CIRCOLARI INTERPRETATIVE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE O DELLE ASSOCIAZIONI DI CATEGORIA E IGNORANZA SCUSABILE: che natura hanno tali atti? Cassazione Penale n. 44516/2019.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 44516 del 31 ottobre 2019 (ud. del 17 luglio 2019)
Pres. Izzo, Est. Ramacci

Rifiuti. Deposito incontrollato di rifiuti e circolari associazioni di categoria.
Il deposito del rifiuto, essendo caratterizzato da un tempo di attesa prima dell’espletamento di altre attività di gestione, presuppone che durante tale fase sia predisposta ogni necessaria cautela per la salvaguardia della salute e dell’ambiente.

L’ignoranza, da parte dell’agente, sulla normativa di settore e sull’illiceità della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza della colpa se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della pubblica amministrazione, ovvero ad una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria o ad una equivoca formulazione del testo della norma. Tali principi sono stati affermati anche con riferimento specifico alla gestione di rifiuti.

[…] in linea generale, la natura di atto interno alla pubblica amministrazione della circolare interpretativa, la quale si risolve in un mero ausilio e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari poiché non può comunque porsi in contrasto con l’evidenza del dato normativo. Tali principi devono ribadirsi, a maggior ragione, per ciò che concerne le “circolari” diffuse da una associazione di categoria, mero soggetto privato, peraltro volto unicamente a rappresentare e tutelare gli interessi degli appartenenti.

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 44516 del 31 ottobre 2019 (ud. del 17 luglio 2019)

RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Lagonegro, con sentenza del 14 febbraio 2018 ha affermato la responsabilità penale di Costanzo JANNOTTI PECCI, che ha condannato alla pena dell’ammenda, in ordine al reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. 152/2006, perché, quale legale rappresentante della società “Terme Lucane S. r. l.”, realizzava, su un’area ubicata all’interno del centro termale sito in Contrada Calda del comune di Latronico, avente una superficie di circa 60 metri quadrati e priva di qualsivoglia copertura e sistema di regimentazione delle acque meteoriche, un deposito incontrollato di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da teli di plastica e fanghi utilizzati nelle applicazioni di fangoterapia (CER 160304), non inviandoli a smaltimento nei limiti di tempo e quantitativi previsti dall’art. 183, comma 1, lett. bb), del d. lgs. 152/2006 (accertato il Latronico, il 24 settembre 2013).
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, lamentando che la sentenza avrebbe erroneamente enfatizzato, con riferimento alla condotta attribuita all’imputato, la mancanza di titoli abilitativi, i quali sono riferibili ai reati di cui al primo e terzo comma dell’art. 256 d. lgs. 152/2006 e non anche a quello oggetto di contestazione, sanzionato dal comma 2 del medesimo articolo, rispetto al quale sarebbe del tutto ininfluente l’esistenza o meno delle autorizzazioni o delle iscrizioni richieste per le attività di gestione
Aggiunge che il giudice avrebbe considerato l’illiceità della condotta evidenziando il superamento del termine annuale per lo smaltimento dei rifiuti risultante dagli atti e, dunque, non ignorando che in precedenza l’accantonamento dei rifiuti in assenza di titolo abilitativo avveniva in maniera perfettamente lecita, perché eseguito nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 183 d. lgs.  152/2006 sul deposito temporaneo, situazione che si assume incompatibile con il deposito incontrollato e l’abbandono, i quali presupporrebbero la collocazione dei rifiuti in area diversa dal luogo di produzione, circostanza non verificatasi nella fattispecie, in quanto i rifiuti risultavano presenti in un’area interna al complesso termale.
Aggiunge, poi, che la sentenza sarebbe illogica perché si sofferma sulla classificazione del rifiuto equivocando sulle reali finalità delle deduzioni difensive, con le quali, riferendosi alla qualificazione del rifiuto come urbano, non si intendeva escluderne la natura di rifiuto speciale non pericoloso, come invece affermato dal Tribunale, bensì soltanto individuare nell’amministrazione comunale il soggetto responsabile della mancata raccolta.
