ARIA. Il concetto di “molestia” costitutivo del reato di getto pericoloso di cose ex art. 674 c.p. e la differenza con il concetto civilistico di immissioni ex art. 844 c.c. . Cassazione Penale n. 32741/2023.

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 32741 del 27 luglio 2023 (ud. del 30 giugno 2023)

Pres. Ramacci, Rel. Mengoni

Aria. Concetto di molestia integrante il reato di getto pericoloso di cose. Art. 674 c.p. .

Al fine di definire il concetto di “molestia” che integra la fattispecie di cui all’art. 674 cod. pen., occorre distinguere tra l’attività produttiva svolta senza l’autorizzazione dell’autorità preposta, per la quale il contrasto con gli interessi tutelati va valutato secondo criteri di “stretta tollerabilità”, e quella esercitata secondo l’autorizzazione e senza superamento dei limiti consentiti, per la quale si deve far riferimento alla “normale tollerabilità” delle persone previsto dall’art. 844 cod. civ. e sempre che l’azienda abbia adottato gli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per abbattere l’impatto delle emissioni sulla realtà esterna

Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 32741 del 27 luglio 2023 (ud. del 30 giugno 2023)

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 30/11/2021, il Tribunale di Rimini dichiarava OMISSIS responsabile delle contravvenzioni di cui agli artt. 659 e 674 cod. pen. e la condannava alla pena – rispettivamente – di 300 euro e di 206 euro di ammenda.

2. Propone ricorso per cassazione l’imputata, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:

– illegittimità dell’ordinanza predibattimentale del 23/1/2018; vizio di motivazione. Il Tribunale avrebbe rigettato la richiesta di oblazione facoltativa sul presupposto che non sarebbero state eliminate le conseguenze dannose o pericolose dei reati; questo argomento sarebbe tuttavia errato, perché non terrebbe conto di una relazione dell’Agenzia regionale dell’ambiente (le cui conclusioni sono allegate al ricorso) secondo la quale la problematica delle emissioni odorigene provenienti dall’impianto sarebbe da ritenere ormai “complessivamente trascurabile, con valori di odori inferiori ai limiti di accettabilità”. Ebbene, per superare queste conclusioni l’ordinanza avrebbe dovuto contenere una motivazione rafforzata che, tuttavia, non si riscontrerebbe, così come mancherebbe ogni riferimento al fatto che la ricorrente avrebbe cessato dalla carica di responsabile dell’impianto il 16/5/2017, ossia circa 8 mesi prima della richiesta di oblazione. La stessa ordinanza, peraltro, non considererebbe che, proprio per quest’ultima circostanza, la ricorrente si sarebbe trovata nella impossibilità di eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato. Ne deriverebbe, dunque, un argomento viziato, specie considerando che la stessa sentenza attesterebbe che la OMISSIS si era attivata su più versanti per apportare migliorie al problema degli odori (installazione delle cosiddette torri di lavaggio; montaggio di un doppio portone all’ingresso dei camion; numerosi controlli e check);

– violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. Il Tribunale avrebbe immotivatamente assegnato rilievo probatorio alle sole dichiarazioni delle parti civili, senza considerare affatto le risultanze tecnico scientifiche presenti agli atti, frutto di indagini di polizia giudiziaria e di enti pubblici specializzati (con particolare riguardo ai cd. “nasi elettronici”); sebbene, dunque, questi accertamenti avessero evidenziato dati assolutamente compatibili con i limiti prescritti, il Giudice non ne avrebbe tenuto conto, criticando tali sistemi di rilevazione – ed i loro risultati – con mere congetture, come un’indimostrata imprecisione investigativa o una certa malizia da parte della ricorrente (sui chili di rifiuti movimentati nei giorni del controllo). La sentenza, dunque, avrebbe potuto superare questi accertamenti tecnici soltanto con una motivazione specifica e rinforzata; altrimenti, in caso di dubbi circa l’affidabilità degli strumenti, il Giudice avrebbe dovuto disporre una perizia;

