RIFIUTI. La nozione di “prescrizione” richiamata nelle autorizzazioni ex art. 256 comma 4 d. lgs. n. 152/2006. Cassazione Penale, n. 6364/2019.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 6364 del’11 febbraio 2019 (ud. del 30 ottobre 2018)

Pres. Sarno, Est. Andreazza

Le “prescrizioni” contenute o richiamate nelle autorizzazioni di cui all’art. 256, comma 4, del d. lgs. cit. sono tali non già, esclusivamente, per la denominazione espressa in tal senso loro attribuita dal provvedimento autorizzativo ma, ancor prima, ed indipendentemente da ogni possibile intitolazione, per il contenuto essenzialmente precettivo che le contraddistingue, in necessaria connessione con le finalità ed i limiti dell’autorizzazione rilasciata.

 

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 6364 del’11 febbraio 2019 (ud. del 30 ottobre 2018)

RITENUTO IN FATTO
1. Crippa Virgilio, Mottadelli Yuri e Mottadelli Pietro hanno proposto ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Monza in data 15/11/2017 di condanna per i reati di cui agli artt. 110 cod. pen. e 256, comma 4, in relazione al comma 2, del d. lgs. n. 152 del 2006 perché, in concorso tra loro, Mottadelli Yuri nella qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione, Mottadelli Pietro e Crippa Virgilio, nella qualità di consiglieri e soci proprietari della “Crimo” S.r.l., non osservavano, nell’ambito di attività di recupero e smaltimento di veicoli fuori uso, le prescrizioni contenute o richiamate nelle Disposizioni Dirigenziali della Provincia di Milano specificamente relative alle modalità di utilizzo delle scaffalature Cantiliver e al rispetto delle aree di deposito dei rifiuti indicate nella planimetria dell’impianto.
2. Con un primo motivo lamentano la  nullità dell’ordinanza del 01/12/2016 e della sentenza per erronea applicazione dell’art. 552 cod. proc. pen. (non sanate stanti le irrituali precisazioni apportate dal P.M. in udienza), conseguenti alla nullità della citazione diretta a giudizio per indeterminatezza del capo di imputazione. Deducono che, all’udienza del 17/11/2016, venne sollevata eccezione preliminare di nullità del capo di imputazione per indeterminatezza dello stesso sia con riguardo alla norma violata, indicata nel solo comma 4 dell’art. 256 del d. lgs. n. 152 del 2006 senza alcun riferimento ad alcuna delle plurime ipotesi di cui ai capi precedenti, sia con riguardo alla condotta, non essendo specificato se si facesse riferimento a rifiuti pericolosi o non pericolosi, nonché con riguardo alla indicazione delle prescrizioni non osservate (essendosi richiamati i punti 1.2 e 1.3 dell’allegato A dell’autorizzazione provinciale) venendo chiesto che gli atti fossero restituiti al P.M.; tuttavia il Tribunale, con ordinanza del 01/12/2016, considerate fondate le doglianze difensive, aveva sollecitato il P.M. ad integrare il capo di imputazione nella parte relativa all’esatta descrizione della condotta ascritta agli imputati mentre, alla stregua dell’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, avrebbe dovuto dichiarare la nullità del decreto di citazione a giudizio dal momento che alla fase dibattimentale non sarebbe estensibile il meccanismo correttivo che consente al giudice dell’udienza preliminare di sollecitare il P.M. a procedere alle opportune precisazioni e integrazioni.
3. Con un secondo motivo lamentano nullità della citazione diretta a giudizio per indeterminatezza del capo di imputazione, così come integrato dal P.M. all’udienza del 01/12/2016, e conseguente nullità dell’impugnata sentenza.
Deducono infatti che l’indeterminatezza del capo di imputazione non sarebbe stata sanata dalle precisazioni operate dal P.M. alla medesima udienza; in particolare il Tribunale avrebbe errato nel non rilevare che, nonostante le integrazioni operate, l’indeterminatezza del capo di imputazione sarebbe rimasta invariata dal momento che : il richiamo all’ipotesi di deposito incontrollato di rifiuti mediante l’aggiunta del riferimento al comma 2 avrebbe potuto coinvolgere solo uno degli addebiti contestati (mancato rispetto delle aree di deposito) e non gli altri due (mancanza delle scaffalature tipo Cantilever e mancanza dell’impianto di triturazione); avrebbe continuato a non essere individuata la tipologia in concreto dell’oggetto materiale della condotta (se cioè rifiuti pericolosi ovvero non pericolosi); avrebbero poi continuato a non essere indicate le prescrizioni in ipotesi violate; né l’aggiunta della precedente autorizzazione ha potuto chiarire alcunché, posto che la stessa era già richiamata dalla D.D. n. 130 del 2009.