3. Con il secondo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione, osservando che il Tribunale avrebbe effettuato una qualificazione incerta della condotta attribuita all’imputato, riferendosi al reato di abbandono ed al deposito temporaneo incontrollato dei rifiuti nonostante la evidente differenza sotto il profilo dell’elemento soggettivo del reato, in quanto la volontà che sottende l’abbandono è sostanzialmente diretta a disfarsi e disinteressarsi completamente della cosa, mentre nel deposito incontrollato si presuppone la previsione di una successiva fase di gestione dei rifiuti, sia essa di recupero e di smaltimento, della quale costituisce il prodromo, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità ed osserva che tale distinzione sarebbe di interesse per l’imputato per quanto concerne il momento consumativo del reato, rispetto al quale sussisterebbe un contrasto giurisprudenziale, in quanto incidente sulla decorrenza del termine di prescrizione del reato.
4. Con un terzo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione con riferimento alla attribuzione soggettiva del reato all’imputato, in considerazione della mancanza di coerenza tra condotta contestata nell’imputazione e motivazione della sentenza, riferendosi la prima al non avere inviato a smaltimento i rifiuti nei limiti temporali previsti per il deposito temporaneo ed avendo invece il giudice addebitato all’imputato la condotta di mero deposito.
Aggiunge che il Tribunale, pur dando conto delle dichiarazioni del teste escusso, il quale si riferiva alle attività di smaltimento dei rifiuti al plurale, non avrebbe tenuto conto che, anche sulla base di quanto affermato dal teste, sarebbe risultato difficile ipotizzare che la condotta posta in essere fosse attribuibile esclusivamente all’imputato, sussistendo dunque per il giudice l’obbligo di specificare se questi fosse responsabile a titolo di dolo diretto o per culpa in vigilando.
5. Con il quarto motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione, lamentando che il giudice avrebbe omesso di considerare la sussistenza della causa di esclusione della responsabilità quale conseguenza dell’ ignoranza inevitabile della legge penale, dimostrata dalla difesa sulla base dei contenuti di una circolare emanata dalla Federazione Italiana delle Industrie Termali, associata a Confindustria ed unica associazione rappresentativa della categoria, ove vengono fornite indicazioni sulle modalità di smaltimento dei rifiuti ed, in particolare, sulla possibilità di conferirli al comune seguendo le modalità di raccolta differenziata, con la conseguenza che l’imputato non aveva provveduto direttamente allo smaltimento dei rifiuti nelle erroneo convincimento, legittimamente formatosi, che si trattasse di compito demandato all’amministrazione comunale.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Va premesso che l’articolato ricorso, pur contenendo pertinenti riferimenti alla disciplina di settore ed alla giurisprudenza di questa Corte, è strutturato mediante il discutibile ed abusato sistema di estrapolare dalla sentenza impugnata singoli brani della motivazione rispetto ai quali articolare le relative censure, così distorcendo o, comunque, privando della reale pregnanza il complessivo iter logico argomentativo seguito dal giudice, che, al contrario, deve essere globalmente considerato.
3. Nel caso specifico, ad avviso del Collegio, la motivazione della sentenza appare lineare e giuridicamente corretta.
A fronte del dato fattuale del rinvenimento, da parte della polizia giudiziaria, all’interno dello stabilimento termale gestito dalla società di cui il ricorrente è legale rappresentante, dei rifiuti descritti nell’imputazione e considerando il contenuto della stessa, che espressamente richiama l’art. 256, comma 2 d. lgs. 152/06 ed il deposito incontrollato conseguente al mancato smaltimento dei rifiuti nei tempi e quantità previste per il deposito temporaneo, il giudice, dopo aver puntualmente dato conto delle risultanze dell’istruzione dibattimentale, ha spiegato, in maniera articolata, le ragioni per le quali la condotta posta in essere dall’imputato non potesse comunque considerarsi lecita.