–    violazione di legge e vizio di motivazione quanto al reato di cui all’art. 674 cod. pen. La sentenza avrebbe condannato la ricorrente nonostante il mancato superamento dei valori limite previsti dalle autorizzazioni e nonostante la stessa si fosse pacificamente attivata per apportare migliorie al problema relativo alla dispersione degli odori; la stessa decisione, inoltre non avrebbe indicato quali attività, più efficaci, sarebbero state tecnicamente attuabili e soggettivamente esigibili all’imputata. A ciò si aggiunga che la Corte di cassazione, con numerose sentenze, avrebbe affermato che nel caso di emissioni contenute nei limiti e provenienti da attività autorizzate, come nel caso in esame, opererebbe una presunzione di legittimità del comportamento, pena l’evidente svuotamento dell’intera disciplina. La sentenza, ancora, sarebbe viziata per erronea applicazione della legge extrapenale, quale l’art. 844 cod. civ., perché affermerebbe che – a prescindere dallo sconfinamento oltre i limiti contenuti nell’autorizzazione – il reato sarebbe comunque configurabile nel caso di superamento della soglia di normale tollerabilità. Ebbene, questa ipotesi potrebbe dar luogo, al più, ad una responsabilità civilistica, mentre non sarebbe sufficiente a configurare la consumazione del reato, per la quale sarebbe necessaria la prova del superamento dei limiti fissati dalla legge o dal provvedimento autorizzativo;

–    violazione degli artt. 659 cod. pen., 10, comma 2, l. 26/10/1995, n. 447. La ricorrente sarebbe stata condannata anche con riguardo ai rumori, sul presupposto che l’attività di triturazione del legno (preliminare a quella di smaltimento) fosse eccedente rispetto alle normali modalità di esercizio; al riguardo, tuttavia, la motivazione risulterebbe congetturale, se non apparente, in quanto nessun atto del processo confermerebbe questa circostanza e neppure la sentenza sarebbe chiara sul punto. Si contesta, poi, che sarebbe stata riconosciuta la fattispecie di cui all’art. 659, comma 1, cod. pen., mentre il corretto inquadramento sarebbe stato quello del comma 2, relativo al caso di professioni o mestieri rumorosi (come quella in esame). La fattispecie più corretta, peraltro, sarebbe quella di cui all’art. 10, comma 2, citato, che prevede un illecito amministrativo per il caso in cui, nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore, si superino i valori limite fissati ai sensi della stessa legge; il Giudice, errando, avrebbe riferito questa ipotesi al solo caso di superamento dei limiti differenziali, che peraltro si sarebbe verificato nel caso di specie. Il possibile concorso di quest’ultima norma e dell’art. 659, comma 2, cod. pen., infine, comporterebbe l’applicazione della prima, in quanto disposizione speciale;

–    si contesta, poi, il mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i due reati, pur in presenza di un medesimo arco temporale, dello stesso esercizio di smaltimento di rifiuti, del medesimo bene giuridico; questa decisione, peraltro, non sarebbe affatto motivata;

–    infine, è lamentata la mancanza ed apparenza della motivazione con riguardo alla quantificazione del danno (60.000 euro), che sarebbe stata individuata senza alcun percorso argomentativo e senza indicazione dei parametri impiegati.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso risulta infondato e la sentenza deve essere annullata senza rinvio per intervenuta prescrizione dei reati. Si precisa preliminarmente, peraltro, con riguardo alla fattispecie di cui all’art. 659, comma 1, cod. pen., che non si pone alcuna questione con riguardo alla sopravvenuta procedibilità a querela, di cui al d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in quanto la costituzione di parte civile è stata ammessa anche con riferimento a questa fattispecie, così da emergere adeguata la manifestazione della volontà punitiva da parte della persona offesa (tra le altre, Sez. 3, n. 19971 del 9/1/2023, Antonelli, Rv. 284616).