4. Con un terzo motivo lamentano nullità della sentenza per erronea applicazione dell’art. 256, comma 4, del d. lgs. 152 del 2006 in relazione all’art. 208 e alle prescrizioni in concreto imposte con l’autorizzazione provinciale alla Crimo s.r.l.. Deducono in particolare che, poiché il comma 4 dell’art. 256 cit. punisce l’inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, a queste ultime soltanto, strettamente intese, deve farsi riferimento al fine di delimitare l’area entro cui un comportamento inosservante possa essere anche penalmente illecito. Al contrario, secondo il Tribunale, al di là della espressa denominazione utilizzata, al fine di individuare le prescrizioni del provvedimento la cui omissione sarebbe penalmente sanzionabile, sarebbe rilevante la sostanziale portata prescrittiva o meno di ogni parte dello stesso; ma tale lettura metterebbe in crisi il principio di riconoscibilità dei contenuti delle norme penali e di chiara formulazione di queste, così come affermato dalla giurisprudenza costituzionale a partire dalla sentenza n. 364 del 1988, sicché, laddove il legislatore deleghi la delimitazione del contenuto del precetto ad una fonte secondaria, così come avviene nelle norme penali in bianco, quei medesimi principi di determinatezza, tassatività e riconoscibilità del precetto sanzionabile dovrebbero attagliarsi anche alla normazione di ordine amministrativo. Sulla base di tali premesse, dunque, deducono che le inosservanze contestate non rientrano affatto nell’elenco delle prescrizioni propriamente dette imposte dalla Provincia alla Crimo. Segnatamente, in relazione al mancato rispetto delle aree di deposito indicate nella planimetria dell’impianto, l’allegato A alla D.D. n. 130 del 2009, al punto 2.4 avrebbe dato facoltà di utilizzare indifferentemente i settori di raccolta dei veicoli trattati (rifiuti non pericolosi) e da trattare (rifiuti pericolosi) mentre i rifiuti non pericolosi, oggetto del contestato deposito incontrollato, si sarebbero trovati su pavimentazione idonea e, in parte, sarebbero stati protetti dalla tettoia destinata, in planimetria, al trituratore. Inoltre  la stessa autorità provinciale, con la diffida successiva al controllo da cui era poi scaturito il presente procedimento penale, si sarebbe limitata a diffidare Crimo s.r.l. affinché provvedesse, entro 30 giorni, a presentare presso i competenti uffici provinciali planimetria aggiornata dell’insediamento, così dimostrando non solo che la presenza del trituratore non fosse vincolante, ma anche che l’utilizzo dell’area in questione per il deposito dei rifiuti e non per il trituratore fosse già conforme all’autorizzazione concessa e alle cautele imposte per l’esercizio dell’attività. Quanto all’ulteriore addebito, consistente nelle mancanza delle scaffalature tipo “Cantilever”, non parrebbe corretta l’interpretazione del Tribunale di quanto stabilito al punto 2.45 delle “Prescrizioni” dal momento che queste sarebbero state di carattere limitativo o modale e avrebbero stabilito il quomodo con cui Crimo s.r.l. avrebbe potuto avvalersi dell’autorizzazione ad installare ed utilizzare le scaffalature tipo “cantilever”, restando sempre ferma la possibilità di appoggiare i veicoli a terra, purché senza sovrapporli, come invece le scaffalature in questione avrebbero consentito di fare. Deducono altresì che tali scaffalature non sarebbero mai state installate e che la Provincia non avrebbe mai imposto un termine per provvedervi né nell’autorizzazione in variante né nella diffida seguita al sopralluogo, ove veniva richiesta solo una planimetria aggiornata dell’impianto entro trenta giorni.