Nel fare ciò, il giudice del merito ha sviluppato un complessivo ragionamento attraverso il quale, tenuto conto anche di quanto sostenuto dalla difesa nel corso del giudizio, spiega le ragioni del proprio convincimento.
4. Su tale percorso argomentativo si concentra il primo motivo di ricorso che, al netto dei richiami normativi e giurisprudenziali, si sostanzia in una serie di affermazioni le quali, come si è detto, parcellizzando la motivazione, ne stravolgono il significato.
Invero, di nessun rilievo appare il censurato richiamo all’assenza di titoli abilitativi da parte del Tribunale, perché il riferimento riguarda chiaramente, nella generale descrizione della situazione riscontrata, il fatto che la presenza dei rifiuti nel posto ove erano stati rinvenuti dalla polizia giudiziaria non era, in primo luogo, autorizzata, eventualità che ben avrebbe potuto configurarsi in caso di deposito preliminare o messa in riserva, rientranti tra le attività di gestione, essendo il primo propedeutico allo smaltimento e la seconda al recupero, le quali, se effettuate in assenza di titolo abilitativo, andavano qualificate come illecita gestione di cui all’art. 256, comma 1 d. lgs. 152/2006.
Ne è prova il fatto che l’affermazione enfatizzata in ricorso è preceduta, in sentenza, dalla sommaria disamina delle disposizioni che regolano la gestione dei rifiuti e le relative sanzioni in caso di inosservanza e ad essa segue la consequenziale deduzione che il deposito di rifiuti non era in alcun modo correlato ad attività lecite o illecite di gestione, escludendo poi, proseguendo nel coerente e corretto ragionamento, la configurabilità, nel caso di specie, di un deposito temporaneo.
Si tratta, in quest’ultimo caso, come è noto, di un’attività che non rientra nelle fasi di gestione ma che è lecita se effettuata nel rispetto delle condizioni dettate dall’art. 183, lett. bb) d. lgs. 152/06.
In particolare, il deposito temporaneo è descritto, nella richiamata disposizione, come il raggruppamento dei rifiuti e il deposito preliminare alla raccolta ai fini del trasporto di detti rifiuti in un impianto di trattamento, effettuati, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti (intendendosi come tale l’intera area in cui si svolge l’attività che ha determinato la produzione dei rifiuti o, per gli imprenditori agricoli di cui all’art. 2135 cod. civ., presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci) a determinate condizioni dettagliatamente specificate:
– i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di cui al regolamento (CE) 850/2004, e successive modificazioni, devono essere depositati nel rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l’imballaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e gestiti conformemente al suddetto regolamento;
– i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti: con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il predetto limite all’anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno;
– deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute;
– devono essere rispettate le norme che disciplinano l’imballaggio e l’etichettatura delle sostanze pericolose.
Inoltre, per alcune categorie di rifiuto, individuate con decreto del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministero per lo sviluppo economico, è previsto siano specificamente fissate le modalità di gestione del deposito temporaneo.
Ne consegue che la figura del deposito incontrollato è del tutto autonoma rispetto alle altre attività appena descritte, la sussistenza delle quali il giudice del merito ha preliminarmente escluso.
5. Risulta inoltre del tutto irrilevante la ulteriore affermazione secondo cui il giudice avrebbe errato nel trattare della qualificazione del rifiuto, perché il senso del rilievo difensivo riguardava l’individuazione del soggetto tenuto allo smaltimento del rifiuto, individuato nell’amministrazione comunale.
Invero, non soltanto la corretta classificazione del rifiuto è necessaria per la adeguata qualificazione giuridica della condotta e l’individuazione della relativa sanzione, ma, in ogni caso, la circostanza che i rifiuti, in ragione della loro caratteristiche, potessero essere smaltiti mediante raccolta differenziata operata dall’ente locale, non incide sulla illiceità della condotta antecedente all’eventuale conferimento, non dipendendo certo le modalità di deposito del rifiuto dal soggetto terzo che ne effettua la raccolta.
