso che l’imputato non aveva con sé il formulario relativo al trasporto dei rifiuti, non era iscritto all’Albo Nazionale dei gestori ambientali, non era autorizzato al trasporto dei rifiuti.

3.5. Sulla base di questi elementi (dei quali, come detto, non viene dedotto il travisamento e che, dunque, si deve ritenere rappresentino fedelmente quanto riportato dal Giudice nella sentenza), il Tribunale ha ritenuto pienamente provata la responsabilità del ricorrente per il reato di trasporto abusivo e di abbandono di rifiuti non propri commesso con modalità imprenditoriali e certamente non occasionali.

3.6. Che il ricorrente stesse trasportando rifiuti non è (né può esserlo) in contestazione, avendolo egli stesso ammesso; sicché non si comprende perché egli si concentri, con il primo motivo, sul fatto relativo all’abbandono di altre carcasse di frigorifero che la rubrica nemmeno menziona. Quanto alla natura non occasionale dell’attività, il ricorrente rifugge dal pieno confronto con la “ratio decidendi”, non avendo preso in considerazione la messaggistica esaminata dalla polizia giudiziaria che è stata ritenuta dal Tribunale, senza sbavature logiche, manifestazione di un certo modo imprenditoriale (e di certo non occasionale) di procedere.

3.7. Quanto alla necessità che autore del reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, debba essere il titolare di un’impresa (versandosi, altrimenti, nell’ipotesi di cui all’art. 255, d.lgs. n. 152, cit., che costituisce illecito amministrativo), è sufficiente ricordare l’indirizzo assolutamente costante della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, è configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell’esercizio, anche di fatto, di una attività economica, indipendentemente dalla qualifica formale dell’agente o della natura dell’attività medesima (Sez. 3, n. 56275 del 24/10/2017, Marcolini, Rv. 272356 – 01; Sez. 3, n. 30133 del 05/04/2017, Saldutti, Rv. 270323 – 01, che ha ribadito che il reato può essere commesso da qualsiasi impresa avente le caratteristiche di cui all’art. 2082 cod. civ., o di ente, con personalità giuridica o operante di fatto; Sez. 3, n. 19969 del 14/12/2016, dep. 2017, Boldrin, Rv. 269768 – 01; Sez. 3, n. 38364 del 27/06/2013, Beltipo, Rv. 256387 – 01; Sez. 3, n. 22035 del 13/04/2020, Rv. 247626 – 01).

3.8. Non è soltanto la qualifica formale di imprenditore a tracciare il confine tra il reato e l’illecito amministrativo, bensì anche lo svolgimento di fatto di attività sostanzialmente imprenditoriali (nel senso che, anche ai fini civilistici, la sostanza prevale sulla forma, cfr. artt. 2238, comma primo, e 2639 cod. civ.)

3.9. Ne consegue che quando la fattispecie incriminatrice fa riferimento alla “titolarità” dell’impresa, non intende riferirsi solo alla persona (formalmente) iscritta nel registro delle imprese, ma anche a chi sia titolare (ed eserciti) attività (di fatto) imprenditoriali, anche se non registrate e sconosciute al Fisco. Sicché, autore della condotta può essere tanto l’imprenditore, quanto colui che eserciti, di fatto, una delle attività indicate dagli artt. 2135 e 2195 cod. civ. Nel primo caso (imprenditore “formale”) è sufficiente, anche a fini di prova, la qualifica di “imprenditore” (indipendentemente dall’attività svolta dall’impresa, non essendo il reato circoscritto ai soli titolari di imprese che svolgono le attività di gestione di rifiuti di cui al comma primo dell’art. 256, comma 2, n. 152 del 2006; Sez. 3, n. 19969 del 2017, cit.); nel secondo caso (imprenditore “di fatto”) è necessario l’accertamento della riconducibilità del fatto allo svolgimento di una attività imprenditoriale e comunque non occasionale e posta in essere con un minimo di organizzazione.

3.10. Si tratta, in questo secondo caso, di accertamenti di fatto di competenza del giudice di merito non sindacabili in sede di legittimità nei termini proposti dal ricorrente.

4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 13/04/2023.

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