4. Il primo motivo, con il quale si contesta il rigetto della richiesta di oblazione quanto ai capi 1) e 2), di cui all’ordinanza del 23/1/2018 (allegata all’impugnazione), non può essere accolto. Con argomento in fatto non censurabile in questa sede, il Tribunale ha invero affermato che le parole della parte civile attestavano il permanere delle condizioni che ne avevano legittimato la costituzione in giudizio, quantomeno fino al settembre 2017, così da non potersi sostenere che fossero state eliminate le conseguenze dannose o pericolose del reato. Ancora, il Giudice ha rilevato che anche la documentazione prodotta dalla difesa, pur indicando una riduzione delle immissioni rumorose ed odorifere, non consentiva comunque di dichiarare la cessazione di tali effetti. Infine, l’ordinanza ha sottolineato che la riconducibilità di queste emissioni ai limiti di tolleranza ed ai limiti legali avrebbe costituito oggetto dell’istruttoria, che ben avrebbe potuto consegnare al Giudice anche una differente valutazione.

La motivazione dell’ordinanza, dunque, risulta adeguatamente sviluppata e non merita censura.

5. Con riguardo, poi, al secondo motivo di ricorso, secondo cui il Tribunale avrebbe conferito rilievo probatorio soltanto alle dichiarazioni delle parti civili, privando di significato – con affermazioni apodittiche – i risultati degli accertamenti tecnici, la censura risulta ancora infondata.

5.1. La sentenza di condanna, infatti, si basa prioritariamente sulle dichiarazioni delle parti civili Binotti e Franceschini – e sulle deposizioni di “tutti i testi” indotti dal Pubblico Ministero, “del medesimo tenore” – che, con affermazioni attendibili, avevano descritto quali pessimi odori e quali rumori provenissero dall’impianto di recupero di rifiuti, con la conseguente insostenibilità delle ordinarie attività di vita quotidiana, di riposo e di benessere dentro le proprie abitazioni.

5.2. Di seguito, il Tribunale ha richiamato le conclusioni dei consulenti tecnici del Pubblico Ministero, i quali avevano riscontrato alcune criticità nell’impianto, tali da incidere sulle immissioni odorifere: 1) gli effetti del versamento del digestato sui rifiuti, all’interno delle camere di digestione; 2) la composizione dei biofiltri utilizzati per temperare l’odore dei rifiuti; 3) l’iniziale presenza di un solo portone sulle camere di scarico della spazzatura, all’arrivo dei camion, poi sostituito – sotto la gestione della ricorrente – da un meccanismo di chiusura più efficace, sebbene non risolutivo (all’alzarsi del portone, infatti, l’impatto olfattivo si avvertiva forte; 4) i nasi elettronici. A quest’ultimo riguardo, molto trattato nel secondo motivo, la sentenza ha sottolineato, per un verso, che le rilevazioni effettuate due volte l’anno dalla società e dall’ARPA avevano dato misurazioni conformi ai limiti di legge, come sostenuto dalla difesa, ma, per altro verso, che erano risultate criticità nell’uso di questi apparecchi, posizionati per troppo poco tempo (10% l’anno nei centri abitati e 15% l’anno nelle zone industriali, per 15 giorni, due volte l’anno) ed incapaci di cogliere quanto l’olfatto umano coglie come “disgustoso” senza una specifica istruzione su quel tipo di odore.

5.3. La presenza di tali criticità e le concordi dichiarazioni dei testi escussi – parti civili e non – hanno quindi condotto il Tribunale a ritenere riscontrata la violazione dell’art. 674 cod. pen., con ragionevole esclusione di ulteriori ed alternative cause di immissioni malevole. Non un ragionamento congetturale, dunque, come contestato nel ricorso, ma una lettura non manifestamente illogica delle risultanze istruttorie, complessivamente valutate; una lettura che, peraltro, non può essere contestata in questa sede con il richiamo ad una possibile perizia o ad ulteriori esiti dibattimentali che il Tribunale non avrebbe valutato (come le recensioni sull’agriturismo della parte civile Binotti), perché argomento di puro merito non consentito di fronte alla Corte di legittimità.