In altre parole, non può certo affermarsi che la responsabilità per il mantenimento dei rifiuti all’interno del complesso termale nelle condizioni e con le modalità accertate dalla polizia giudiziaria nel caso di specie possa attribuirsi a chi avrebbe avuto esclusivamente il compito di raccoglierli.
6. Anche il secondo motivo di ricorso è caratterizzato dalla medesima tecnica espositiva e non coglie anch’esso nel segno.
Anche in questo caso il riferimento alle espressioni utilizzate in sentenza è strumentale alla deduzione di un vizio di motivazione in realtà insussistente, atteso che, se letto all’interno del più complesso impianto argomentativo sviluppato in sentenza, il richiamo al “reato di abbandono o deposito incontrollato non autorizzato di rifiuti non pericolosi ai sensi dell’art. 256, comma 2, punito ai sensi del comma 1, lett. a) d. lgs. 152/2006” che si ritiene integrato dalla condotta contestata altro non è se non un mero riferimento alla disposizione di cui si tratta, senza alcuna finalità particolare.
Ne risulta peraltro consapevole il ricorrente, il quale giustifica la censura asserendo che la distinzione sarebbe di suo interesse perché comporterebbe una diversa collocazione temporale del termine di prescrizione.
7. Si tratta, in primo luogo, di questione del tutto teorica, che non è stata prospettata al giudice del merito, in quanto, considerate anche le plurime sospensioni, il termine massimo di prescrizione non era comunque spirato.
In secondo luogo, va rilevato che sulla questione della natura istantanea o permanente della violazione in esame si rinvengono indirizzi interpretativi non univoci, ripetutamente analizzati anche dalla dottrina, che pare opportuno prendere comunque in considerazione.
8. Si è, in sintesi, sostenuto, in alcuni casi, che il reato di deposito incontrollato ha natura permanente se l’attività illecita è prodromica al successivo recupero o smaltimento delle cose abbandonate e, quindi, la condotta cessa soltanto con il compimento delle fasi ulteriori rispetto a quella del rilascio,  mentre l’abbandono, propriamente detto, ha natura istantanea con effetti eventualmente permanenti se l’attività illecita si connota per una volontà esclusivamente dismissiva dei rifiuti, che, per la sua episodicità, esaurisce gli effetti della condotta fin dal momento dell’abbandono e non presuppone una successiva attività gestoria volta al recupero o allo smaltimento (v. Sez. 3, n. 6999 del 22/11/2017 (dep. 2018), Paglia, Rv. 272632; Sez. 3, n. 18880 del 29/9/2017 (dep. 2018), Scarabottini, non massimata;  Sez. 3, n. 7386 del 19/11/2014 (dep.2015), Cusini e altro, Rv. 262410; Sez. 3, n. 30910 del 10/6/2014, Ottonello, Rv. 260011; Sez. 3, n. 48489 del 13/11/2013, Fumuso, Rv. 258519; Sez. 3, n. 25216 del 26/05/2011, Caggiano, Rv. 250969).
In altre occasioni si è invece ritenuta la natura di reato istantaneo, eventualmente con effetti permanenti (v. Sez. 3, n. 38662 del 20/05/2014, Convertino, Rv. 260380; Sez. 3, n. 42343 del 09/07/2013, Pinto Vraca, Rv. 258313; Sez. 3, n. 40850 del 21/10/2010, Gramegna e altro, Rv. 248706; Sez. 3, n. 6098 del 19/12/2007 (2008), Sarra e altro, Rv. 238828).
Va a tale proposito rilevato come, ad avviso del Collegio, la questione afferente l’individuazione del momento consumativo del reato di deposito incontrollato non consente di qualificarlo in astratto come istantaneo o permanente, optando, conseguentemente, per una delle soluzioni prospettate, dovendosi avere riguardo, piuttosto, alla condotta concretamente posta in essere, prescindendo quindi da una rigida catalogazione.