5. Con un quarto ed ultimo motivo, lamentano nullità della sentenza per motivazione contraddittoria in merito alla quantificazione della pena. I Giudici avrebbero irrogato un’ammenda di 4.000 euro a ciascuno degli imputati, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, a fronte di una pena base di euro 6.000,00. A fronte di una cornice edittale compresa tra 1.300,00 e 13.000,00 euro di ammenda, l’applicazione di una pena di poco inferiore al quintuplo del minimo edittale non potrebbe evidentemente rientrare nel concetto di scostamento marginale dallo stesso e renderebbe manifestamente contraddittoria la motivazione della sentenza.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
I ricorrenti lamentano, nella sostanza, che il giudice del dibattimento, rilevata l’indeterminatezza dell’imputazione, non avrebbe potuto rivolgere sollecitazione al Pubblico Ministero al fine di consentire a questi di porvi rimedio modificando l’addebito giacché una tale potestà sarebbe riconosciuta unicamente in capo al giudice dell’udienza preliminare; avrebbe invece dovuto egli provvedere a rilevare la difformità procedendo direttamente a dichiarare la nullità del decreto di citazione a giudizio.
Ciò posto, secondo un primo indirizzo di questa Corte, detto potere di sollecitazione non solo può ma deve, addirittura, essere esercitato anche dal giudice del dibattimento, diversamente incorrendo egli in abnormità; si è infatti qualificato abnorme l’operato del giudice che disponga la restituzione degli atti al P.M. per genericità od indeterminatezza dell’imputazione senza avergli appunto previamente richiesto di precisarla (da ultimo, tra le tante, Sez. 6, n. 7756 del 25/11/2015, P.M. in proc. Revellino, Rv. 266126; Sez. 5, n. 35744 del 19/05/2015, P.M. in proc. Masconni, Rv. 266415).
Si è al riguardo specificato, riprendendo l’assunto di cui alla sentenza Sez. U., n. 5307 del 20/12/2007, P.M. in proc. Battistella, Rv. 238240, come tale orientamento trovi la sua ragion d’essere nella necessità di evitare regressioni del procedimento che non siano strettamente funzionali all’assolvimento delle finalità del processo, giacché il principio di economia e di ragionevole durata dello stesso impongono che non venga adottata una declaratoria di nullità se prima non si svolga l’attività necessaria (ovvero l’invito al PM alla precisazione dell’accusa) a rimuovere la causa di nullità. Il principio, affermato dalle Sezioni Unite con riguardo al giudice dell’udienza preliminare, è stato applicato anche al giudice dibattimentale, in assenza di ragioni impeditive di ordine interpretativo, sottolineandosi che in entrambi i casi il giudice è chiamato a pronunciarsi sulla contestazione dopo che il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale e cristallizzato l’accusa da cui l’imputato è chiamato a difendersi, e che in entrambi i casi l’imputato ha diritto di far valere la pretesa a che la difesa sia esercitata avverso una contestazione chiara e completa, nel rispetto delle regole fissate dall’art. 417 cod. proc. pen., ed eventualmente modificabile nei limiti previsti dall’art. 423 cod. proc. pen., in sede di udienza preliminare, oppure dall’art. 516 cod. proc. pen., in sede dibattimentale, e affermandosi, in definitiva, che anche il giudice del dibattimento è tenuto quindi a sollecitare il pubblico ministero alla integrazione o precisazione della contestazione che presenti margini di genericità o indeterminatezza, ricorrendo alla restituzione degli atti solo qualora una tale sollecitazione non abbia trovato adeguata risposta (Sez. 3, n. 38940 del 09/07/2013, dep. 20/09/2013, P.M. in proc. Mocellin e altri, Rv. 256382; Sez. 3, n. 42161 del 09/07/2013, dep. 14/10/2013 P.M. in proc. Lindegg, Rv. 256974; Sez. 6, n. 3742 del 27/11/2013, dep. 28/01/2014, P.M. in proc. Bonanno, Rv. 258771; Sez.1 n. 39234 del 14/03/2014, P.M. in proc. Afrah, Rv. 260512).
Ora, quand’anche si intendesse, invece, come in ricorso, fare riferimento alle pronunce che hanno affermato la non necessità di previo esercizio, da parte del giudice del dibattimento, di tale potere di sollecitazione, con conseguente assenza di abnormità nel provvedimento che dichiari la nullità del decreto di citazione e ordini la restituzione degli atti al P.M. (Sez. 6, n. 23832 del 12/05/2016, P.M. in proc. De Meo, Rv. 267035; Sez. 3, n. 6044/17 del 27/09/2016, P.M. in proc. Zidi, Rv. 268898), va rilevato come, nella fattispecie qui in esame, si ponga in realtà la ben diversa questione della impossibilità in toto di esercitare una tale facoltà, questione alla quale deve darsi risposta evidentemente negativa : ove pure il giudice, sulla base appunto dell’orientamento appena menzionato, non fosse tenuto a sollecitare il P.M. alla precisazione, ciò non significherebbe che non possa ugualmente farlo, senza che nessuna conseguenza in termini di nullità possa per ciò solo, evidentemente, prodursi.