5.4. Ancora con riguardo alla contravvenzione di cui al capo 1), poi, la difesa lamenta (con il terzo motivo) che la stessa sentenza avrebbe riconosciuto gli interventi migliorativi effettuati dalla ricorrente (l’installazione delle cd. torri di lavaggio; il doppio portone; i numerosi controlli per monitorare il livello olfattivo), salvo poi condannarla, peraltro senza precisare quali altre opere sarebbero state “tecnicamente fattibili e soggettivamente esigibili”. Ebbene, la Corte rileva l’infondatezza anche di questa tesi, in quanto – a fronte di un oggettivo riscontro alla condotta contestata – avrebbe costituito onere della difesa allegare – e dimostrare – l’impossibilità di intervenire ulteriormente e, dunque, l’assenza di ogni profilo di rimproverabilità.

5.5. Quanto, poi, alla configurabilità del reato pur in presenza di un’attività autorizzata, e pur a fronte di valori di emissione dei quali non è stato provato il superamento dei limiti di legge, deve essere confermata la conclusione cui è pervenuto il Tribunale. Merita di essere qui ribadito, infatti, il costante principio secondo cui  al fine di definire il concetto di “molestia” che integra la fattispecie di cui all’art. 674 cod. pen., occorre distinguere tra l’attività produttiva svolta senza l’autorizzazione dell’autorità preposta, per la quale il contrasto con gli interessi tutelati va valutato secondo criteri di “stretta tollerabilità”, e quella esercitata secondo l’autorizzazione e senza superamento dei limiti consentiti, per la quale si deve far riferimento alla “normale tollerabilità” delle persone previsto dall’art. 844 cod. civ. e sempre che l’azienda abbia adottato gli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per abbattere l’impatto delle emissioni sulla realtà esterna (tra le altre, Sez. 23582 del 13/7/2020, Alborè, Rv. 279880; Sez. 3, n. 54209 del 23/10/2018, Tirapelle, Rv. 275298). Ebbene, proprio di questi parametri si è avvalso il Tribunale di Rimini, che ha riconosciuto l’evento di molestia (quale fastidio, disagio e disturbo patito nelle normali attività della vita) in forza delle concordi dichiarazioni delle parti civili e dei testimoni non costituitisi tali, riscontrandone la sicura fonte nell’impianto in oggetto e nelle sue criticità, sopra indicate, che la ricorrente non aveva affrontato con interventi tendenzialmente risolutivi. Dal che, con logico e corretto argomento, la consumazione del reato di cui all’art. 674 cod. pen., pur in presenza di un’attività autorizzata e senza evidenze del superamento dei limiti di legge.

6. Con riferimento, poi, alla contravvenzione ex art. 659 cod. pen., la sentenza ha rilevato – con argomento in fatto – che nel caso di specie si era verificato un eccesso di normali modalità di esercizio, anche determinato dal continuo trituramento di materiale ligneo e dalla continua presenza di rumori cicalini, come concordemente riferito dai testimoni; dall’esame dei consulenti, inoltre, era emerso che a finestre chiuse i rumori erano “normalmente tollerabili”, mentre a finestre aperte erano “non tollerabili”, così da registrare il rispetto del criterio amministrativo dell’accettabilità, ma non quello differenziale. Ha trovato applicazione, dunque, il costante principio secondo cui, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l’esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso integra: a) l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; b) il reato di cui al comma 1 dell’art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o l’attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; c) il reato di cui al comma 2 dell’art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della autorità che regolano l’esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995 (Sez. 3, n. 56430 del 18/7/2017, Vazzana, Rv. 273605; successivamente, tra le non massimate, Sez. 1, n. 130 dell’11/10/2022, Chiavaro; Sez. 3, n. 49467 del 28/10/2022, Buccolieri; Sez. 3, n. 38857 dell’8/6/2022, Ghiringhelli).