Occorre anche precisare che, in mancanza di una definizione normativa, il deposito incontrollato può qualificarsi escludendone la collocazione, come accennato in precedenza, nelle diverse ipotesi  lecite di deposito (deposito preliminare, deposito temporaneo e messa in riserva) e distinguendolo  dalle altre condotte descritte nell’art. 256, comma 2 d.lgs. 152/2006 (abbandono e immissione in acque superficiali o sotterranee).
Delle differenze rispetto alle ipotesi lecite di deposito si è già accennato in precedenza, osservando come il deposito preliminare e la messa in riserva preludano, rispettivamente, allo smaltimento ed al recupero, rientranti tra le attività di gestione autonomamente sanzionate dall’art. 256 se effettuate in assenza di titolo abilitativo o non rispettandone le prescrizioni, mentre il deposito temporaneo, avente specifiche finalità, è consentito nel rispetto di tutte le condizioni stabilite dall’art. 183, lett. bb).
L’abbandono, si è affermato nel distinguerlo dalla discarica abusiva, è invece caratterizzato dalla “mera occasionalità” desumibile da elementi sintomatici quali le modalità della condotta (ad es. la sua estemporaneità o il mero collocamento dei rifiuti in un determinato luogo in assenza di attività prodromiche o successive al conferimento), la quantità di rifiuti abbandonata, l’unicità della condotta di abbandono. Ciò in quanto la discarica richiede una condotta abituale, come nel caso di plurimi conferimenti, ovvero un’unica azione ma strutturata, anche se in modo grossolano e chiaramente finalizzata alla definitiva collocazione dei rifiuti in loco (così, da ultimo, Sez. 3, n. 18399 del 16/03/2017, P.M. in proc. Cotto, Rv. 269914)
L’immissione è stata invece definita dalla dottrina, in epoca non recente, come il rilascio episodico di rifiuti (solidi o liquidi) in acque superficiali e sotterranee.
Elemento distintivo specifico dell’immissione è il luogo di destinazione del rifiuto e le caratteristiche tipiche dell’azione dell’immetterlo nelle acque superficiali (che si differenzia, a sua volta, dallo scarico come definito nella Parte Terza del d. lgs. 152/2006, che però qui non rileva) e che ne evidenzia la occasionalità, comune, quindi all’abbandono.
Fatte tali premesse, deve necessariamente ritenersi che il deposito incontrollato presuppone una condotta che in qualche modo si distingue dalle altre due, segnatamente, dall’abbandono e, stante la sua particolarità, dalla immissione di cui si è appena detto, poiché altrimenti la menzione da parte del legislatore sarebbe inutile, dovendosi anche escludere che la stessa sia effettuata per mere finalità esemplificative, in considerazione del fatto che il termine utilizzato implica una condotta specifica.
Deve poi osservarsi che tale elemento distintivo non può essere rinvenuto nell’episodicità della condotta e nella quantità, necessariamente contenuta, di rifiuti che esso ha in comune con l’abbandono e che consente di contraddistinguere entrambi rispetto ad altre condotte tipiche individuate dalla disciplina di settore.
Ciò che invece sembra caratterizzare il deposito incontrollato è la condotta tipica individuabile sulla base del significato letterale del termine “deposito” nello specifico contesto, ossia la collocazione non definitiva dei rifiuti in un determinato luogo in previsione di una successiva fase di gestione del rifiuto, del quale quindi costituisce il prodromo, poiché altre finalità sembra possano condurre tutte alla collocazione entro diverse fattispecie.