Né i ricorrenti hanno saputo spiegare in quale modo, e per quali ragioni, la previa sollecitazione del P.M. (organo comunque tenuto ad esercitare in via esclusiva l’azione penale) a precisare ed integrare l’imputazione, così realizzandosi in via anticipata il medesimo effetto che deriverebbe comunque, in tempi più dilatati, dalla pronuncia di immediata nullità con restituzione degli atti al P.M., sarebbe tale da arrecare un vulnus al diritto di difesa.
2. Anche il secondo motivo, con cui si lamenta la nullità per indeterminatezza del capo d’imputazione pur a seguito delle precisazioni e modifiche effettuate dal P.M., è inammissibile.
Va anzitutto rilevato che, non precisando il ricorso, come necessario, che analoga eccezione di nullità  sia stata svolta nel corso del giudizio di primo grado subito dopo le operate modifiche da parte del P.M. (che secondo il ricorrente non avrebbero appunto colmato il deficit di determinatezza), sul punto deve ritenersi essersi formata sanatoria di nullità di natura che, come ripetutamente affermato da questa Corte, è di natura relativa (in tal senso, Sez. 6, n. 50098 del 24/10/2013, C., Rv. 257910).
In ogni caso, quanto al merito della doglianza, l’inserimento, nella imputazione, da un lato, del riferimento al  comma 2 quale norma cui collegare  quoad poenam il comma 4  dell’art. 256 (esaurendosi il precetto di tale ultimo comma, sic et simpliciter, nella condotta di inosservanza delle prescrizioni) e, dall’altro, della disposizione dirigenziale n. 218/2006 quale provvedimento oggetto, insieme alla disposizione n. 130/2009 già originariamente insita nell’imputazione, di mancata osservanza, appare avere consentito all’imputazione di assumere compiutezza tale da rendere infondata la pretesa di nullità, essendo sufficientemente chiara la fisonomia  della condotta contestata; è infatti inequivoco come agli imputati sia stata chiaramente addebitata la inosservanza appunto delle suddette determinazioni dirigenziali specificamente relative ai tre punti espressamente e analiticamente indicati nell’addebito, ovvero la mancanza delle scaffalature, la mancanza dell’impianto di triturazione (per il quale è poi intervenuta pronuncia di assoluzione) e il mancato rispetto delle aree di deposito indicate nella planimetria, sì che non è dato comprendere ove si anniderebbe il lamentato vulnus al diritto di difesa.
Né sarebbe fondata la doglianza in ordine alla mancata indicazione della tipologia di rifiuti (e, dunque, alla diversa pena stabilita per i rifiuti pericolosi e per quelli non pericolosi) cui collegare i provvedimenti le cui prescrizioni sarebbero rimaste inosservate : dalla stessa sentenza impugnata (v. pagg.2-3) risulta chiaramente che i rilievi formulati all’esito del sopralluogo effettuato presso la sede della Crimo S.r.l. riguardavano rifiuti non pericolosi sì che, proprio con riferimento a tale, peraltro più lieve ipotesi, ben hanno potuto i ricorrenti difendersi.
Sicché, in definitiva, anche a volere esaminare nel merito la doglianza relativa, nessuna nullità sarebbe dato riscontrare nella specie avuto riguardo ai principi più volte espressi da questa Corte secondo cui in tema di correlazione tra accusa e sentenza, le norme che disciplinano le nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione e la correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza (articoli 516-522 cod. proc. pen.), avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali sono dirette, cosicché non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. In altri termini, poiché la nozione strutturale di “fatto”, contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (tra le altre, Sez. 4, n. 41663 del 25/10/2005, Cannizzo ed altro, Rv. 232423; Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucera e altri, Rv. 254419).
3. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
La sentenza impugnata ha anzitutto chiarito che il valore e la natura di “prescrizione” del provvedimento autorizzativo cui rapportare la inosservanza, sanzionata dall’art. 256, comma 4, cit., non possono esaurirsi nella mera denominazione formale della indicazione contenuta nel provvedimento, ma discendono, pur in assenza di una espressa denominazione in tal senso, dal contenuto sostanziale della indicazione. Correttamente, dunque, il Tribunale ha ritenuto di dovere attribuire il significato di “prescrizioni” anche, specificamente, a quanto contenuto nel punto 1.2 dell’allegato A (espressamente qualificata come “parte integrante” del provvedimento) della disposizione dirigenziale n.130/2019 relativa al posizionamento delle scaffalature tipo Cantilever (per le quali si disponeva la utilizzazione per il deposito degli autoveicoli bonificati e da bonificare all’interno dei settori destinati al conferimento e stoccaggio dei veicoli fuori uso prima del trattamento e in maniera tale da lasciare sufficiente spazio disponibile tra gli elementi mobili e quelli fissi) e a quanto previsto in ordine alla individuazione delle aree di stoccaggio dei rifiuti risultante dalla planimetria allegata all’atto; su tale ultimo punto, anzi, la sentenza ha posto in rilievo, ad ulteriore conferma del valore prescrittivo discendente dalla planimetria, le ulteriori indicazioni circa il deposito da effettuarsi in appositi contenitori per classi omogenee, al coperto e in condizioni di sicurezza (punto 2.21) e circa adeguati requisiti di resistenza e sistemi di chiusura dei contenitori o serbatoi.
Va infatti chiarito che le “prescrizioni” contenute o richiamate nelle autorizzazioni di cui all’art. 256, comma 4, del d. lgs. cit. sono tali non già, esclusivamente, per la denominazione espressa in tal senso loro attribuita dal provvedimento autorizzativo ma, ancor prima, ed indipendentemente da ogni possibile intitolazione, per il contenuto essenzialmente precettivo che le contraddistingue, in necessaria connessione con le finalità ed i limiti dell’autorizzazione rilasciata.
Sicché, con motivazione del tutto logica ed insindacabile, il Tribunale ha ritenuto che, in ragione dell’evidente collegamento con l’oggetto dell’autorizzazione, riguardante lo svolgimento di attività di messa in sicurezza, recupero e rottamazione di veicoli a motore e rimorchi, le indicazioni in ordine a posizionamento e modalità di utilizzo delle scaffalature Unilever e al rispetto delle aree di stoccaggio dei rifiuti ricavabili dalla planimetria allegata costituissero altrettante prescrizioni.
3.1. Ciò posto, quanto alla accertata inosservanza delle prescrizioni suddette, e, dunque, alla ritenuta integrazione del reato contestato, la sentenza impugnata, sulla base dei dati fattuali in essa richiamati, nella presente sede non sindacabili, ha posto in rilievo l’assoluta assenza delle scaffalature Unilever al momento dell’accesso ispettivo e il riscontrato deposito di cumuli di rifiuti differenziati per tipologia, quali pneumatici esausti, carcasse di motocicli, rifiuti metallici e plastici al di fuori delle aree previste dalla planimetria per lo stoccaggio degli stessi.
Di contro, le obiezioni mosse a tali conclusioni dai ricorrenti si caratterizzano essenzialmente per una diversa valutazione e prospettazione di dati fattuali, come tali non ammissibili nella presente sede.
4. Infine, con riguardo al quarto motivo, lo stesso è inammissibile.
Correttamente la sentenza impugnata ha, da un lato, irrogato la sola pena pecuniaria, stante il numero limitato di prescrizioni non osservate, e, dall’altro, individuato in concreto la ammenda in misura non strettamente coincidente, al di là del riferimento alla “marginalità” dello scostamento, con il minimo edittale attesa, comunque, la pluralità delle prescrizioni rimaste non osservate. Sicché, tenuto anche conto del costante indirizzo di questa Corte secondo cui l’irrogazione di una pena inferiore, come nella specie, al medio edittale (è stata irrogata una pena base di euro 6.000 a fronte di un massimo edittale di euro 13.000) neppure richiederebbe una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall’art. 133 cod. pen., valutati ed apprezzati tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena (Sez.3, n. 10095 del 10/01/2013, Monterosso, Rv. 255153), la censura sul punto è manifestamente infondata.
5. Il ricorso va dunque, conclusivamente, rigettato, conseguendone la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 30 ottobre 2018

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