6.1. Aderendo a tale indirizzo, dunque, il Tribunale ha superato la quarta censura del ricorso, con la quale si introduce un argomento di puro merito, quindi inammissibile in questa sede, quale il difetto di prova sul fatto che l’attività di triturazione del legno, preliminare allo smaltimento, sarebbe stata esercitata in termini eccedenti il normale svolgimento dell’esercizio; con la stessa censura, peraltro, è stato sollecitato un inquadramento della condotta nel comma 2 dell’art. 659 cod. pen., o nell’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, l. n. 447 del 1995, in contrasto con la costante giurisprudenza di legittimità, appena richiamata, ed alla quale occorre qui dar seguito.

7. Con riguardo, poi, al quinto motivo di ricorso, che lamenta il mancato riconoscimento della continuazione tra le due fattispecie, pur ricorrendone i presupposti, basti qui affermare che l’applicazione dell’istituto non era stata richiesta dalla difesa in sede di conclusioni di merito, non potendo, dunque, formare materia di giudizio per la prima volta innanzi a questa Corte.

8. In ordine, poi, alla sesta censura, che lamenta l’assoluta carenza di motivazione in ordine al danno liquidato alla parte civile “Comitato Rimini Uptown” (nella misura equitativa di 60.000 euro), si osserva che il Tribunale l’ha individuata con riguardo all’entità delle molestie ed alle loro tempistiche, “anche in ragione di un bilanciamento di interessi da valutare tra l’attività produttiva contenente caratteri e profili di interesse pubblico (trattandosi di smaltimento di rifiuti) e il quantum dell’accertato superamento della soglia di tollerabilità”.

8.1. Anche sul punto, dunque, la motivazione redatta dal Tribunale appare congrua e priva di illogicità manifesta; con la precisazione, peraltro, che in tema di risarcimento del danno, la liquidazione dei danni morali, attesa la loro natura, non può che avvenire in via equitativa, dovendosi ritenere assolto l’obbligo motivazionale mediante l’indicazione dei fatti materiali tenuti in considerazione e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente in base a quali calcoli è stato determinato l’ammontare del risarcimento (tra le altre, Sez. 6, n. 48086 del 12/9/2018, B., Rv. 274229).

9. Infine, in relazione al rigetto della rinnovata richiesta di oblazione, il Tribunale ha rinviato all’ordinanza del 23/1/2018, già richiamata, evidenziando che non ne erano mutati i presupposti; la difesa contesta tale motivazione, lamentandone l’illogicità e l’apparenza, dato che nessun accertamento sarebbe stato compiuto circa la permanenza o meno delle conseguenze dannose o pericolose del reato, la cui consumazione risulterebbe peraltro cessata nel gennaio 2018, come la stessa sentenza avrebbe chiarito.

Questa tesi non può essere accolta.

Se è corretto, infatti, che la contestazione dei reati nn. 1) e 2) è mossa fino al gennaio 2018 (come da modifica effettuata dal pubblico ministero in corso di istruttoria), è altresì vero che non risulta offerto al Giudice alcun elemento – neppure citato nel ricorso – in forza del quale potersi affermare che gli effetti dannosi o pericolosi dei reati siano cessati per condotta della ricorrente; a nulla rilevando, peraltro, che la stessa fosse cessata dalla carica di responsabile nel maggio 2017.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, agli effetti penali, per essere le contravvenzioni ascritte estinte per prescrizione (pur tenuto conto del periodo di sospensione, come indicato in sentenza); agli effetti civili, invece, il ricorso deve essere rigettato.

Segue la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che si liquidano in complessivi euro 3.686, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali, perché i reati sono estinti per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili. Condanna l’imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3686, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 30 giugno 2023

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