Ragionando in questi termini, può rinvenirsi una prima soluzione, utilizzabile in tutti i casi in cui, in concreto, sia mancata la successiva fase di gestione di cui si è detto e la collocazione del rifiuto ed altri dati oggettivi siano indicativi della mera volontà di liberarsene definitivamente. Il disinteresse del detentore del rifiuto dopo la collocazione nel luogo in cui lo stesso viene rinvenuto determina una sostanziale coincidenza con la condotta tipica di abbandono, che si esaurisce nel momento stesso del rilascio.
Si tratta, in questo caso, di una soluzione già adottata in precedenza dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 18880 del 29/9/2017 (dep. 2018), Scarabottini, cit.; Sez. 3, n. 46590 del 10/11/2015, Madesani, non massimata; Sez. 3, n. 30910 del 10/06/2014 – dep. 15/07/2014, Ottonello, Rv. 260011).
Anche la dottrina è pervenuta a conclusioni analoghe, sul presupposto che sia necessario stabilire se  il rifiuto sia stato effettivamente rimosso per essere smaltito o recuperato dopo un certo tempo di attesa definito “ragionevole”, poiché, in difetto, si verserebbe in ipotesi di abbandono con conseguente decorrenza del termine di prescrizione del reato dal momento in cui è avvenuto il rilascio dei rifiuti.
La astratta individuazione delle modalità di verifica della effettiva consistenza della condotta e della sua collocazione al fine di individuare il momento consumativo del reato presenta, tuttavia, alcune criticità, perché prevedere la necessità di dimostrare l’esistenza di una successiva attività di gestione per ritenere configurato il deposito consentirebbe di collocare la data di consumazione del reato al momento del rilascio del rifiuto anche nel caso in cui tale attività sia stata prevista ma non ancora effettuata, ovvero non sia possibile dimostrarne l’esistenza, mentre il riferimento ad un tempo di attesa “ragionevole” risulta estremamente vago e difficilmente individuabile.
Sembra dunque che la verifica del caso concreto, sulla base di dati fattuali certi offra maggiori possibilità di individuare con maggiore sicurezza i casi in cui una determinata condotta possa qualificarsi come abbandono, conseguentemente collocando la condotta al momento del rilascio del rifiuto.
Nel caso preso in esame nella sentenza Madesani, in precedenza citata, ad esempio, è stata esclusa ogni rilevanza, ai fini della individuazione del termine iniziale di decorrenza della prescrizione, dello smaltimento a mezzo ditta autorizzata effettuato dall’imputato dopo il controllo da parte della polizia giudiziaria, ritenendolo, verosimilmente, una diretta conseguenza di quello, valorizzando invece quanto riferito in sentenza circa le condizioni in cui i contenitori dei rifiuti erano stati rinvenuti dagli operanti, descritti come lacerati dalla prolungata esposizione agli agenti atmosferici, ritenuti sintomo evidente di una condotta tipica di abbandono, caratterizzata dal mero disinteresse del detentore del rifiuti dopo la collocazione nel luogo in cui gli stessi vennero poi ritrovati, secondo quanto ritenuto in fatto dai giudici del merito, sei anni dopo.
Resta però il problema dei casi diversi da quelli meramente coincidenti con l’abbandono.
In dottrina si è ritenuto, premesso il riferimento al “ragionevole tempo di attesa” di cui si è detto, che la successiva rimozione dei rifiuti ai fini del successivo smaltimento o recupero potrebbe configurare l’illecita gestione se non autorizzata e non caratterizzata da assoluta occasionalità, costituendo in tal caso il deposito incontrollato un mero antecedente privo di autonomo rilievo penale, restando  tale condotta assorbita in quella successiva, come avviene, ad esempio, in materia di sostanze stupefacenti.
Tale soluzione, decisamente suggestiva, non convince.
Le finalità delle disposizioni in esame, è appena il caso di ricordarlo, è quella di far sì che l’attività di gestione dei rifiuti venga effettuata assicurando la tutela della salute umana e l’integrità dell’ambiente ed è evidente che tali obiettivi si è inteso perseguirli anche con le disposizioni che riguardando l’abbandono e le altre condotte di cui si è detto.
Il deposito del rifiuto, essendo caratterizzato da un tempo di attesa prima dell’espletamento di altre attività di gestione, presuppone che durante tale fase sia predisposta ogni necessaria cautela per la salvaguardia della salute e dell’ambiente.
Si tratta di un concetto ovvio se riferito alle ipotesi di deposito lecito e non si vede per quale ragione  esso non possa essere utilizzato anche riguardo al deposito incontrollato, che si caratterizza, ad avviso del Collegio, proprio per le modalità con le quali viene effettuato, dunque senza alcuna cautela.
Si versa, in tali ipotesi, in un caso in cui il detentore del rifiuto pur non abbandonandolo nel senso dianzi individuato, ne mantiene la detenzione con modalità estranee a quelle conformi a legge, potenzialmente pericolose.
Si tratta, in questo caso, di una condotta che finché perdura incide negativamente sul bene giuridico protetto dalla disposizione che la vieta.
Accedendo peraltro alla diversa tesi dell’assorbimento nella successiva attività di gestione, il deposito incontrollato potrebbe essere effettuato con qualsiasi modalità, ancorché rischiosa, ma senza alcuna conseguenza se ad esso segue una fase di gestione conforme a legge.
Va infine considerato che, per le ragioni illustrate in precedenza, le quali consentono di individuare i casi in cui il deposito incontrollato si risolve in un abbandono e quelli riconducibili ad altre fattispecie specifiche, le ipotesi di condotta permanente restano del tutto residuali e l’apprezzamento del giudice effettuato nel caso concreto sulla base di dati obiettivi consente, se adeguatamente motivato, di pervenire ad una corretta soluzione.
I termini della questione non mutano per ciò che concerne il deposito temporaneo irregolare, dovendosi a tale proposito richiamare l’orientamento consolidato secondo cui, in difetto anche di uno dei requisiti normativi, il deposito temporaneo non può ritenersi tale, ma deve essere qualificato, a seconda dei casi, come “deposito preliminare” se il collocamento di rifiuti è prodromico ad un’operazione di smaltimento, come “messa in riserva” se il materiale è in attesa di un’operazione di recupero, come “abbandono” quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero o come “discarica abusiva” nell’ipotesi di abbandono reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi (così, da ultimo, Sez. 3, n. 38676 del 20/5/2014, Rodolfi, Rv. 260384), dovendosi, anche in questo caso, determinare il momento consumativo con riferimento alle condotte accertate in concreto.
Tornando al caso in esame, il giudice del merito ha correttamente individuato i termini in cui la condotta è stata posta in essere, collocando l’ultimo conferimento dei rifiuti al 20/06/2012 e considerando la data dell’accertamento, dando peraltro atto che i rifiuti erano sistemati in apposita area delimitata, ancorché esposti agli agenti atmosferici e senza un sistema di regimentazione delle acque, dunque chiaramente in vista del successivo smaltimento, come peraltro emerge dai motivi di ricorso.
Nel consegue che, all’atto dell’accertamento, la condotta illecita era ancora in essere.
9. Alla luce delle precedenti considerazioni anche il terzo motivo di ricorso risulta infondato quanto alla censura sulla qualificazione della condotta, mentre, per ciò che concerne la responsabilità del ricorrente, il Tribunale ha chiaramente evidenziato come egli fosse il legale rappresentante della società che aveva in gestione lo stabilimento termale.
Il ricorso non pone in evidenza alcun dato significativo riscontrabile che consenta di ritenere che la gestione dei rifiuti fosse delegata ad altri soggetti, limitandosi sostanzialmente ad ipotizzare soltanto che l’uso del plurale utilizzato in sentenza riferendosi alle dichiarazione del teste escusso era indicativo della possibilità che altri soggetti provvedessero a tali incombenti.
10. Anche il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato, in primo luogo perché, come si è già avuto modo di precisare in precedenza, il fatto che i rifiuti potessero essere conferiti mediante raccolta differenziata effettuata dall’amministrazione comunale non solleva comunque il detentore dagli obblighi che preludono a tale conferimento.
11. Quanto alla dedotta ignoranza inevitabile della legge penale che escluderebbe la colpevolezza dell’imputato, occorre ricordare che, per quanto riguarda, in particolare, la corretta applicazione dell’art. 5 cod. pen., non può che richiamarsi quanto affermato, a seguito della ben nota sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, dall’altrettanto nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo la quale “per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto“(Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994, P.G. in proc. Calzetta, Rv. 197885)
Successivamente si è precisato che l’inevitabilità dell’errore sulla legge penale non si configura quando l’agente svolge una attività in uno specifico settore rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente (Sez. 5, n. 22205 del 26/2/2008, Ciccone, Rv. 240440; Sez. 3, n. 1797 del 16/1/1996, Lombardi, Rv. 205384. V. anche Sez. 3, n. 11045 del 18/2/2015, De Santis e altro, Rv. 263288 che le richiama) e che l’ignoranza, da parte dell’agente, sulla normativa di settore e sull’illiceità della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza della colpa se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della pubblica amministrazione (Sez. 3, n. 35314 del 20/5/2016, P.M. in proc. Oggero, Rv. 268000; Sez. 1, n. 47712 del 15/7/2015, Basile, Rv. 265424; Sez. 3, n. 42021 del 18/7/2014, Paris, Rv. 260657; Sez. 3, n. 35694 del 5/4/2011, Pavanati, Rv. 251225; Sez. 4, n. 32069 del 15/7/2010, P.M. in proc. Albuzza e altri, Rv. 248339), ovvero ad una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria o ad una equivoca formulazione del testo della norma (Sez. 3, n. 29080 del 19/3/2015, P.M. in proc. Palau, Rv. 264184).
Tali principi sono stati affermati anche con riferimento specifico alla gestione di rifiuti (v. Sez. 3, n. 35314 del 20/5/2016, P.M. in proc. Oggero, Rv. 268000, cit.;  Sez. 3, n. 42021 del 18/7/2014, Paris, Rv. 260657, cit.; Sez. 3, n. 11497 del 15/12/2010 (dep. 2011), Carobbio, Rv. 249772; Sez. 3, n. 45342 del 19/10/2011, Mastrangelo, Rv. 251337; Sez. 3, n. 49910 del 4/11/2009, Cangialosi e altri, Rv. 245863; Sez. 3, n. 5872 del 19/4/1994, P.M. in proc. Del Monte, Rv. 197830; Sez. 3, n. 10958 del 30/9/1992, Rigamonti, Rv. 192195; Sez. 3, n. 8429 del 5/7/1991, Jeanmonod, Rv. 188794 ed altre prec. conf.).
12. Resta da osservare, con riferimento alla circolare menzionata in ricorso, che questa Corte ha già avuto modo di evidenziare, in linea generale, la natura di atto interno alla pubblica amministrazione della circolare interpretativa, la quale si risolve in un mero ausilio e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari poiché non può comunque porsi in contrasto con l’evidenza del dato normativo (v. Sez. 3, n. 6619 del 7/2/2012, Zampano, Rv. 252541; Sez. 3, n. 19330 del 27/4/2011, Santoriello, non massimata, con riferimento alla circolare ministeriale n. 2699 del 7 dicembre 2005 in materia di condono edilizio; Sez. U, n. 10424 del 18/1/2018 , Del Fabro, non massimata sul punto in tema di contributi previdenziali).
Tali principi devono ribadirsi, a maggior ragione, per ciò che concerne le “circolari” diffuse da una associazione di categoria, mero soggetto privato, peraltro volto unicamente a rappresentare e tutelare gli interessi degli appartenenti.
13. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità  consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in data 17 luglio 2019.

Scarica in pdf il testo della sentenza: cass. pen., sez. 3, sent. n. 44516-2019